Ultimi Post

mercoledì 16 agosto 2017

Fortunatamente c'è ancora chi dice NO

di Teresa D'Errico

Nella società in cui viviamo, ciò che accade è presentato come naturale, la retorica del potere fa apparire come inevitabile lo status quo.

Tassazione alle stelle? “È l’Europa che ce lo chiede!”.
Riduzione dei diritti dei lavoratori, dopo anni di conquiste sindacali che avevano fatto di “pane e lavoro” un grido di lotta e di Giuseppe Di Vittorio un simbolo? “È il jobs act, la riforma del lavoro!”.




Destabilizzazione del sistema scolastico in nome di tecnicismi pseudopedagogici nobilitati con roboanti espressioni anglofone (cooperative learning, tutoring, flipped classroom …)? “È la buona scuola, la riforma dell’istruzione!”.

Ci sono, però, due diritti inalienabili che ogni cittadino mediamente istruito dovrebbe esercitare: il diritto al sospetto e quello al dissenso.
“Sospettare”, deriva dal latino sub – spicere e, in senso etimologico, vuol dire “guardare sotto”, scoprire che cosa c’è sotto la superficie delle cose, togliere la maschera a ciò che appare e avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: in una parola, diventare “apoti”, come ebbe a dire Prezzolini: saper distinguere le menzogne e non “bersele” tutte!
Al concetto del “dissentire” Diego Fusaro ha dedicato un saggio, Pensare altrimenti. L’atto del dissenso, nota l’autore, è principalmente un moto dell’animo, un’emozione, prima che un concetto; è la percezione che le cose potrebbero essere diverse da come sono, che esiste la possibilità di un’alternativa e che vale la pena immaginarla e darsi da fare per realizzarla.
Certo non è un’impresa semplice, il rischio di sentirsi come Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento, è forte. La voce rimbalzante del potere, che tocca le corde più basse del comune sentire, si insinua nelle coscienze, genera il consenso e ghettizza il dissenso.

Si comincia – come è accaduto – una campagna contro il pubblico impiego, si diffondono, attraverso i social e la stampa compiacente, immagini di qualche pur colpevole dipendente pubblico che in mutande timbra il cartellino e poi non va a lavorare, si generalizza l’esempio e si arriva facilmente a invocare lo stato emergenziale del pubblico impiego, per montare un flusso di opinioni diretto contro gli impiegati pubblici, che immediatamente diventano gli unici esemplari di un malcostume solo italico e causa principale del dissesto delle finanze dello Stato. L’indottrinamento dà presto i suoi frutti: il dipendente pubblico è un mangiapane a tradimento, un peso sociale, un lavativo che pesa sulle spalle dei contribuenti, un mantenuto!

Ne derivano l’urgenza dei licenziamenti e la drastica riduzione/rimozione di diritti, i tagli del personale.

Così lo Stato, invece di impedire, con provvedimenti mirati, che si verifichino anomalie nella condotta dei dipendenti, approfitta surrettiziamente – strumentalizzando i casi eclatanti – per attuare, attraverso interventi generalizzati, una politica vessatoria di matrice americana e condivisa dall’Europa, al solo scopo di colpire i lavoratori.
Si tratta di un fenomeno iniziato con il “jobs act”, proseguito con l’attuazione della “Buona Scuola” ed ora esteso indiscriminatamente a danno di tutti i lavoratori.

Insomma, l’obiettivo è colpire il lavoro in sé piuttosto che risolvere i singoli – spesso gravi – problemi, tuttavia imputabili esclusivamente alla responsabilità personale di alcuni individui.
Va, dunque, accolto con attenzione il monito di Fusaro: capire bene la realtà, “pensando altrimenti”.

E, in particolare, nel magma indistinto della ostilità collettiva contro i dipendenti statali – artatamente scatenata – nessuno fa caso al fatto che sono impiegati pubblici i medici che ci curano e da cui dipende la nostra salute, gli insegnanti che educano le giovani menti e su cui si regge un sistema di valori che troppo spesso si dà per scontato: i buoni sentimenti, invece, si imparano anche a scuola e una società che non valorizza gli insegnanti è una società peggiore.

Fusaro cita Gramsci: lo Stato quando vuole iniziare un’azione poco popolare crea preventivamente l’opinione pubblica adeguata.

Ancora: se l’economia è in crisi e va aiutata si dichiara, per esempio, che la scuola italiana è arretrata, va “rottamata”, i docenti sono fermi a vecchi sistemi educativi, ormai inadeguati per ragazzi che hanno innumerevoli e più veloci fonti di informazione. Come correre ai ripari? Semplicissimo: basta inventare nuove didattiche laboratoriali e digitali che determinino l’acquisto di nuove tecnologie informatiche da parte delle scuole e rendano urgente e obbligatoria la formazione dei docenti che – va sottolineato – arricchirà un sottobosco di figure gravitanti intorno al mondo-scuola (formatori, esperti, tutor, enti erogatori di certificazioni) ma del tutto estranee ad esso. La scuola diventa, così, il magico volano dell’economia italiana!

E se qualcuno sospetta o dissente, resta vox clamantis in deserto. I più, infatti, accettano come indiscutibilmente vero ciò che il potere vuol far credere. Perché? Le risposte potrebbero essere numerose, osserva ancora Fusaro: per consuetudine a dire di sì a chi governa; per convenienza: spesso il consenso, infatti, è fonte di vantaggi; si pensi al sistema scolastico così come è stato congegnato dalla legge 107/2015, la “Buona Scuola”: chi si fa animatore delle nuove didattiche palingenetiche ottiene bonus premiali anche piuttosto consistenti, con cui arrotonda il misero stipendio da docente; chi, invece, resta fedele al mandato culturale in cui ha sempre creduto e non intende barattarlo con effimeri privilegi, è biecamente guardato come conservatore e antiprogressista e se insegna bene, non importa a nessuno.
Certo, si può essere scettici sul Fusaro-pensiero; si può considerare Fusaro un ingenuo ragazzotto in cerca di visibilità, anacronisticamente ancorato alla tradizione (anche se, a ben guardare, la sua campagna a favore del recupero di pensatori come Marx e Hegel non fa una piega: è, infatti, possibile capire qualcosa del presente ignorando il passato?). Si potrebbe obiettare, poi, che Fusaro non ha inventato niente di nuovo. È vero, prima di lui molti hanno inneggiato al valore della disubbidienza: Antigone è morta per difendere la propria coscienza; Thoreau, Camus e Gandhi hanno dimostrato che – per dirla con Don Milani – l’obbedienza non è più una virtù se ti costringe a calpestare la dignità umana.

Tuttavia c’è una cosa che in Pensare altrimenti ha davvero pregnanza e non è la denuncia degli arcana imperii che soggiogano masse anestetizzate. La proposta forte e appassionata che viene da questo saggio consiste nell’invito ad abitare poeticamente il mondo. In una realtà ideologicamente globalizzata, allineata, cioè, al pensiero unico neoliberista e colonizzata dalle logiche produttivistiche, secondo cui i valori li stabilisce il mercato, un’alternativa potrà esserci solo se si lascia spazio al sogno, all’ideale. E questo potrà avvenire a patto che si difenda la forza demiurgica dell’arte e della letteratura, le sole fonti di energia intellettuale sempre rinnovabile, capace di sfatare il mito che questo sia “il migliore dei mondi possibili”.

Franco Fortini scriveva: tutto è tremendo ma non ancora irrimediabile.
Sta a noi trovare il coraggio di dire no.

fonte: GliStatiGenerali

Nessun commento: