di Aldo Giannuli.
La riforma del Senato, se non altro, ha avuto il merito di portare allo scoperto una serie di questioni di alto profilo, innescando undibattito come non se ne sentivano da tempo. Anche se si fa sentire pesantemente l'anchilosi intellettuale di trenta anni di torpore delle culture politiche. Il dibattito è interessante, ma confuso e giocato su "quel che sembri", per cui Renzi sembra l'innovatore e chi gli si oppone un unico fronte di conservatori amici della casta. Le cose non stanno così ed una breve puntualizzazione servirà a dissolvere qualche equivoco.
La riforma del Senato, se non altro, ha avuto il merito di portare allo scoperto una serie di questioni di alto profilo, innescando undibattito come non se ne sentivano da tempo. Anche se si fa sentire pesantemente l'anchilosi intellettuale di trenta anni di torpore delle culture politiche. Il dibattito è interessante, ma confuso e giocato su "quel che sembri", per cui Renzi sembra l'innovatore e chi gli si oppone un unico fronte di conservatori amici della casta. Le cose non stanno così ed una breve puntualizzazione servirà a dissolvere qualche equivoco.
Il bicameralismo, storicamente, sorge in Inghilterra, con la rivoluzione del 1689, dal compromesso fra borghesia emergente -Camera dei Comuni- e principio di nomina regia -Camera dei Lord-. Poi questa soluzione sarà adottata dal "compromesso orleanista" delle monarchie parlamentari nel continente. Con l'avvento delle repubbliche in gran parte di Europa, nel 1918, la logica avrebbe voluto che il Senato sparisse, non avendo più il suo referente fondativo, ma le cose non andarono così, perché l'ala moderata dei nuovi sistemi politici ottenne di conservare il bicameralismo, diffidando del Parlamento monocamerale nel quale vedeva l'incarnazione dell'assemblearismo giacobino.
Una seconda camera, con accorgimenti diversi (diversa base elettorale, caratterizzazione territoriale, età degli elettori, presenza di membri di diritto o di nomina presidenziale ecc) avrebbe diviso il Parlamento dando più ruolo al capo dello Stato ed all'esecutivo. E questa fu la soluzione adottata dalla Costituente, che rispondeva all'idea moderata della democrazia in essa prevalente, nella quale incise anche la tradizione municipalistica del partito cattolico, la cui concezione della democrazia esaltava il ruolo delle autonomie (il riferimento al Senato eletto "a base regionale"). Per di più, con una concessione alla concezione notabilare propria della vecchia guardia liberale: il collegio uninominale, che poi venne riassorbito nel sistema proporzionale con l'apposita legge elettorale. I dc Emilio Tosato e Costantino Mortati furono espliciti nel richiamare i rischi i una "dittatura dell'Assemblea" e sul ruolo di mediazione del governo, nel caso di conflitto fra le due Camere.
C'è chi pensa, del tutto infondatamente che la soluzione bicamerale fosse voluta della sinistra (magari immaginando una Assemblea Costituente fatta di partigiani, cosa assolutamente non vera). In realtà il Pci era per il parlamento monocamerale e finì per accettare a malincuore la soluzione bicamerale voluta da Dc, liberali e destre.
In realtà nel quarantennio della Prima Repubblica, la funzione del bicameralismo fu abbastanza limitata e, nel complesso, si risolse in un rallentamento dei lavori parlamentari, ma ebbe anche un effetto forse non previsto: per l'esigenza di ottenere la maggioranza in entrambe le Camere, si determinò una spinta ad allargare la base delle coalizioni parlamentari, in modo da coprire eventuali margini di rischio in una delle due assemblee. E, infatti, quando, come nel caso del secondo governo Andreotti (1972-3) i margini al Senato furono molto ristretti, il governo ebbe vita breve e difficile.
Le cose sono poi cambiate con l'avvento del maggioritario che, per sua natura, blinda le coalizioni, non consentendo allargamenti successivi. Ma la diversa composizione del corpo elettorale delle due camere e la loro diversa base elettorale (nazionale per la Camera, regionale per il Senato) determinava il rischio di maggioranze differenziare nei due rami del Parlamento, cosa cui si andò molto vicini nel 1994 e nel 2006 e poi effettivamente accaduta nel 2013. Infatti, nessun paese a regime parlamentare e maggioritario ha un bicameralismo perfetto, cosa di cui, colpevolmente, non tenne conto la Corte Costituzionale nel 1993, quando ammise il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella, che dette il via al processo di scasso costituzionale di fronte al quale ci troviamo.
Dunque, in sé il bicameralismo perfetto è una soluzione moderata e poco funzionale, e una razionalizzazione del sistema andrebbe nel senso del suo superamento. Ma la questione non può essere affrontata solo sulla base di astratte considerazioni sistemiche, ed occorre tener conto anche delle concrete dinamiche politiche in atto. Fra le devastanti conseguenze del passaggio al maggioritario, c'è la deriva populista e la formazione di partiti personali con la conseguente tendenza a semplificare il processo decisionale, sino a ridurlo alle sole decisioni del leader. E il successo di Renzi in un partito come il Pd conferma questa tendenza anche se in forma caricaturale.
In questo quadro, l'eliminazione tout court del Senato finisce per favorire ulteriormente la deriva liberticida ed anticostituzionale del nostro ordinamento. Dunque, è del tutto ragionevole opporsi alla proposta di Renzi, ma la soluzione non può essere la difesa dell'esistente che, oltretutto, è una prospettiva perdente. Se andassimo ad un referendum di ratifica della riforma di Renzi, non c'è dubbio, almeno per ora, che lo perderemmo. Sarebbe solo un plebiscito per lui che passerebbe come l'eroe anticasta.
La strada deve essere un'altra. C'è un difetto di base nel nostro sistema: la scarsa funzionalità dei meccanismi di controllo e garanzia. Che senso ha discutere la pregiudiziale di costituzionalità in una Assemblea in cui c'è già una maggioranza precostituita che la respingerà? E che garanzia di controllo sull'operato del governo potranno dare le commissioni di inchiesta o quelle di vigilanza (Servizi Segreti e Rai) elette dalla stessa maggioranza che concede la fiducia al governo? E non cambia niente se la presidenza di alcune di queste commissioni viene data a partiti di opposizione, tanto poi la maggioranza dei commissari resta di colore governativo.
A questo punto, potrebbe risultare utile dividere le funzioni: quelle di indirizzo politico (fiducia al governo, mozioni di politica estera e attività legislative) alla Camera dei deputati e, invece, funzioni di controllo (interrogazione, inchiesta, commissioni di vigilanza, messa in stato d'accusa del Presidente, nomina delle authority ecc) e digaranzia costituzionale (pregiudiziali costituzionali, elezione dei 5 membri della Consulta e del terzo del Csm) al Senato. Magari aggiungendo anche il potere di ammonizione del Capo dello Stato che, senza incorrere nei reati di attentato alla Costituzione ed alto tradimento, faccia uso improprio dei suoi poteri.
Ovviamente un' assemblea del genere non può essere espressione dei partiti, per cui dovrebbe essere eletta con un metodo né maggioritario né proporzionale, ma con candidature individuali in ampi collegi plurinominali (ad es le circoscrizioni delle europee o, anche, una sola circoscrizione nazionale). Aggiungo: con ildivieto esplicito di simboli di partito, di dichiarazioni di voto o attività di propaganda in qualsiasi forma di partiti a favore di candidati, attività che, invece, potrebbero essere svolte dalleassociazioni culturali, imprenditoriali, sindacali ecc. della società civile. Ovviamente risulterebbero eletti quanti ottengono il maggior numero di voti. Un Senato nemico e controllore della Casta, il carabiniere della Costituzione. E per un Senato del genere 70 o 80 membri sarebbero più che sufficienti.
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