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venerdì 1 maggio 2015

Una Storia che incredibilmente ricalca il passato

DI FEDERICO DEZZANI
federicodezzani.altervista.org

Il 21 luglio 1923, dopo nove mesi di governo, Benito Mussolini ottiene dalla Camera il voto di fiducia sulla riforma elettorale, legge Acerbo, che superando il sistema proporzionale del 1919 ed introducendo un maggioritario che attribuisce 2/3 dei deputati alla lista di maggioranza relativa che superi il 25% dei voti espressi, sancisce il suicidio dell’assemblea rappresentativa e l’inizio della rapida fascistizzazione delle istituzioni. Il 28 aprile 2015, dopo quattordici mesi di governo, Matteo Renzi impone al Parlamento il voto di fiducia sulla riforma elettorale, legge Italicum, che assegna il 55% dei parlamentari alla lista che superi il 40% dei voti espressi al primo turno oppure vinca il ballottaggio, abbinandola ad una riforma del Senato che abolisce il bicameralismo. Le analogie tra i due iter sono impressionati e lasciano supporre che dietro l’azione politica del premier ci sia Michael Ledeen, l’ambiguo intellettuale diviso tra studi del fascismo e servizi segreti.


La Legge Acerbo, all’insegna della Gran Loggia d’Italia degli ALAM
Nota: per la stesura del paragrafo ci basiamo su “Mussolini il fascista; La conquista del potere / 1921-1925”; Renzo De Felice, Giulio Einaudi Editore, 1966.
La serata tra il 26 ed il 27 ottobre 1922, nelle sale dell’Hotel Vesuvio di Napoli, il Consiglio Nazionale del partito fascista decide di passare all’azione: presenti Benito Mussolini, Michele Bianchi, Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi, Attilio Teruzzi, Giuseppe Bastianini e Achille Starace. La mobilitazione delle squadre fasciste scatterà il 27 e, occupate le località chiave del Centro-Nord Italia, l’ordine è di convergere velocemente verso Roma: un’eventuale opposizione da parte dell’esercito è contemplata ma sostanzialmente esclusa, anche perché le forze armate fedeli alla corona avrebbero poche difficoltà a soffocare il putsch e ad impedire ai fascisti di entrare nella capitale, qualora Vittorio Emanuele III firmasse lo stato d’assedio.

Mussolini torna prontamente a Milano, capitale di quel nord dove il fascismo è germinato e cresciuto, e sosta a Roma cambiando treno solo pochi attimi, il tempo però sufficiente per un prezioso incontro, utile a costruire il retroterra politico fondamentale per il successo dell’azione pseudo-militare: in stazione Mussolini intrattiene un colloquio con Raul Palermi, il venerabile maestro della Gran Loggia d’Italia degli ALAMovvero l’obbedienza massonica di Piazza del Gesù (alias il Nazareno) che pratica il rito scozzese antico e accettato. Il rito scozzese ha dato i natali agli alti gradi della massoneria speculativa (dal terzo al 33esimo) fortemente intrisi di insegnamenti alchemici, gnostici, ermetici, cabalistici ed egizi e Piazza del Gesù non ha fama di radicati sentimenti democratici.
Alla loggia di piazza del Gesù appartengono le figure di spicco del fascismo delle origini (Italo Balbo, Cesare Rossi, Giacomo Acerbo, Costanzo Ciano, Giuseppe Bottai, Edmondo Rossoni) ma soprattutto gli alti ufficiali delle forze armate (il generale Arturo Cittadini e l’ammiraglio Paolo Emilio Thaon di Revel) che ricopriranno un ruolo fondamentale nel convincere il re a non proclamare lo stato d’assedio per bloccare l’afflusso su Roma delle squadre fasciste.
Quando Mussolini risale in carrozza alla volta di Milano riferisce infatti a Cesare Rossi, anch‘egli iniziato alla loggia degli ALAM, che Raul Palermi ha rassicurato che i comandanti della guarnigione di Roma ed il generale Arturo Cittadini, primo aiutante di campo del re, assisteranno i fascisti nel loro moto e sono fidati perché tutti membri della sua osservanza: il venerabile maestro si mostra di parola e nei successivi due giorni, il 28 ed il 29 ottobre 1922, lavorerà incessantemente per tessere i fili tra Quadrumvirato, Montecitorio, Viminale e Quirinale.
Il 27 ottobre i fascisti di Pisa, Cremona e Firenze (dove il legame tra il partito e la loggia di Piazza del Gesù è simbiotico) entrano in azione, occupando le stazioni ferroviarie e gli snodi stradali; il 28 controllano Perugia e Mussolini pubblica sul Popolo d’Italia un proclama dove incita alla rivoluzione: gli uffici telegrafici sono invasi, le prefetture occupate, i treni requisiti per favorire il convergere su Roma delle milizie, i presidi militari smantellati grazie alla connivenza dell’esercito che spesso fornisce ai fascisti le armi. L’autorità dello Stato si sta squagliando e con lei il governo di Luigi Facta: il primo ministro alle 9 mattina del 28 si reca dal Quirinale per chiedere che sia proclamato lo stato d’assedio, il sovrano rifiuta ed alle 11.30 Luigi Facta presenta le dimissioni.
Il 29 ottobre nasce e muore l’idea di un governo Salandra e il 30 ottobre, infine, Benito Mussolini, neppure 40enne, sale in camicia nera al Quirinale alle 11 di mattina, per poi farvi ritorno alle 19.30 con la lista dei ministri. L’attivismo di Raul Palermi termina qui? No, nelle successive settimane viaggerà tra Inghilterra e Stati Uniti d’America per informare i fratelli muratori sugli sviluppi della situazione italiana.
La maggioranza parlamentare su cui basa il governo è quella uscita dalle elezioni del 1921, dove il “blocco nazionale”, nella cui lista sono stati eletti i fascisti, governa a fianco di popolari, nazionalisti, liberali e giolittiani: Mussolini teme persino che gli sia giocato qualche colpo basso in occasione del voto di fiducia e chiede invano al re che gli sia firmato un decreto per lo scioglimento in bianco della Camera, prontamente rifiutatogli da Vittorio Emanuele III. Superato lo scoglio del voto alla Camera il 17 novembre, gli sforzi di Mussolini si concentrano quindi sulla modifica della legge elettorale, da riscrivere affinché entri a Montecitorio il maggior numero possibile di uomini fidati. L’operazione non è semplice, considerato che sono indispensabili i voti degli alleati di governo, in primis i popolari che propugnano il mantenimento del proporzionale. Mussolini, però, da grande tattico qual’è (e infimo stratega), dosando sapientemente bastone e carota, accompagna al suicidio la Camera dei Deputati.
Falliti i tentativi di modificare la legge elettorale includendola nella materie delegate al governo e poi per decreto reale, a Mussolini non rimane che la via di una regolare approvazione da parte della Camera, dove è necessario superare la strenua difesa del sistema proporzionale da parte delle opposizioni (PSI e PCI in testa) e del partito popolare di don Luigi Sturzo. Per facilitare l’iter, Mussolini lascia cadere l’idea di abbinare alla riforma elettorale quella costituzionale.
Le prime indicazioni di quella che sarà poi la “legge Acerbo” appaiono già nel novembre del 1922 sulle pagine del Popolo d’Italia, in un articolo di Michele Bianchi: sistema maggioritario con due terzi dei deputati alla lista che ottenga la maggioranza, rappresentanza proporzionale alle altre liste per il restante terzo dei posti, circoscrizioni allargate alle regioni.
A stendere il disegno di legge nella primavera del 1923 è incaricato l’economista Giacomo Acerbo, abruzzese di nobile origine e affiliato alla Gran Loggia d’Italia degli ALAMil 9 giugno 1923 Mussolini può già presentare a Montecitorio il disegno di legge, chiedendo che per il suo esame la presidenza della Camera nomini una commissione di 18 deputati, con l’impegno a riferire entro due settimane. Il dibattito sulla legge elettorale si infiamma e tutti gli occhi sono puntati sui popolari, gli unici in grado di affossare la riforma: se infatti i seguaci di don Luigi Sturzo sono minoritari in commissione, così non è in aula, dove possono aggregare facilmente una maggioranza contro il disegno di legge.
L’azione dispiegata da Mussolini contro il PPI è duplice: a livello provinciale è data luce verde alla squadre fasciste affinché devastino circoli e sedi delle organizzazioni cattoliche, indicano grandi manifestazioni contro il PPI, sciolgano le amministrazioni popolari e commettano aggressioni ed intimidazioni contro religiosi e laici. Messe in moto le squadre, Mussolini può quindi concentrarsi sulla seconda e decisiva manovra: convincere il Vaticano ad allontanare dalla segreteria del PPI Don Luigi Sturzo, senza il quale il partito è acefalo e sottoposto alle potenti spinte centrifughe tra cattolici di sinistra e conservatori filo-fascisti. Creando una gravosa atmosfera di minacce e repressa violenza, il partito fascista lascia intendere al Vaticano che il ritiro del sacerdote siciliano è indispensabile per evitare la rottura dei rapporti e che siano scatenate “misure eccezionali e definitive contro il popolarismo”: il Vaticano cede ed il 10 luglio, lo stesso giorno che la legge Acerbo comincia ad essere discussa a Montecitorio, don Luigi Sturzo si dimette dal PPI.
Il capogruppo alla Camera del PPI, Alcide De Gasperi, difetta totalmente del carisma e del polso di don Sturzo ed è incapace di domare le diverse pulsioni all’interno del partito, tanto più se messo di fronte ad un abile politico come Benito Mussolini, che si insinua con scaltrezza tra le fratture dentro il PPI: con un magistrale discorso tenutosi il 15 luglio 1923, Mussolini invita a votare la fiducia di governo sulla legge Acerbo rinunciando ai toni minacciosi, e dipingendo al contrario il fascismo come rispettoso del Parlamento, “elezionista”, in via di profonda trasformazione e normalizzazione,pregando i deputati di non irrigidirsi nella coerenza formale dei partiti ma di ascoltare il monito della coscienza ed “il grido incoercibile della nazione” (era pur sempre stato giornalista ed agitatore socialista e, a differenza dell’attuale premier, formulava pensieri superiori a 150 caratteri).
Il discorso di Mussolini sortisce l’effetto sperato di disorientare l’opposizione ed innescare la spinte centrifughe del PPI, facendo leva sui clerico-conservatori: un numero crescente di deputati del PPI annuncia che è disposta a votare la fiducia e tra espulsioni, dimissioni e allontanamento il popolarismo perde la sua ala destra. Si arriva così al voto di fiducia del 21 luglio 1923 che sancisce la clamorosa vittoria di Benito Mussolini: con 223 voti favorevoli e 123 contrari la legge Acerbo è approvata grazie alla decisione di un’assemblea rappresentativa che, tra intimidazioni ed interessi di piccolo cabotaggio, delibera la sua sostanziale soppressione.
Il successivo pensiero di Mussolini è quindi aggregare una lista tale da conquistare la maggioranza relativa, superando il 25% dei voti espressi,ipotecando così i 2/3 della Camera (il Senato è di nomina regia e non rappresenta un ostacolo per Mussolini che ha già trovato un modus vivendi con il Re): si tratta quindi di formare il cosiddetto “listone” per le elezioni politiche del 1924.
Prende quindi vigore il processo all’interno del fascismo iniziato già all’indomani del 1923 e concluso entro il 1929: il PNF si nazionalizza ed allo stesso tempo estingue, inglobando lo Stato. Le componenti del primo fascismo (1919-1922) sono espulse, per poi riaffiorare come un fuoco di paglia a Salò nel 1943: repubblicani, diciannovisti, interventisti, futuristi, sindacalisti, intransigenti e l’ala sinistra del partito.
Al loro posto è creato un partito-nazione il cui compito è assimilare “tutte le forze nazionali”, intendendo con questo termine “tutte quelle che si riconoscono genericamente nazionali, parte cioè di una comune collettività volontaristicamente intesa e quindi senza effettive divisioni al proprio interno”.
In sostanza si aprono le porte a clerico-conservatori, nazionalisti, monarchici, burocrati, grande industria ed alta finanza, in un processo che in pochi anni cambia volto al partito: la maggior parte dei fascisti della prima ora, quelli che aspettano la “seconda ondata” che non verrà mai, lasciano il PNF entro il ’27, cala il numero di fascisti della piccola e media borghesia produttiva ed in parallelo aumenta l’incidenza degli “ex-fiancheggiatori” ora fascisti (industriali, agrari, professionisti ed impiegati dello Stato) e semplici opportunisti che si affrettano a tesserarsi.
La legge elettorale Acerbo, con la sua impostazione fortemente maggioritaria, è quindi propedeutica alla nascita del partito-nazione, una lista di sintesi nazionale, oppure, per usare un termine attualeun Partito della Nazione.
Il 25 gennaio 1924 la Camera è sciolta e le elezioni indette per il 6 aprile: il PCI, il PSI ed PPI si presentano autonomamente in tutte le circoscrizioni, demoralizzati e tentati dal disertare il voto, con l’unica eccezione del socialista Giacomo Matteotti che invita inutilmente all’unione delle sinistre.
Mussolini, galvanizzato invece dalla riforma elettorale tagliata a sua misura, dà alla consultazione elettorale non il carattere di voto al PNF, bensì di un plebiscito nazionale a favore della sua persona e della politica finora perseguitala Lista Nazionale o “il listone” è già epurata di intransigenti, “veteranisti e puristi” ed al loro posto sono imbarcati più malleabili liberali, nazionalisti ed ex-popolari.
Alle elezioni del 6 aprile il listone trionfa e, con il 60% delle preferenze espresse, elegge i parlamentati che voteranno di lì a breve le leggi fascistissime, ponendo le basi del regime.
La Legge Italicum, all’insegna della Gran Loggia d’Italia degli ALAM?
Molte sono le analogie tra la scalata al potere di Matteo Renzi e Benito Mussolini, che travalicano la semplice età anagrafica di 39 anni cui diventano premier: entrambi salgono al Quirinale non sull’onda di un’elezione ma di un’oscura crisi dgoverno, entrambi trovano nel Quirinale un complice decisivo nell’assegnare loro l’incarico di primo ministro; entrambi dispongono di un esiguo numero di parlamentari loro strettamente fedeli e ciò nonostante riescono ad attuare riforme decisive per le sorti dello Stato; entrambi sono tentati da mettere subito in cantiere la riforma della Costituzionee della legge elettorale, ma mentre Mussolini procrastina la prima per facilitare il voto della seconda, Renzi le porta avanti insieme, pressato dalla necessita di abolire il bicameralismo perfetto che non è contemplato dallo Statuto Albertino.
Mussolini, sebbene anticlericale da giovane ed ateo fino alla morte, non nutrì mai simpatia verso la massoneria ma, memore dell’aiuto decisivo ricevuto durante la marcia su Roma, anche dopo l’autunno 1923, quando è dichiarata l’incompatibilità tra fascismo e libera muratoria, rimane in ottimi rapporti con la loggia di Piazza del Gesù, esprimendo simpatia per “un ordine nazionale che all’infuori di ogni settarismo serve la Patria con fedeltà al Governo nazionale”.
Non esistono al momento fonti sufficientemente autorevoli per affermare con sicurezza che Matteo Renzi appartenga alla massoneria speculativa, ma quel che è certo è che i personaggi che lo hanno assistito nella fulminea carriera politica e la sua stessa azione politica sono riconducibili alla massoneria ed ai suoi principiMassone di rito scozzese è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intimo degli ambienti nord-atlantici fin dagli anni ’701; massone è la maggioranza politica che lo insedia Palazzo Vecchio, spodestando gli ex-PDS Leonardo Domenici e Graziano Cioni, ostili, secondo il piduista Licio Gelli, alle potentissimi logge massoniche di Firenze2massone è Denis Verdini3, il braccio destro di Silvio Berlusconi che soprintende alla stesura ed all’esecuzione del Patto del Nazareno e che sarebbe pronto a votare l’Italicum per poi fondersi con i suoi fedelissimi nel futuro Partito della Nazione;4di ispirazione massonica è il disegno delle riforme costituzionali che, nel silenzio assordante di media ed istituzioni ormai moribondi, sono attuate a colpi di fiducia da una Parlamento giudicato illegittimo dalla Corte Costituzionale5, tendendo verso un assetto che ricalca punto per punto il Piano di Rinascita Democratica della loggia P26.
Per Benito Mussolini è vitale il sostegno della Gran Loggia d’Italia degli ALAM, mentre il Grande d’Oriente d’Italia, la loggia rivale di Piazza del Gesù da cui si distingue per posizioni meno conservatrici e più anti-clericali, si mantiene defilato, se non ostile.
E nel caso si Renzi, quale loggia è stata determinante? Gli ALAM o Palazzo Giustiniani? Quasi sicuramente il supporto a Renzi proviene, come per Mussolini, dagli Antichi Liberi Accettati Muratori: di ambito conservatore, repubblicano e filo-israeliano sono infatti i primi contatti di Matteo Renzi negli USA (Michael Ledeen, Richard Perle, Ronald Spogli, Arthur Schneier, Martin Lipton, etc.); più coerente alla natura di catto-massone, sarebbe l’affiliazione o vicinanza di Renzi agli ALAM; chiaramente fascisteggiante è infine il disegno di un Partito della Nazione, motivo per cui, come nel 1922, sono gli ALAM gli indiziati numero uno nel sostegno a Renzi.
Mussolini e Renzi sono entrambi convulsamente nominati premier a 39 anni, con uno scarto di due mesi di vantaggio per l’ex-sindaco di Firenze:l’establishment anglosassone, che ha interessi vitali in Italia data la sua centralità nel Mediterraneo, nell’uno e nell’altro caso impone ai potentati locali, legati per denaro e cultura a Londra e Washington, una svolta autoritaria che si giustifica nella criticità in cui versa la penisola.
Nel caso di Benito Mussolini sono il biennio rosso (1919-1920) ed il timore che in Italia si instauri un governo comunista a spingere la City di Londraad avvallare la marcia su Roma. Nel caso di Renzi è invece il biennio dello spread rosso (2011-2012) ad obbligare la finanza anglosassone ad intervenire: l’euro, anziché partorire gli Stati Uniti d’Europa, conduce l’Italia ad un passo dal default che, la storia insegna, quando si consuma è spesso accompagnato da stravolgimenti di alleanze e schieramenti. Renzi è quindi, come Mussolini nel 1922, l’uomo che garantisce lo status quo.
Sia Mussolini che Renzi, infatti, si insediano in corrispondenza di situazione economiche-finanziarie molto cupe. L’economia del 1919-1922 è fiaccata da scioperi ed agitazioni nelle campagne; i salari reali, fatto pari a 100 il 1913, sono a 101 nel 1922 e scendono a 92 entro il 1924; il bilancio è in disavanzo cronico ed i settori dell’alta finanza premono affinché sia instaurato un solido ed autoritario governo che persegua il pareggio di bilancio, obbiettivo rincorso da Mussolini fino al disastroso rientro della lira nel sistema aureo a “quota 90” (1927).
Nel caso di Renzi la situazione è persino peggiore perché l’impossibilità dello Stato di emettere moneta e l’attuazione di politiche di austerità per distruggere la domanda interna e salvare il sistema a cambi fissi noto come “euro” ha prodotto un’esplosione del debito pubblico, della disoccupazione e la distruzione del 25% della base industriale. Renzi, come Mussolini, è incaricato di attuare improbabili risanamenti dei conti a colpi di fiduciaattingendo dalla cassetta del neoliberismo che contiene strumenti come privatizzazioni e precarizzazione del lavoro.
Renzi, come Mussolini, sa però che la propria posizione è periclitante ed ha urgenza di blindarsi modificando in senso maggioritario la legge elettorale (abrogando anche il bicameralismo perfetto) e fissando le elezioni il prima possibile, previo lo scioglimento del Parlamento da parte del Presidente della Repubblica, versione aggiornata di Vittorio Emanuele III di Savoia.
La modifica della legge elettorale, di cui uno dei più indefessi sostenitori era ed è Giorgio Napolitanoè infatti la stella polare dell’azione di Renzi sin dalla sua nomina a segretario del PD nel dicembre del 2013 e, durante una direzione del PD nel gennaio del 2014, un mese prima dell’ingresso a Palazzo Chigi, l’ex-sindaco di Firenze delinea già a grandi linee la riforma elettorale cui affibbia il nome “Italicum”: premio di maggioranza che porti al 53%-55% chi ottiene il 35% dei voti; ballottaggio se nessuna lista raggiunge questa soglia; mini-liste bloccate da sei candidati per ogni circoscrizione. La minoranza del PD insorge già allora, tanto più che Renzi, conscio probabilmente di non poter contare sui voti degli ex-DS, allaccia un canale diretto con Silvio Berlusconi, sigillato quegli stessi giorni dal Patto del Nazareno.
È proprio grazie all’accordo sovrainteso da Denis Verdini se l’Italicum può superare il 27 gennaio 2015 l’unico vero scoglio che minaccia di affondare la riforma elettorale: il voto a Palazzo Madama, dove Matteo Renzi, senza i determinanti voti di Forza Italia, non è autosufficiente. Il Patto del Nazareno svolge però alla perfezione il suo scopo e l’Italicum è approvato con il sostegno decisivo di Silvio Berlusconi, che rinfaccia a Renzi di non avere più la maggioranza nella camera alta.
Il 31 gennaio l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale provoca la rottura (sostanziale o di facciata?) del patto del Nazareno, “dallo stantio odore di massoneria”, come lo definisce Ferruccio De Bortoli. L‘iter dell’Italicum è però ora in discesa: il 20 aprile 2015 Matteo Renzi epura dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera i dieci esponenti della minoranza interna al Pd, in modo da impedire che siano apportate modifiche alla riforma licenziata dal Senato (dove ora la maggioranza è in forse), e li sostituisce con deputati di fiducia (problema che non ha Mussolini, dato l’ostruzionismo proviene solo dai deputati popolari, socialisti e comunisti).
Quindi, fedele allo schema mussoliniano, Matteo Renzi indice un consiglio dei ministri lampo il 28 aprile 2015, che autorizza la questione di fiducia sulla riforma elettorale, poi posta lo stesso pomeriggio dal ministro per le riforme Maria Elena Boschi. L’approvazione dell’Italicum, tra minacce di voto anticipato e promesse di un posto nelle liste bloccate, è praticamente scontata ed il governo incassa già il 29 aprile la fiducia sul primo articolo della riforma, cui succedono senza intoppi le successive due in attesa del voto finale previsto per il 4 maggio.
Cosa prevede la riforma elettorale in votazione alla Camera, in cui più di un costituzionalista ravvisa peraltro forti criticità12? In sostanza l’Italicum è una legge Acerbo edulcorata dal doppio turno che consente alla lista di maggioranza relativa il controllo della Camera in due riprese, anziché una: la lista che superi infatti il 40% dei voti espressi al primo turno ha infatti diritto ad un premio di maggioranza del 15%; se nessuna lista supera la soglia del 40%, i due partiti più votati si affrontano al ballottaggio ed al vincitore spettano comunque 340 deputati su 630 (circa il 55%).
Gli effetti prodotti dall’Italicum sono quindi simili alla legge Acerbo: un lista che raccogliesse il 26% dei voti espressi al primo turno, con l’Italicum potrebbe conquistare il 55% dei deputati e con l’Acerbo il 66%. La differenza sono quisquilie, tanto più se si considera che il minor numero di deputati di cui Matteo Renzi disporrebbe è compensato dall’incredibile facilità con cui l’ex-sindaco di Firenze sta ottenendo l’approvazione della riforma elettorale.
Abbiamo visto come Benito Mussolini, alle prese con il temibile PPI di don Luigi Sturzo che difende strenuamente il sistema proporzionale, deve ricorrere ad un’articolata manovra per ottenerne il voto di fiducia: squadre fasciste per intimorire le organizzazioni cattoliche; velate minacce al Vaticano affinché allontani don Sturzo dalla segreteria del PPI; sinuosa retorica per presentare il partito fascista come una forza sulla strada dell’istituzionalizzazione; blandizie verso i clerico-conservatori garantendo loro un futuro nel PNF. Il PPI, considerata la divisione delle sinistre e l’acerbità del PCI, è poi l’unica ma temile forza che possa contendere la vittoria elettorale al listone fascista: l’eliminazione politica di Don Sturzo travalica la semplice necessità di approvare la legge Acerbo e punta ad indebolire strutturalmente il popolarismo, privandolo della sua guida carismatica.
Per Matteo Renzi la strada per l’approvazione dell’Italicum è stata invece spianata dal Patto del Nazareno, grazie a cui è stato superato senza colpo ferire il voto del Senato.
Anche quando Silvio Berlusconi ha tolto per meri fini tattici il suo sostegno alla riforma elettorale, non sono mai mancati i potenziali voti per approvare la legge alla Camera: a riempire i vuoti dell’ala sinistra del PD si sono dichiarati disponibili i deputati di Denis Verdini ed una ventina di ex grillini. 
La parte che fu del PPI nell’iter di approvazione della legge Acerbo è oggi giocata dagli ex-DS e dall’ala sinistra del PD che, sfilacciata ed acefala, non ha mai rappresentato una minaccia all’approvazione dell’Italicum neppure lontanamente paragonabile al pericolo che il popolarismo costituisce per la legge Acerbo: specialmente se si considera che Renzi non ha nessuno interesse ad inglobare l’elettorato della minoranza PD e può quindi attaccare frontalmente i suoi rappresentati.
Arriviamo infatti ora all’ultima, macroscopica analogia, tra Benito Mussolini e Matteo Renzi: la riforma delle legge elettorale è la premessa per la radicale trasformazione del partito che li accompagna alla Presidenza del Consiglio e, più nel dettaglio, per la sua sublimazione in un partito-Stato, alias partito-nazione, alias Partito delle Nazione.
A gettare le fondamenta teoriche della “nazionalizzazione-estinzione” del PNF è, all’indomani della Marcia su Roma, Dino Grandi, anch’esso affiliato alla Gran Loggia d’Italia degli ALAM ed in contatto con gli ambienti anglosassoni fin dalla campagna interventista del 1914-1915. Scrive Grandi:
“Man mano che lo Stato si organizza e si rafforza e il Fascismo entra attraverso un processo di assorbimento osmotico in tutti i gangli nervosi dello Stato, i partiti scompaiono, anche il nostro”.
Il PD di Matteo Renzi che, in base agli ultimi sondaggi1, conquisterà il 55% dei deputati di Montecitorio grazie al 37% dei voti espressi a fronte di un’astensione superiore al 40% (quindi con il voto favorevole del 22% del corpo elettorale) non potrà più esprimere nessuna politica di “parte”, salvo spingere all’insurrezione il restante 80% dei cittadini con diritto di voto. Si limiterà quindi all’amministrazione del potere, con un’attenzione particolare verso la propria base elettorale e tanta retorica nazional-popolare che Matteo Renzi già sfoggia: “L’Italia e’ un grande Paese e non prende ne’ reprimende ne’ lezioni”, “Avremo un ruolo leader nei prossimi vent’anni”, “Basta lezioni dall’Unione Europea”, etc. etc.
Solleticato da Washington e Londra, Renzi ha anche accarezzato nel febbraio del 2015 l’idea di un intervento militare in Libia, per risvegliare l’ardore coloniale degli italiani.
L’ex-sindaco di Firenze è intenzionato persino a completare il processo che a Mussolini balena solo nella mente: sciogliere formalmente il partito che presiede e rifondarlo attribuendogli un nome che espliciti chiaramente la sua funzione, ossia Partito della Nazione.
Qualsiasi richiamo alla sinistra così scomparirebbe e sarebbe molto più facile inglobare, come fece il PNF dal 1922 in avanti, gli strati più moderati e conservatori della società italiana, espellendo gli “intransigenti” che non sarebbero più gli squadristi alla Farinacci ma gli ex-comunisti come Bersani e Cuperlo: si sfonderebbe quindi nell’elettorato della media borghesia, degli impiegati dello Stato e degli astensionisti interessati a ritorni economici dal loro tesseramento al PdN. La stella polare del Partito della Nazione, ennesima analogia con il PNF fascista, sarebbero però l’alta finanza (la grande industria è scomparsa) in tutte le sue forme (FMI, BCE, BlackRock, JP Morgan, Goldman Sachs) e le potenze anglosassoni, dove Washington prende le veci che Londra svolge per Mussolini.
Il ruolo di Michael Ledeen
In conclusione si può affermare che le analogie tra gli esordi di Benito Mussolini e Matteo Renzi non sono solo lapalissiane ma così stringenti da suscitare più di un interrogativo: leggendo “Mussolini il fascista; la conquista del potere 1921-1925” dello storico reatino Renzo De Felice, sembra di scorrere il copione dell’azione politica di Matteo Renzi che, punto per punto, ricalca le mosse di Benito Mussolini, dall’Italicum/Acerbo al Partito della Nazione/partito-nazione. È una portentosa coincidenza? Probabilmente, no.
Uno degli studiosi con cui collabora a lungo Renzo De Felice (1929-1996) è infatti il filosofo, scrittore, intellettuale neo-conservatore Michael Ledeen(1941), che dallo storico reatino mutua in particolare il concetto di fascismo-movimento contrapposto a fascismo-regime: i due ne discutono insieme nel controverso libro edito da Laterza nel 1975 “Intervista sul fascismo”, poi tradotto in inglese col titolo “Fascism: An Informal Introduction to Its Theory and Practice”.
Il proteiforme Ledeen non si limita allo studio della storia italiana, con un particolare focus su fascismo e Niccolò Macchiavelli (da cui estrapola l’idea della dittatura temporanea di un Principe virtuoso per risollevare una società in crisi), ma allarga i propri interessi al campo della politica e dei servizi segreti. Nella veste di intellettuale neo-conservatore partecipa infatti al pensatoio statunitense American Enterprise Institute, dove, attraverso illustri personaggi come Paul Wolfowitz, John R. Bolton, Frederick Kagan, è prima architettata “la guerra al terrore” contro Afghanistan, Iraq e “stati canaglia” vari e poi la sanguinosa destabilizzazione del Medio Oriente (Siria, Libia e nuovamente Iraq) con l’attiva collaborazione di Israele, Turchia e monarchie del Golfo.
Il Levante e il vicino Oriente è un terreno che Ledeen conosce bene, considerato che negli anni dell’estenuante guerra tra Iran ed Iraq del 1980-1988, quando gli USA ed Israele armano ora l’uno ora l’altro belligerante in modo da protrarre il conflitto, il nome dell’intellettuale neo-con spunta nell’affare Iran-Contras: Ledeen si accorda nel 1985 con le autorità di Tel Aviv per vendere segretamente armi a Teheran usando canali israeliani. Il ricavato è poi dirottato in Nicaragua per finanziare le operazioni sporche della CIA contro il sandanista Daniel Ortega.
In quello stesso anno Leeden fa una capatina in Italia, balenando nella crisi di Sigonella: quando i caccia americani intercettano l’aereo su cui viaggiano i terroristi palestinesi dell’Achille Lauro, è Ledeen che sveglia Bettino Craxi all’hotel Raphael per chiedergli che il Boieng sia fatto atterrare a Sigonella. Sebbene Craxi acconsenta, l’inafferrabile Giulio Andreotti, con un democristiano “ci sono dei problemi”, salva l’onore dell’Italiano impedendo che la Delta Force americana agisca sull’isola siciliana come una polizia coloniale.
Dichiarato già negli anni ’80 persona “non grata” dall’ammiraglio Fulvio Martini a capo del SISMI, non solo Ledeen non si allontana dall’Italia ma interferisce ancora con la politica nostrana, segnalando a Washington gli amici fidati di USA ed Israele: risale infatti al 2007 l’articolo che Ledeen scrive per l’influente rivista conservatrice National Review, dove racconta di aver avuto due anni prima (2005) uno scambio di battute con con giovane amico italiano sui vini del Bel Paese. Il commensale con cui discetta di bottiglie è un rampante e brillante politico toscano, appena rieletto alla presidenza della provincia di Firenze: Matteo Renzi.
Abbiamo quindi uno storico del fascismo, studioso e collaboratore di Renzo De Felice, invischiato in traffici illegali d’armi, inserito nei servizi segreti americani e forse israeliani, neo-conservatore affiliato all’American Enterprise Institute, che diventa mentore di Matteo Renzi fin dal 2005 e, quasi sicuramente, ne segue passo dopo passo la scalata al potere.
È lecito supporre che alla base delle incredibili somiglianze tra gli esordi di Benito Mussolini e Matteo Renzi, ci sia lo studioso del fascismo Micheal Ledeen? Sì, è lecito.
Il Partito della Nazione, nella sua gestazione e nei tratti che sta assumendo, è la versione aggiornata del fascismo-regime o partito-nazione che Dino Grandi e Benito Mussolini concepirono nel 1922-1923.
Micheal Ledeen sta suggerendo a Matteo Renzi come resuscitarlo, passo dopo passo, fiducia dopo fiducia, giorno dopo giorno.

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