di Andrea Muratore
Stando alle ultime rilevazioni, la disoccupazione nel Regno Unito appare assestata attorno al 4%, livello considerato fisiologico e contingentale in un contesto di economia avanzata.
Il jobs miracle di cui ha parlato l’Economist, dunque, appare proseguire dopo le rilevazioni dell’Ufficio nazionale di statistica del Regno Unito (Ons), che per il terzo trimestre ha rilevato una crescita in termini nominali dei salari, ancora lontani tuttavia dal livello pre-crisi, vicina al 3%.
E se per la crescita espansiva dell’economia la politica della Bank of England ha giocato un ruolo sostanziale, ora è proprio l’avvicinamento del Regno Unito alla piena occupazione e l’imminenza della Brexit, che aumenta l’incertezza sul futuro afflusso di lavoratori stranieri, a guidare la corsa dei salari: un duro schiaffo della realtà agli assunti della teoria economica mainstream, tanto in voga nell’Unione Europea, che vorrebbe dimostrare una correlazione inversa tra crescita dell’occupazione e salari reali dei lavoratori.
Salari in crescita e profitti aziendali in calo nel Regno Unito
Con la disoccupazione ai minimi da 43 anni, infatti, la crescita reale (al netto, cioè, dell’inflazione) su base trimestrale dei salari, bonus esclusi, è stata pari allo 0,5%. La crescita reale, da agosto 2017 a agosto 2018, è stata invece pari a un rotondo 3,1%.
A decrescere, in termini assoluti, sono i profitti corporativi: Luigi Ippolito del Corriere della Sera ha definito un “meccanismo perverso” il fatto che molte imprese, per la corsa verso l’alto dell’occupazione e l’espansione economica, si trovino a dover innalzare i salari ai dipendenti, principalmente esponenti della classe media, al fine di trattenerli nelle loro organizzazioni. Ci troviamo discordi con quanto scritto dall’articolista di Via Solferino: negli anni della crisi, infatti, i salari dei lavoratori britannici hanno conosciuto quella che Frances O’Grady, segretario del Trades Union Congress, ha definito “il più grave tracollo in 200 anni”, mentre i profitti corporate delle imprese nel Regno Unito hanno continuato a galoppare.
Giusto per fare un raffronto, l’Ons ha certificato che nel secondo trimestre del 2018 i profitti delle imprese non finanziarie quotate nella City sono saliti del 12,7% su base annua: una statistica che induce a ritenere benvenuto, piuttosto che dannoso, un riequilibrio proficuo sotto il profilo economico e sociale.
Il cortocircuito della finanza
Certamente il modello economico dominante, che alla massimizzazione del valore prodotto dal fattore produttivo lavoro preferisce smaccatamente le rendite da capitale, va in cortocircuito quando la realtà contraddice aspirazioni interpretate dai suoi fautori come dogmi inscalfibili: e non è dunque un paradosso che la rilevazione dell’ottimo stato di salute dell’occupazione nel Regno Unito e della crescita di benessere dei cittadini abbia portato una fase di turbolenza sui mercati.
Come scrive il Financial Times, diverse imprese hanno subito sonori tonfi borsistici nella seconda settimana di novembre dopo l’annuncio di incrementi salariali generalizzati, che precedono del resto la riforma sul salario minimo, destinato ad aumentare da 7,83 a 8,21 sterline all’ora dal 2019. Tra queste si segnalano Ryanair, Royal Mail, la compagnia di ristorazione Jd Wetherspoon e la società di sicurezza G4S.
Certamente la situazione attuale del Regno Unito non sfiora la completa perfezione, dato che in numerose sacche di lavoro qualificato l’offerta non riesce a stare al passo con una domanda crescente che si affida sull’estero, ma la contraddizione tra le indicazioni di buona salute dell’economia britannica e dell’occupazione rilevata dalle statistiche ufficiali e l’andamento delle grandi imprese in borsa è stridente. E, certamente, il “meccanismo perverso” appare sicuramente più sbilanciato dal lato delle grandi imprese, che vedono come una sconfitta un risultato economico che potrebbe avere, sul lungo periodo, conseguenze positive per la loro presenza sul mercato. Segno della dittatura esercitata dalla redditività di breve periodo su una finanza che fatica ancora a scrollarsi di dosso le scorie che hanno portato alla Grande Crisi.
Fonte: Stop Euro
Nessun commento:
Posta un commento