In mezzo al mare di menzogne che ci vengono continuamente propinate dai media meanstream è difficile orientarsi, soprattutto se non si mettono in moto quei meccanismi che consentono di abbattere i tabù che non permettono di distinguere il vero dal falso. Ci viene ripetuto da almeno trent’anni che siamo poco produttivi, ci sono troppi dipendenti pubblici, troppa spesa sanitaria e pensionistica, che il “macigno del debito pubblico” frena la crescita.
C’è addirittura chi, come l’economista Michele Boldrin, forse annebbiato dalla morsa del caldo, suggerisce di “tagliate la spesa pubblica di 10 punti, di cui 5 tagliando le pensioni. […]
Privatizzate veramente Cassa Depositi e Prestiti e paraggi, liberate il sistema bancario dalle fondazioni e dagli amici degli amici, introducete un minimo di responsabilità fiscale a livello regionale e comunale, forzando l’aggregazione dei comuni”.
Ma non basta, ci viene ripetuto che per debellare la disoccupazione non si può prescindere dalla riduzione delle “rigidità in uscita” del mercato del lavoro. Detto in parole più semplici, secondo costoro, per trovare più facilmente lavoro bisogna incentivare i licenziamenti! A tale proposito vengono alla mente le parole (urticanti) del prof. Pietro Reichlin il quale, in seno ad un convegno tenutosi a Bologna il 30/05/2017 dal titolo “LA POLITICA ECONOMICA DELLA UE: CRITICITÀ E PROSPETTIVE DELLE REGOLE FISCALI” al quale ero presente, ha testualmente detto: “LA RECESSIONE IN ITALIA È STATA COSÌ PROLUNGATA PERCHÉ abbiamo investito poco e l’avere investito poco ci ha fatto crescere limitatamente la produttività totale dei fattori e poi c’è un’altra questione importante: I SALARI IN ITALIA SONO CALATI POCO IN RELAZIONE A QUANTO È AUMENTATA LA DISOCCUPAZIONE”.
Ma non basta, ci viene ripetuto che per debellare la disoccupazione non si può prescindere dalla riduzione delle “rigidità in uscita” del mercato del lavoro. Detto in parole più semplici, secondo costoro, per trovare più facilmente lavoro bisogna incentivare i licenziamenti! A tale proposito vengono alla mente le parole (urticanti) del prof. Pietro Reichlin il quale, in seno ad un convegno tenutosi a Bologna il 30/05/2017 dal titolo “LA POLITICA ECONOMICA DELLA UE: CRITICITÀ E PROSPETTIVE DELLE REGOLE FISCALI” al quale ero presente, ha testualmente detto: “LA RECESSIONE IN ITALIA È STATA COSÌ PROLUNGATA PERCHÉ abbiamo investito poco e l’avere investito poco ci ha fatto crescere limitatamente la produttività totale dei fattori e poi c’è un’altra questione importante: I SALARI IN ITALIA SONO CALATI POCO IN RELAZIONE A QUANTO È AUMENTATA LA DISOCCUPAZIONE”.
Cioè, se la disoccupazione è troppo alta, è perché chi già lavora è troppo avido e non accetta di decurtarsi “volontariamente” lo stipendio. Se i lavoratori guadagnassero di meno, gli imprenditori sarebbero ben lieti di assumere altro personale, ma poiché gli occupati sono persone avide, che pensano solo a guadagnare sempre di più, chi non ha un lavoro non lo troverà mai. Almeno questo è quello che ci viene detto.
Ma qualcuno si è mai posto il problema di una verifica empirica di quanto asserito? Pare proprio di no! Eppure basterebbe fare quello che iniziai a fare io a seguito del 11/11/2011, quando mi ritrovai improvvisamente disoccupato (e frastornato): cercare in internet i dati UFFICIALI (Istat, Eurostat, World Bank, OECD ecc.), unire i puntini e porsi delle domande. Iniziai a capire che quello che mi avevano raccontato faceva a cazzotti con i dati reali. Allora vediamoli questi dati reali e sfatiamo alcuni tabù. E’ vero che siamo poco produttivi? Basta andare nel sito dell’OECD e scaricare i dati relativi al valore aggiunto per occupato (in inglese: Gross Domestic Product per person employed).
È interessante notare che la nostra produttività (valore aggiunto per addetto) sia paragonabile a quella tedesca e i Paesi maggiormente produttivi (Belgio, Lussemburgo e Irlanda) sono tutti paradisi fiscali, cioè il loro prodotto interno lordo (in inglese GDP) è fittizio, conseguentemente la loro produttività assume valori irrealistici. Tolti i paradisi fiscali, siamo nella fascia medio-alta dei paesi dell’Eurozona. Senza considerare il fatto che la nostra produttività ha avuto una forte battuta d’arresto in corrispondenza della fine degli anni ’90, guardacaso proprio quando è stata fissata la rigidità del cambio. Pensate che sia una coincidenza?
Ma almeno è vero che gli occupati nel settore pubblico sono troppi! Ne siamo proprio sicuri?
I dati dicono un’altra cosa! Siamo tra i Paesi europei con MENO dipendenti pubblici in rapporto al totale della forza lavoro! È interessante osservare il caso greco: i greci hanno in relazione più dipendenti pubblici di noi, ma sono comunque ben sotto la media europea! E così viene spazzato via anche il falso “mito” dei greci che avrebbero sperperato i soldi a causa di una pletora di dipendenti pubblici. Un tipico esempio di tale “mito” è rappresentato da un tweet del prof. Gianfranco Pasquino, che riporto integralmente: “I Greci avevano fatto disastri con impiego pubblico, pensioni ultrababy, corruzione politica. Si stanno riprendendo”. Affermazioni false e denigratorie di un popolo, al limite del razzismo.
Sulla panzana del debito pubblico ho già scritto un post (https://scenarieconomici.it/la-truffa-del-debito-pubblico/), al quale rimando per ulteriori approfondimenti, faccio comunque osservare che, nel recentissimo bollettino della BCE n. 36 del giugno 2017 intitolato “Monetary-fiscal interactions and the euro area’s vulnerability” viene detto espressamente che “in un’economia che ha una propria moneta a corso forzoso, l’autorità monetaria e quella fiscale possono garantire che il debito pubblico denominato in quella valuta nazionale non sia soggetto a default […] nonostante ciò le autorità fiscali dei paesi dell’area euro hanno rinunciato alla possibilità di emettere debito non soggetto a default”. Quindi il debito pubblico non è un problema in quanto tale, ma perché abbiamo aderito all’Eurozona. Da notare inoltre che, da quando il deficit del settore pubblico si è ridotto, in ossequio ai parametri di Maastricht, il saldo del settore privato (rappresentato in azzurro) ha avuto un netto calo.
Cosa vuole dire? Con un saldo corrente pubblico (leggermente) negativo, cioè quando lo Stato spende (poco) più di quanto incassa con le imposte, il settore privato, o quello estero, devono coprire il (leggero) disavanzo statale con un avanzo di pari importo. Ma un (leggero) avanzo del settore privato vuole dire che quest’ultimo, costituito da famiglie ed imprese, spende (poco) meno di quanto incassa, conseguentemente famiglie ed imprese hanno (poche) possibilità di risparmio. Viceversa un ampio deficit pubblico consentirebbe al settore privato di accumulare risparmio, purché ciò non conduca ad un aggravio dei conti con l’estero (deficit gemelli).
A conferma di quanto appena esposto, il risparmio delle famiglie italiane si è progressivamente assottigliato:
Da notare il tracollo avuto a partire dal 1981, anno del famoso divorzio tra Tesoro e Banca d’italia.
Vogliamo parlare della spesa sanitaria? Notoriamente fonte di sprechi e corruttele!
Si vede che la nostra spesa sanitaria è in linea con la media europea.
E la nostra spesa in pensionistica è sostenibile? Oppure dobbiamo importare immigrati per “pagarci le pensioni” come sostiene improvvidamente il presidente dell’INPS, Tito Boeri? Ce lo dice la stessa Commissione Europea nell’ultimo EUROPEAN SEMESTER THEMATIC FACTSHEET SUSTAINABILITY OF PUBLIC FINANCES (scaricabile all’indirizzo https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/european-semester_thematic-factsheet_public-finance-sustainability_en.pdf). Per comprendere il grafico occorre sapere che più un Paese è posizionato in alto, maggiore è la necessità di migliorare la propria posizione di sostenibilità fiscale a lungo termine attuando delle riforme pensionistiche. Inoltre i Paesi più a destra sono quelli che hanno una posizione di sostenibilità fiscale iniziale peggiore, pertanto sono ritenuti maggiormente bisognosi di interventi di consolidamento delle finanze pubbliche. Per quanto appena esposto, più un Paese si trova in alto e a destra e peggio è messo.
L’Italia è tra i Paesi messi meglio sia come posizione fiscale attuale che come proiezione a lungo termine. Da notare che l’Italia ha una posizione nettamente più sostenibile della Francia, della Germania, del Belgio, dell’Olanda, del Regno Unito, della Finlandia, dell’Austria ecc. Meglio di noi ci sono solo Cipro e la Croazia!!! La cosa bella è che questa situazione di solidità dei conti pubblici sia a breve che a lungo termine era tale anche prima della riforma Fornero (quella degli esodati), pertanto, ai fini di “salvare il Paese”, era completamente inutile! Ce lo dice l’Europa!!!
Che dire poi dell’altro mito intramontabile, quello enunciato anche dal prof. Pietro Reichlin in base al quale le rigidità in uscita del mercato del lavoro frenano l’occupazione e quindi la ripresa economica. I dati OCSE smentiscono questa opinione. Il grafico seguente, tratto da “Anti-Blanchard” del prof. Emiliano Brancaccio, riporta sulle ascisse il grado di tutele dei lavoratori (EPL), incluse le tutele contro i licenziamenti, e sulle ordinate il tasso di disoccupazione. Ogni punto corrisponde a un paese OCSE. Si vede chiaramente che non c’è correlazione statistica tra minori tutele e minore disoccupazione:
La retta di regressione è praticamente orizzontale, segno che il tasso di disoccupazione è insensibile alle variazione dell’EPL, cioè le due variabili sono praticamente incorrelate (infatti l’indice di correlazione è inferiore al 10%).
Ma anche analisi leggermente più sofisticate hanno evidenziato la mancanza di relazioni significative tra riduzione delle tutele sul lavoro ed il tasso di disoccupazione (vi veda ad esempio: “Employment Outlook 1999, Employment Protection and Labour Market Performance” oppure “Employment Outlook 2004, Employment Protection and Labour Market Performance” editi dall’OECD), ma la cosa è confermata anche da studi analiticamente più complessi quali quello della World Bank che nel 2013 ha pubblicato il “World Development Report” nel quale viene dichiarato che “l’impatto globale della maggiore flessibilità del lavoro è inferiore all’intensità che il dibattito suggerirebbe. Per la maggior parte, le stime tendono ad essere insignificanti o modeste”. Alla stessa conclusione perviene il FMI che nel “World Economic Outlook” dichiara che “le riforme che facilitano i licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione”.
Ma qualcuno si è mai posto il problema di una verifica empirica di quanto asserito? Pare proprio di no! Eppure basterebbe fare quello che iniziai a fare io a seguito del 11/11/2011, quando mi ritrovai improvvisamente disoccupato (e frastornato): cercare in internet i dati UFFICIALI (Istat, Eurostat, World Bank, OECD ecc.), unire i puntini e porsi delle domande. Iniziai a capire che quello che mi avevano raccontato faceva a cazzotti con i dati reali. Allora vediamoli questi dati reali e sfatiamo alcuni tabù. E’ vero che siamo poco produttivi? Basta andare nel sito dell’OECD e scaricare i dati relativi al valore aggiunto per occupato (in inglese: Gross Domestic Product per person employed).
È interessante notare che la nostra produttività (valore aggiunto per addetto) sia paragonabile a quella tedesca e i Paesi maggiormente produttivi (Belgio, Lussemburgo e Irlanda) sono tutti paradisi fiscali, cioè il loro prodotto interno lordo (in inglese GDP) è fittizio, conseguentemente la loro produttività assume valori irrealistici. Tolti i paradisi fiscali, siamo nella fascia medio-alta dei paesi dell’Eurozona. Senza considerare il fatto che la nostra produttività ha avuto una forte battuta d’arresto in corrispondenza della fine degli anni ’90, guardacaso proprio quando è stata fissata la rigidità del cambio. Pensate che sia una coincidenza?
Ma almeno è vero che gli occupati nel settore pubblico sono troppi! Ne siamo proprio sicuri?
I dati dicono un’altra cosa! Siamo tra i Paesi europei con MENO dipendenti pubblici in rapporto al totale della forza lavoro! È interessante osservare il caso greco: i greci hanno in relazione più dipendenti pubblici di noi, ma sono comunque ben sotto la media europea! E così viene spazzato via anche il falso “mito” dei greci che avrebbero sperperato i soldi a causa di una pletora di dipendenti pubblici. Un tipico esempio di tale “mito” è rappresentato da un tweet del prof. Gianfranco Pasquino, che riporto integralmente: “I Greci avevano fatto disastri con impiego pubblico, pensioni ultrababy, corruzione politica. Si stanno riprendendo”. Affermazioni false e denigratorie di un popolo, al limite del razzismo.
Sulla panzana del debito pubblico ho già scritto un post (https://scenarieconomici.it/la-truffa-del-debito-pubblico/), al quale rimando per ulteriori approfondimenti, faccio comunque osservare che, nel recentissimo bollettino della BCE n. 36 del giugno 2017 intitolato “Monetary-fiscal interactions and the euro area’s vulnerability” viene detto espressamente che “in un’economia che ha una propria moneta a corso forzoso, l’autorità monetaria e quella fiscale possono garantire che il debito pubblico denominato in quella valuta nazionale non sia soggetto a default […] nonostante ciò le autorità fiscali dei paesi dell’area euro hanno rinunciato alla possibilità di emettere debito non soggetto a default”. Quindi il debito pubblico non è un problema in quanto tale, ma perché abbiamo aderito all’Eurozona. Da notare inoltre che, da quando il deficit del settore pubblico si è ridotto, in ossequio ai parametri di Maastricht, il saldo del settore privato (rappresentato in azzurro) ha avuto un netto calo.
Cosa vuole dire? Con un saldo corrente pubblico (leggermente) negativo, cioè quando lo Stato spende (poco) più di quanto incassa con le imposte, il settore privato, o quello estero, devono coprire il (leggero) disavanzo statale con un avanzo di pari importo. Ma un (leggero) avanzo del settore privato vuole dire che quest’ultimo, costituito da famiglie ed imprese, spende (poco) meno di quanto incassa, conseguentemente famiglie ed imprese hanno (poche) possibilità di risparmio. Viceversa un ampio deficit pubblico consentirebbe al settore privato di accumulare risparmio, purché ciò non conduca ad un aggravio dei conti con l’estero (deficit gemelli).
A conferma di quanto appena esposto, il risparmio delle famiglie italiane si è progressivamente assottigliato:
Da notare il tracollo avuto a partire dal 1981, anno del famoso divorzio tra Tesoro e Banca d’italia.
Vogliamo parlare della spesa sanitaria? Notoriamente fonte di sprechi e corruttele!
Si vede che la nostra spesa sanitaria è in linea con la media europea.
E la nostra spesa in pensionistica è sostenibile? Oppure dobbiamo importare immigrati per “pagarci le pensioni” come sostiene improvvidamente il presidente dell’INPS, Tito Boeri? Ce lo dice la stessa Commissione Europea nell’ultimo EUROPEAN SEMESTER THEMATIC FACTSHEET SUSTAINABILITY OF PUBLIC FINANCES (scaricabile all’indirizzo https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/european-semester_thematic-factsheet_public-finance-sustainability_en.pdf). Per comprendere il grafico occorre sapere che più un Paese è posizionato in alto, maggiore è la necessità di migliorare la propria posizione di sostenibilità fiscale a lungo termine attuando delle riforme pensionistiche. Inoltre i Paesi più a destra sono quelli che hanno una posizione di sostenibilità fiscale iniziale peggiore, pertanto sono ritenuti maggiormente bisognosi di interventi di consolidamento delle finanze pubbliche. Per quanto appena esposto, più un Paese si trova in alto e a destra e peggio è messo.
L’Italia è tra i Paesi messi meglio sia come posizione fiscale attuale che come proiezione a lungo termine. Da notare che l’Italia ha una posizione nettamente più sostenibile della Francia, della Germania, del Belgio, dell’Olanda, del Regno Unito, della Finlandia, dell’Austria ecc. Meglio di noi ci sono solo Cipro e la Croazia!!! La cosa bella è che questa situazione di solidità dei conti pubblici sia a breve che a lungo termine era tale anche prima della riforma Fornero (quella degli esodati), pertanto, ai fini di “salvare il Paese”, era completamente inutile! Ce lo dice l’Europa!!!
Che dire poi dell’altro mito intramontabile, quello enunciato anche dal prof. Pietro Reichlin in base al quale le rigidità in uscita del mercato del lavoro frenano l’occupazione e quindi la ripresa economica. I dati OCSE smentiscono questa opinione. Il grafico seguente, tratto da “Anti-Blanchard” del prof. Emiliano Brancaccio, riporta sulle ascisse il grado di tutele dei lavoratori (EPL), incluse le tutele contro i licenziamenti, e sulle ordinate il tasso di disoccupazione. Ogni punto corrisponde a un paese OCSE. Si vede chiaramente che non c’è correlazione statistica tra minori tutele e minore disoccupazione:
La retta di regressione è praticamente orizzontale, segno che il tasso di disoccupazione è insensibile alle variazione dell’EPL, cioè le due variabili sono praticamente incorrelate (infatti l’indice di correlazione è inferiore al 10%).
Ma anche analisi leggermente più sofisticate hanno evidenziato la mancanza di relazioni significative tra riduzione delle tutele sul lavoro ed il tasso di disoccupazione (vi veda ad esempio: “Employment Outlook 1999, Employment Protection and Labour Market Performance” oppure “Employment Outlook 2004, Employment Protection and Labour Market Performance” editi dall’OECD), ma la cosa è confermata anche da studi analiticamente più complessi quali quello della World Bank che nel 2013 ha pubblicato il “World Development Report” nel quale viene dichiarato che “l’impatto globale della maggiore flessibilità del lavoro è inferiore all’intensità che il dibattito suggerirebbe. Per la maggior parte, le stime tendono ad essere insignificanti o modeste”. Alla stessa conclusione perviene il FMI che nel “World Economic Outlook” dichiara che “le riforme che facilitano i licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione”.
Anche la Banca d’Italia, con uno studio del marzo 2016 a cura di Paolo Sestito e Eliana Viviano intitolato “Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the Italian labour market”, ha evidenziato, con particolare riferimento al Jobs Act, che “l’effetto del contratto a tutele crescenti è quantitativamente minore al 5% del totale dei contratti a tempo indeterminato e dell’1% del totale di assunzioni (vale a dire compresi anche altri tipi di contratti)”. Ma allora perché tutta questa ansia di fare le riforme del mercato del lavoro, quando le stesse organizzazioni che le promuovono dicono che non funzionano? La precarizzazione del lavoro, pur non avendo impatti sul livello occupazionale, ha forti ricadute sul potere contrattuale dei lavoratori che, sentendosi meno tutelati, moderano le proprie richieste salariali, ampliando il divario tra redditi dal lavoro (che diminuiscono) e redditi da capitale (che aumentano).
Per verificarlo basta scaricare i dati dell’EPL e porli in relazione con i salari medi reali (cioè al netto dell’inflazione), entrambi tratti dal sito dell’OECD. Ponendo sull’asse orizzontale la variazione dei salari reali intercorsa tra il 1999 ed il 2013 e sull’asse verticale la variazione del grado di tutele dei lavoratori (EPL) valutate nel medesimo intervallo temporale, si ottiene la seguente figura:
Ogni punto corrisponde ad un Paese aderente all’Eurozona fin dalla sua creazione.
La correlazione in questo caso c’è ed è evidente: i punti sono tutti approssimativamente ben allineati, infatti l’indice di correlazione risulta pari al 89%!!! Ad una riduzione del grado di tutele dei lavoratori corrisponde una effettiva riduzione del salario medio reale. E se ripetessimo l’esperimento escludendo il Belgio, avremmo una correlazione pari al 97%. La precarizzazione non serve a ridurre la disoccupazione, ma solo ed esclusivamente a ridurre i salari reali. Tale riduzione è fondamentale, all’interno dell’Eurozona, al fine di recuperare la competitività perduta. Questo è confermato anche dal Ministro Padoan che, sempre all’interno del citato convegno di Bologna, ha detto testualmente: “IN UN’UNIONE MONETARIA, SENZA TASSO DI CAMBIO, L’AGGIUSTAMENTO SI SCARICA, lo abbiamo visto con i Paesi che hanno passato la crisi negli anni recenti, SUL MERCATO DEL LAVORO SIA IN TERMINI DI LIVELLI OCCUPAZIONALI CHE DI REDDITI DA SALARIO”. Non chiedono le riforme perché pensano, sbagliando, di fare il nostro bene: sanno quello che fanno e lo fanno apposta. Sta a noi abbattere i tabù liberisti-piddini e controllare se quanto asseriscono corrisponde a realtà o no. Si hanno delle belle sorprese!
Per verificarlo basta scaricare i dati dell’EPL e porli in relazione con i salari medi reali (cioè al netto dell’inflazione), entrambi tratti dal sito dell’OECD. Ponendo sull’asse orizzontale la variazione dei salari reali intercorsa tra il 1999 ed il 2013 e sull’asse verticale la variazione del grado di tutele dei lavoratori (EPL) valutate nel medesimo intervallo temporale, si ottiene la seguente figura:
Ogni punto corrisponde ad un Paese aderente all’Eurozona fin dalla sua creazione.
La correlazione in questo caso c’è ed è evidente: i punti sono tutti approssimativamente ben allineati, infatti l’indice di correlazione risulta pari al 89%!!! Ad una riduzione del grado di tutele dei lavoratori corrisponde una effettiva riduzione del salario medio reale. E se ripetessimo l’esperimento escludendo il Belgio, avremmo una correlazione pari al 97%. La precarizzazione non serve a ridurre la disoccupazione, ma solo ed esclusivamente a ridurre i salari reali. Tale riduzione è fondamentale, all’interno dell’Eurozona, al fine di recuperare la competitività perduta. Questo è confermato anche dal Ministro Padoan che, sempre all’interno del citato convegno di Bologna, ha detto testualmente: “IN UN’UNIONE MONETARIA, SENZA TASSO DI CAMBIO, L’AGGIUSTAMENTO SI SCARICA, lo abbiamo visto con i Paesi che hanno passato la crisi negli anni recenti, SUL MERCATO DEL LAVORO SIA IN TERMINI DI LIVELLI OCCUPAZIONALI CHE DI REDDITI DA SALARIO”. Non chiedono le riforme perché pensano, sbagliando, di fare il nostro bene: sanno quello che fanno e lo fanno apposta. Sta a noi abbattere i tabù liberisti-piddini e controllare se quanto asseriscono corrisponde a realtà o no. Si hanno delle belle sorprese!
fonte: Scenari Economici
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