Si può continuare a tenere l’Italia nella stagnazione? Con una crescita inesistente? O basata sulle esportazioni? Con un tasso di disoccupazione al 10.1%? E un eccesso di risparmio non utilizzato che è destinato a crescere impoverendo ancor di più il Paese? Con la domanda dei consumatori italiani asfittica? E una divisione netta tra nord produttivo e sud sempre più povero e arretrato? (frase quest’ultima intrisa anche di luoghi comuni)
Sui media mainstream italiani si paragona il bilancio di una famiglia a quella di un Paese, anche se sono contesti diametralmente differenti.
Nel mainstream gli economisti (in verità solo quelli del pensiero neoliberista) sono scienziati, quasi lavorassero con alimbicchi e provette. Nel mainstream il debito pubblico italiano è cresciuto con il crescere della spesa dello Stato.
Nel mainstream gli italiani sono degli irresponsabili spreconi. Nel mainstream se uno Stato ha un debito, come fosse una famiglia o un singolo, lo deve ripagare, restituendolo. Non si sa bene come ma deve farlo.
Comunque la vediate, favorevoli o contrari al governo attuale, un Paese non è affatto una famiglia: una collettività nazionale è formata da famiglie, imprese, amministrazione pubblica e resto del mondo; è l’abc che si studia al primo anno di università in Macroeconomia Uno.
Gli economisti non sono scienziati con alambicchi perché l’economia non è una scienza esatta. I mercati non sono razionali e non reagiscono allo stesso modo a parità di condizioni. Il mercato non è né efficiente né giusto.
Il debito italiano invece è cresciuto con il crescere degli interessi sul debito, non con un aumento della spesa. Gli italiani, anche se hanno uno Stato fatto di infinite sacche di inefficienza e ruberie, non sono affatto spreconi (almeno guardando i dati macroeconomici).
Negli ultimi anni la differenza tra tutte le spese e tutte le entrate dello Stato ha prodotto un avanzo primario tra i più alti d’Europa. Restiamo dei grandissimi risparmiatori, nonostante ci siano da pagare gli interessi sul debito.
Il debito di uno Stato non c’entra alcunché con il debito di una famiglia o di un singolo (il Pil di uno Stato non è il bilancio di una famiglia. Il bilancio dello Stato è composto da altre voci, ha altre variabili e altre dinamiche).
Durante la durissima recessione del 1929 il più grande economista del Novecento, John Maynard Keynes, spiegò che solo facendo ripartire la domanda interna dei consumatori si poteva uscire dalla crisi. Certo Keynes aveve altre leve economiche, potendo condizionare la politica degli Stati Uniti, la Banca centrale, la politica delle altre banche e della finanza tramite il governo del presidente americano Franklin Delano Roosevelt, ma valgono gli stessi principi generali.
Per far ripartire la macchina occorre aumentare la domanda interna dei consumatori, bisogna cioè dare protezione sociale e lavoro alla popolazione e mettere in moto investimenti pubblici, usando la moneta e le leve fiscali.
Un esempio classico dei postkeynesiani è: supponiamo che lo Stato costruisca nel Paese una rete telematica ad altissima velocità che arrivi in tutte le case, nessun escluso, che sia gratis o a prezzi bassissimi (è un esempio, si potrebbe usare la messa in sicurezza idrogeologica o altro). Per realizzarla si dovranno comprare materiali, affittare sedi, muovere migliaia di persone, creare lavoro con l’effetto che centinaia di migliaia di persone avranno redditi che prima non avevano e che spenderanno nel mercato. Considerate, a parte gli effetti benefici su chi crea attività e imprese di una rete superveloce gratis, come ciò stimolerebbe la domanda di beni di consumo, appartamenti, servizi oltre a stimolare il commercio. A loro volta i produttori di beni di consumo e appartamenti dovrebbero far fronte a una domanda crescente, e così via. Questo meccanismo è chiamato moltiplicatore keynesiano, non ha effetti infiniti ma funziona come modalità per uscire da crisi come quelle attuali. Quando poi il sistema riparte si deve fare il contrario razionalizzando e riducendo gli interventi.
Ma l’abbandono negli anni ’70 del filone keynesiano in favore di un libero mercato senza contrappesi ha prodotto il sistema attuale, anche con la nascita dell’euro viste le modalità con le quali è stata concepita la moneta europea.
Dalla nascita dell’euro (2001-2) ad oggi il Pil italiano è pressocché rimasto identico.L’Europa è cresciuta in 15 anni del 3%, ben poca cosa. Nel 2001, l’anno dopo che era stato introdotto l’euro, l’economia Usa era solo il 13% più grande dell’eurozona; nel 2016 la differenza è diventata del 26%, come ha spiegato il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz.
L’eurozona non ha portatò prosperità agli abitanti dei Paesi europei, se non alla Germania e a Paesi strutturati allo stesso modo. Lo stesso Regno Unito che non faceva parte dell’eurozona ha lasciato l’Europa con la Brexit: la visione tedesca ha fatto perdere di fiducia nel progetto.
L’economista americano ha previsto una nuova crisi per l’euro zona. La Germania domina in Europa e con le sue strategie sulla Bce, impedisce riforme strutturali e inasprisce la condizione di difficoltà occupazionale dei Paesi più deboli. Ma viste le teorie economiche fallimentari adottate e basate sull’austerity non si potrà che peggiorare.
“Se un paese va male, è colpa del Paese; se molti Paesi vanno male, è colpa del sistema”, ha spiegato Stiglitz. L’euro per l’economista americano ha sottratto ai governi i principali meccanismi di aggiustamento (i tassi di interesse e i tassi di cambio) e anziché creare nuove istituzioni per aiutare i Paesi ad affrontare le diverse situazioni in cui si sono trovati, ha imposto politiche restrittive. La Bce non ha tra i suoi obiettivi il mantenimento di alti livelli occupazionali, ma solo quello di contenere i prezzi; è riuscita addirittura ad adottare in piena crisi economica, sia nel 2008 che nel 2011, una politica monetaria restrittiva, alzando i tassi di interesse e oggi sta smantellando il Quantitative Easing proprio mentre l’economia globale mostra segni di rallentamento.
Il problema italiano e dei Paesi che nell’eurozona non crescono, perchè la loro economia è diversa da quella tedesca, non è il debito pubblico né il rapporto deficit/Pil al 2,4 % annunciato dal governo. Ma aver messo in discussione il paradigma neoliberista. Con strumenti parziali e discutibili, certo, ma sta tutto qui il problema. Prima che accadesse lo aveva spiegato il quotidiano francese Le Figaro: “L’Italia si rifiuta di obbedire a Bruxelles”.
Ma alla fine si arriva sempre allo stesso risultato, finché la corda non si spezzerà.
I Paesi non crescono, non si crea nuovo lavoro, così viene eletto un nuovo governo che promette di negoziare meglio con i tedeschi la fine dell’austerità e le riforme strutturali. Ma non accade. Il paradigma neoliberista di controllare i prezzi non può essere messo in discussione e i governi vengono mandati a casa. Il consenso anti-establishment aumenta, così come i sentimenti antieuropei, in attesa di nuovi leader che potrebbero essere meno costruttivi degli attuali. E innescare un processo a catena in altri Paesi che non può che concretizzarsi in soluzioni sempre più radicali.
Ad ottobre, nel presentare al parlamento il Documento di economia e finanza l’economista e ministro Paolo Savona ha spiegato come il governo abbia in testa una sorta di New Deal, come fecero Roosevelt e Keynes dopo la crisi del ’29. Il governo sta cercando di far crescere la domanda interna e ridurre il rapporto debito/Pil con misure come il reddito di cittadinanza che per quanto discutibili (vista l’inefficacia dei Centri per l’impiego) potrebbero avere un effetto. “Il programma del governo è molto prudenziale sugli investimenti (si aggirano sullo 0,6-0,8%, ndr)”, ha spiegato Savona, in modo da evitare scossoni che non possiamo ancora permetteci. Ma il ministro ha anche fatto un parallelismo tra il piano Roosevelt, coibentare con il New deal il nord America industriale e produttivo con il sud agricolo e arretrato, e il piano giallo-verde per tenere uniti nord e sud Italia e dare così una scossa al sistema-Paese. Vedremo se il governo proseguirà in questa direzione e sarà determinato nel mettere in moto un vero moltiplicatore keynesiano.
In questi giorni sono in corso trattative tra l’Italia e la Commissione UE per evitare che la procedura d’infrazione contro il Bilancio del governo si trasformi in sanzioni. Forse il 2,4% verrà aggiustato al 2,2% o al 2%. Se non si trovasse un accordo (massimo entro 6 mesi) e una manovra correttiva, arriverà una multa, da 3,6 a 9 miliardi di euro. Il Consiglio Ue potrebbe anche chiedere alla Banca europea per gli investimenti di interrompere i finanziamenti verso l’Italia.
Comunque sia, prossime elezioni europee permettendo, la Bce e la Ue possono allegramente continuare a non vedere l’iceberg contro cui stanno navigando. L’Europa, area euro, ha un tasso di disoccupazione dell’8.1%. Se consideriamo anche l’area non euro abbiamo in Europa circa 18 milioni di disoccupati totali (e il numero è calcolato a dir poco in difetto). Un dato destinato a crescere e che consegna agli economisti europei il polso di una crisi di sistema difficile da capovolgere senza una cambio di paradigma.
Fonte: StopEuro
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