di Angelo Cannatà
“Il vero volto della mafia l’ho intravisto per la prima volta una mattina di vent’anni fa. Ero un giovanissimo magistrato della procura di Caltanissetta…”. Comincia così il racconto del pubblico ministero Nino Di Matteo, raccolto dal giornalista Salvo Palazzolo (Collusi, Rizzoli). Un testo lucido e toccante come sanno essere i racconti quando hanno il sapore della verità: il magistrato ricorda l’incontro decisivo col collaboratore di giustizia Cancemi: “Dottore, lo sa cosa mi ripeteva Riina? ‘Senza i rapporti con il potere, Cosa nostra sarebbe solo una banda di sciacalli’. Se non lo capite, non potrete mai contrastarla” (p.20). Parole decisive. Ho scoperto in quella occasione – dice Di Matteo – “il vero volto della mafia”: la sua potenza sta nel legame con la politica.
La ricostruzione del libro è precisa. Su Totò Riina: la verità è che anche la trattativa con gli uomini dello stato – di cui parlò la prima volta Brusca (1996) – gli sta stretta: “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me.” Le esternazioni del boss hanno un obiettivo: “ribadire il ruolo che ha svolto negli ultimi trent’anni e allontanare l’idea che sia stato un pupo nelle mani di forze occulte annidate dentro lo Stato” (p. 8).
Temi delicati, sui quali in Italia si è creato un clima ostile. Lo affermano Claudio Fava e Don Luigi Ciotti, in via Ripetta, a Roma – il 12 maggio – alla presentazione del libro. C’è come un isolamento dei magistrati che si occupano del legame mafia-politica (“Ancora questa trattativa!...”). Ne è consapevole Di Matteo: “subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio sembrava iniziata una vera e propria rivolta contro la mafia, a tutti i livelli”. Ora c’è un riflusso “una sorta di stanchezza e di fastidio nei confronti di quelle indagini che miravano a scoprire in che modo la mafia sia ancora ben presente dentro le stanze del potere.” E’ l’amarezza più grande. (pp. 23-24).
Troppe persone, anche all’interno delle istituzioni - dice Di Matteo - hanno recepito il messaggio lanciato da Berlusconi: quelle indagini dei magistrati di Palermo sono tempo sprecato, uno sperpero di risorse pubbliche. Molti esponenti delle forze di polizia: “tendono a concentrare le loro migliori risorse umane e tecnologiche sui pesci piccoli dell’organizzazione, quelli che è più facile processare senza creare troppi fastidi alla rete delle complicità” (pp. 25-26) Questo accade. E non è una denuncia di poco conto. La rende esplicita Don Ciotti nel suo accorato intervento: “Il problema non è solo l’illegalità, ma la legalità che agisce in modo illegale”. L’attacco non è solo al crimine organizzato, ma a chi dentro le maglie della legge – distorta, vilipesa, manipolata – favorisce la mafia, ne è connivente, la utilizza.
La utilizza è espressione precisa. Ascoltandola, non possiamo non pensare (anche) a quei leader politici che potevano intervenire per bloccare l’ingresso in lista di candidati inquisiti, ma non l’hanno fatto, hanno chiuso un occhio, forse tutti e due, perché, infondo, i voti dei candidati impresentabili fanno comodo. Meglio utilizzarli: mafia, candidati, voti. Poi, però, sempre pronti a partecipare alle cerimonie funebri dei morti ammazzati dalla mafia (da Mattarella a Pio La Torre… a Falcone e Borsellino). Don Ciotti è amareggiato: “troppe lapidi ci sono in Italia, e troppe strade e scuole intestate ai martiri uccisi dalla mafia.” E Claudio Fava: è incredibile che ancora oggi – oggi, non trent’anni fa – molti politici facciano salotto, discutano in società, con chi traffica illegalmente e ordina omicidi.
La lotta alla mafia in realtà viene ostacolata. La si combatte a parole, nei fatti ci si muove in altra direzione. Basti pensare che Nino Di Matteo, uno dei maggiori esperti del legame mafia-politica, è ufficialmente scaduto da suo incarico alla Direzione distrettuale antimafia. Annota Palazzolo: “E’ stato assegnato a un altro gruppo di lavoro in procura. Così, mentre continua a scavare nei segreti dei rapporti fra mafia e potere, deve occuparsi anche di verande abusive e di contravvenzioni al codice della strada. Dove non è arrivata la mafia, per fermarlo, ha colpito certo l’antimafia”.
E’ un punto che meriterebbe tutti i giorni la prima pagina dei giornali. Tutti i giorni. Una campagna martellante. In Italia c’è una norma, secondo cui i pubblici ministeri possono occuparsi solo per dieci anni d’indagini sulla mafia. Tradotto: “Hanno appena il tempo di acquisire competenze, avviare una strategia giudiziaria e coglierne qualche risultato. Poi sono costretti a passare ad altro. Se negli anni Ottanta ci fosse stata questa regola, anche Falcone e Borsellino avrebbero rischiato di occuparsi di verande abusive. La lotta alla mafia deve fare ancora molta strada” (p.17). E’ una vergogna che quella norma sia ancora lì, mentre Renzi scrive i suoi tweet ipocriti (e complici, finché la norma resta ancora in vigore).
Un passaggio importante del testo di Di Matteo è strutturato intorno a questa catena deduttiva: “Torniamo a domandarci: chi erano e cosa rappresentavano le vittime dei delitti eccellenti? Erano esponenti politici come il presidente della Sicilia Piersanti Mattarella, che voleva mettere in discussione i collaudati meccanismi di spartizione politico-mafiosa degli appalti”. Erano grandi uomini come Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ninì Cassarà... L’assassinio di queste persone “ha avuto un unico comune denominatore: la rimozione chirurgica di quelle anomalie che rischiavano di mettere in discussione l’operatività del sistema.” Poi arrivarono le stragi del 1992-1993. Con lo stesso obiettivo: eliminare chi metteva in pericolo il sistema. Dimenticare ciò, come fanno troppi politici, significa “sostenere la lotta alla mafia solo a parole” (p. 30).
Si è fatto un gran discutere sulle accuse mosse agli uomini delle istituzioni. In realtà Di Matteo indica fatti precisi: “la condotta che contestiamo ai soggetti istituzionali e politici – dice – è quella di aver assunto il ruolo di cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo nel prospettare i desiderata dell’organizzazione mafiosa, così concorrendo al vero e proprio ricatto che i boss stavano portando avanti nei confronti delle istituzioni” (p. 109). Parole inequivocabili. E infatti, alcune pagine dopo: “Cosa nostra non verrà sconfitta in modo definitivo fino a quando ci sarà anche un solo mafioso che trova in un esponente del potere la disponibilità al compromesso” (p. 114).
Quanti compromessi ci sono, oggi, alla vigilia delle elezioni regionali, è inutile dire. E tuttavia è proprio questo il punto. Si continua a pensare che i voti non puzzino. E invece il tanfo si sente. Eccome! Soprattutto quello dell’antimafia di facciata. Don Ciotti dice frasi definitive: “Ci hanno rubato le parole. Sono ladri di parole. ‘Antimafia’, per esempio, è parola logora, abusata. Cambiamola. Cambiamola per favore! – grida –, la usano persone che non lottano davvero la criminalità, ma se ne servono come pennacchio.” Applauso forte e commosso della sala. E’ l’immagine che porterò con me, per tanto tempo. Ci penso ancora mentre esco dal salone di via Ripetta. Uomini come Di Matteo e Don Ciotti fanno sperare che l’Italia possa farcela: se riprende a combattere, se non perde la capacità di indignarsi. A chi ha perso l’appuntamento – davvero interessante – della presentazione di Collusi, non resta che leggere il libro per ritrovare un clima di lotta civile e ricerca della verità. Di Matteo è stanco? Impossibile non esserlo. Ma: “Io resto al mio posto. Non mi rassegno a questo stato di cose” (p. 178). Anche per questo ha la stima e la fiducia di tutte le persone oneste.
Post scriptum. Leggo che il senatore Macaluso ha sdoganato la parola “cazzo” per recensire Collusi, che dichiara di non aver nemmeno sfogliato: c’era bisogno che ce lo venisse a raccontare Di Matteo il rapporto mafia-politica. Osservo che il magistrato Di Matteo, il legame mafia-politica non si limita a raccontarlo: lo indaga, lo contrasta, lo combatte, ogni giorno, rischiando la vita. Lì, in trincea. Con l’angoscia di lasciare orfani i figli. Ci pensino i sacerdoti della Verità. Senza fretta: con comodo. Mentre a casa, in pantofole, bevono il the.
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