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mercoledì 2 aprile 2014
Il silenzio di Renzi sulla politica economica
La discussione sulla riduzione del cuneo fiscale ventilata dal governo Renzi si è concentrata finora sul problema delle coperture finanziarie. Ma la questione, se posta in questi termini, non aiuta a centrare il vero obiettivo: la necessità di quelle politiche economiche ed industriali che, ad oggi, sono le grandi assenti nei proclami del governo.
di Roberto Romano, da il manifesto, 1 aprile 2014
Discutere delle coperture finanziarie delle proposte del governo Renzi, domandandosi da dove recupererà le risorse, non aiuta la discussione. Il vincolo finanziario è un problema che dovrà essere discusso indipendentemente dalle politiche adottate. Anche le politiche di sinistra dovrebbero rispondere a questo vincolo. Alcuni calcoli sull’incidenza finanziaria dei provvedimenti (immaginati) dal nuovo governo sono state fatte. Le stime passano da 100 a 120 mld di euro. Solo per dare conto delle voci più importanti, ricordo l’obbiettivo di retrocedere 60 mld di euro di debiti pubblici verso i privati, i 10 mld di riduzione del cuneo fiscale.
Naturalmente non manca mai l’arma letale della spending review, la quale dovrebbe realizzare risparmi di spesa non inferiori a 30 mld. La spending review è diventata il bancomat della pubblica amministrazione. Perotti (Il sole 24 ore, 27 febbraio), consigliere di Renzi, trova financo le risorse per finanziare la riduzione del cuneo fiscale: invece di utilizzare i fondi europei per industrializzare la ricerca, sostanzialmente è questo l’obiettivo comunitario, utilizziamo quelle risorse, tra i 6 e gli 8 mld, per ridurre il cuneo fiscale. Le politiche europee hanno tanti difetti, ma tra l’industrializzazione delle ricerca e la riduzione del cuneo fiscale sappiamo cosa è più utile all’Italia.
Quindi discuto le politiche di Renzi: inutili, dannose, inefficaci per la semplice ragione che Renzi non conosce il problema di struttura del Paese.
Qualche volta mettersi nei panni di chi deve risolvere i problemi aiuta. Devi scegliere un approccio e sulla base dello stesso strutturi le policy. Infatti, la crisi economica intervenuta nel 2007 ha riproposto dei temi che sembravano usciti dal dibattito politico ed economico. Le domande sulla sostenibilità dello stato sociale e sulla “libertà da”, da intendersi come libertà dal bisogno, sono emerse in tutta la loro drammaticità. Si affacciano nuove figure di lavoro, nuove povertà e nuove inquietudini.
In questi casi è opportuno riprendere le motivazioni dello stato sociale e delle politiche pubbliche necessarie. Lo sradicamento della povertà e la libertà dal bisogno sono il tratto costitutivo delle economie industrializzate. Riprendendo William Beveridge (1942–1945), lo Stato deve assolvere a tre compiti specifici. Il primo è legato alla necessità di introdurre un sistema previdenziale unificato e obbligatorio per tutti i cittadini, capace di coprire i periodi di interruzione o perdita della capacità di guadagno; il secondo interessa l’organizzazione di un sistema coerente e articolato di servizi sanitari, gratuiti e aperto a tutti, pensati anche in un ottica di monitoraggio e prevenzione delle malattie; il terzo è l’infrastruttura dello stato sociale, ovvero la realizzazione della piena occupazione che è intesa come requisito indispensabile per poter mettere in atto e far camminare correttamente il “piano di protezione sociale”. Restando alla lettera dei principi costitutivi dello stato sociale, la piena occupazione è l’alfa e l’omega della politica economica.
L’arretramento del Pil, la riduzione degli occupati a la conseguente crescita della disoccupazione, la polarizzazione del reddito, che è una delle cause del consolidamento della povertà, hanno eroso quel senso comune del ben-essere. È soprattutto nelle regioni-paesi industrializzate che non hanno fatto politica economica e industriale che il fenomeno diventa manifesto. Se il lavoro è parte integrante dello stato sociale e della società nel suo insieme, la perdita del lavoro assume contorni sociali e psicologici drammatici. C’è una grande differenza tra uscire dalla povertà in un paese povero, ed entrare nella povertà dopo che si è conseguito uno status sociale in un paese industrializzato. Cambia il segno e la natura della povertà. In altre parole si è arrestato l’ascensore sociale. Meglio ancora, l’ascensore sociale ha cominciato a funzionare al contrario. Dare conto del perché e del come è un passaggio fondamentale.
La povertà ha diverse declinazioni: culturale, generazionale, scientifica, reddituale o di accesso a determinate categorie di beni e servizi. La pubblicistica economica combina due aspetti: 1) il reddito disponibile sufficiente per 2) accedere a determinati beni e servizi. Con una avvertenza: il reddito e la disponibilità di beni e servizi sono condizionati dalle variabili macroeconomiche, dalla disponibilità di lavoro e da un reddito coerente con la produttività dei fattori.
Senza esacerbare le informazioni di cui sopra, è appena il caso di ricordare la mancata crescita del PIL italiano rispetto alla media europea è di quasi 17 punti (2004–2013). Questa mancata crescita ha compromesso il così detto ascensore sociale. In effetti, con la crisi del 2007 sono venuti meno alcuni tratti caratteristici dello stato sociale beveridgeriano. Da un lato gli alti investimenti delle imprese italiane, in linea con quello delle imprese europee, non ha prodotto il moltiplicatore coerente, dall’altro lato è stata compromessa la struttura produttiva che domanda lavoro. Infatti il tasso di disoccupazione reale dell’Italia, tra il 2004–2013, cresce del 31%.
A mio parere il nodo che il paese deve affrontare è quello della piena occupazione nel senso di una adeguata politica economica e industriale. A me non sembra che Renzi abbia formulato una qualsiasi proposta sul tema.
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