di Marco Mori
Sulla riforma costituzionale, o “deforma”, come amo chiamarla, si è detto molto. La battaglia tra “sì” e “no” è serrata, tuttavia in pochi hanno, a mio avviso, centrato il vero obiettivo di quanto il Governo ha portato avanti.
I comitati del “no” si sono in gran parte persi in contestazioni sterili dimostrando di non aver capito la complessità dell’attuale contesto Istituzionale nel quale lo scopo vero è solo toglierci ulteriore sovranità in favore dell’Unione Europea e dei mercati che essa tutela.
La realtà quindi è che si vuole cambiare la Costituzione per trasferire un vincolo “esterno” alla nostra sovranità ed immetterlo direttamente all’interno del nostro ordinamento costituzionale. Tenterò di spiegare in maniera semplice questo concetto.
La Corte Cost. (da ultimo con sentenza n. 238/14) ha affermato che i principi fondamentali della nostra Carta ed i diritti inalienabili dell’uomo prevalgono anche sulle norme dell’Unione Europea ad essi incompatibili. In sostanza, in base all’attuale panorama normativo e giurisprudenziale, ci sono elementi certi per definire illegittima l’ingerenza dell’UE nel nostro Paese e considerare le cessioni di sovranità (e quindi di democrazia) compiute, anche di quella monetaria, nonché gli stringenti vincoli di bilancio, meri atti illeciti.
Il modello economico europeo è anche radicalmente incompatibile con quello previsto dagli artt. 35-47 della nostra Carta. Noi riconosciamo, come ovvio, il libero mercato, ma lo subordiniamo all’interesse pubblico. L’UE ritiene invece che l’egoismo umano trovi da solo equilibrio, ma i fatti la smentiscono categoricamente e le nostre democrazie si sono via via trasformate in oligarchie. I mercati, grazie a questo assetto economico imposto, hanno superato e schiacciato i parlamenti nazionali.
Tale problematica non è sfuggita ai grandi gruppi di interesse finanziario, che hanno chiesto espressamente la riforma costituzionale. Non è complottismo, perché è un fatto storico, ricordare il rapporto di JP Morgan del 28 maggio 2013 contenente l’istanza di superare le grandi costituzioni del sud Europa. Tale richiesta è stata evidentemente accolta da Giorgio Napolitano, che dette mandato al Governo Renzi proprio in funzione della modifica della Costituzione.
Altrettanto è storia il fatto che lo stesso Governo, nella relazione al disegno di legge costituzionale, ammetta confessoriamente che: “Negli ultimi anni il sistema istituzionale si è dovuto confrontare con potenti e repentine trasformazioni, che hanno prodotto rilevanti effetti (omissis…) incidendo indirettamente sulla stessa forma di Stato e di Governo, senza tuttavia che siano stati adottati interventi diretti a ricondurre in modo organico tali trasformazioni entro un rinnovato assetto costituzionale”.
Avete letto bene? Se non siete trasaliti rileggete per favore. Il Governo dice che forze non meglio precisate hanno causato un fatto illecito come la trasformazione della nostra stessa forma di Stato, appunto immutabile ex art. 139 Cost., e dunque oggi si rende necessaria una modifica Costituzionale per sanare “ex post” il pasticcio compiuto.
Subito dopo la relazione del Governo diventa più precisa, la prudenza viene meno e si spiega la natura di questi poteri ed il fine ancor più concreto della riforma costituzionale: “Lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del Patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio(n.d.s., appunto asservire la nostra Costituzione alle regole di bilancio UE!); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale; le spinte verso una compiuta attuazione della riforma del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione tesa a valorizzare la dimensione delle Autonomie territoriali e, in particolare la loro autonomia finanziaria (da cui è originato il c.d. federalismo fiscale), e l’esigenza di coniugare quest’ultima con le rinnovate esigenze di governo unitario della finanza pubblica connesse anche ad impegni internazionali (n.d.s., ovvero l’esigenza di cancellare le autonomie che parimenti debbono sottostare alle regole UE!): il complesso di questi fattori ha dato luogo ad interventi di revisione costituzionale rilevanti, ancorché circoscritti, che hanno da ultimo interessato gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Carta, ma che non sono stati accompagnati da un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello tra Unione europea, Stato e Autonomie territoriali, entro il quale si dipanano oggi le politiche pubbliche (n.d.s., razionalizzare secondo il Governo significa solo subordinare il diritto interno a quello UE).
In claris non fit interpretatio.
Per questo il futuro Senato (il Senato resta ed avrà compiti legislativi anche importanti, si pensi alla materia della revisione costituzionale), coerentemente con questo disegno diventerà l’organo di non eletti che si occuperà di “attuare” la normativa dell’UE, questo prevede il nuovo art. 55.
Ma l’insidia peggiore arriva proprio dalla modifica del titolo V. Esso rappresenta la “carota” più gustosa da inseguire, poiché promette risparmi per le casse erariali.
Fermo restando che, quando un Paese è in deflazione, dunque dispone di meno moneta nell’economia reale di quella necessaria a sostenere la domanda di beni o servizi, il tema del risparmio non appassioni nessuno che abbia anche minimi rudimenti di macroeconomia, poiché la spesa pubblica in deficit è uno dei modi con cui la moneta entra nell’economia (gli altri sono le esportazioni ed il credito delle banche commerciali).
Ebbene il nuovo art. 117 Cost., in combinato con l’art. 55 e con l’art. 70, imporrà che tutta la legislazione nazionale debba uniformarsi alle norme dell’UE, peggiorando così la sciagurata dizione del 2001 (in cui il riferimento era alla Comunità Europea), che evidentemente non era bastata ad impedire alla Consulta di sviluppare la giurisprudenza di cui ho parlato sopra.
L’operazione è peraltro identica, in tutto e per tutto, a quella fatta con l’art. 81 nel 2012. Si inserisce nella parte II della Carta una norma incompatibile con i principi della I, nella specie si trattava del pareggio in bilancio, sperando che così si riesca ad aggirare l’insormontabile ostacolo dato dall’immodificabilità assoluta dei principi fondamentali della nostra Costituzione. Se si aggiunge che con le recenti riforme la minoranza relativa che andrà al Governo dovrebbe riuscire facilmente ad assumere il controllo della Corte Cost., eleggendo Giudici “graditi”, è evidente che il disegno potrebbe avere possibilità di successo.
Per onestà va detto che la rottura dei contrappesi istituzionali, dunque dell’equilibrio tra potere esecutivo, legislativo e ordine giudiziario, non viene meno con la “deforma” costituzionale, ma con la nuova legge elettorale, l’italicum, ed il relativo premio di maggioranza.
Non solo.
In caso di vittoria dei “sì”, e dunque di prevalenza della propaganda sull’informazione, uscire dall’euro e dall’UE nel giro di una notte non sarà più possibile, sarà necessario rimuovere dalla Costituzione i riferimenti all’Unione Europea, procedura che richiederebbe mesi per essere attuata, mesi nei quali, essendo privi della sovranità monetaria, diverremo vittime sacrificali dei mercati finanziari.
Per quanto mi riguarda tutto questo basta ed avanza per dire “NO” alla “deforma”, il Paese si salverà solo con meno Europa, dunque evitiamo di crearci ulteriori problemi.
Fermiamo questa riforma eversiva!
Avv. Marco Mori – Riscossa Italia – autore de “Il tramonto della democrazia, analisi giuridica della genesi di una dittatura europea”
Fonte: Studio Legale Marco Mori
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