di Claudio Conti.
La realtà ha la testa più dura dell'ideologia. Persino di quella ordoliberista di matrice tedesca che domina ai piani alti dell'Unione Europea e solo lì.
Nella defatigante trattativa tra la Troika (Ue, Bce, Fmi) e la Grecia, fin qui condotta a colpi di diktat e strangolamento finanziario da una parte e proposte alternative, spesso al limite della provocazione intelligente dall'altra, alla fine è stato addirittura il Fondo Monetario Internazionale ad alzare bandiera bianca e rassegnarsi a "consigliare" una ristrutturazione del debito pubblico di Atene.
Sia detto per inciso: è la proposta che fin dall'inizio aveva fatto Yanis Varoufakis per conto del governo ellenico e per cui si era meritato l'epiteto di "dilettante" da parte del boero destrorso Jeroen Dijsselbloem, capo dell'Eurogruppo e vicepresidente del Consiglio europeo.
"Ristrutturazione" è il termine tecnico, alquanto eufemistico, che sta per "cancellazione parziale" del debito.
Del resto, come ripetono tutti gli analisti (oltre che il governo greco), Atene non potrà mai ripagare un debito salito dal 125 al 180% grazie agli "aiuti" e ai "fraterni consigli" della Troika, che aveva trovato due obbedienti complici nel "socialista" Papandreou e nel conservatore Antonis Samaras.
E' bastato che una coalizione riformista, ma seria come Syriza, puntasse anche un poco i piedi per far scattare prima la ritorsione finanziaria (è bloccata da tre mesi l'ultima tranche di "aiuti" per un valore di 7,2 miliardi di euro), poi il "consiglio" di cambiare governo, seguito dalla richiesta minima di cambiare almeno il ministro delle finanze più popolare d'Europa.
Ma la resistenza di Atene, sempre in bilico tra cedimenti parziali e irrigidimenti doverosi (Syriza ha un mandato elettorale per rimanere dentro la Ue e l'euro, ma mettendo fine alle politiche di austerità), ha provocato la spaccatura tra i suoi aguzzini.
Non c'è ideologia neanche in questo caso.
Il Fondo Monetario Internazionale ha una quota minima di crediti da esigere nei confronti di Atene, mentre la gran parte dell'esposizione debitoria grava sulle spalle dei governi dell'Unione.
Che raccolgono così quanto meritano: la soluzione scelta al tempo del primo "salvataggio" della Grecia era stata infatti particolarmente indicativa. Il debito greco era per alcune decine di miliardi (ma c'è chi calcola fossero soltanto 10) nei confronti delle principali banche del Vecchio Continente, soprattutto tedesche e francesi; il "salvataggio" è consistito nel dare soldi pubblici europei (degli Stati nazionali) ad Atene con l'obbligo di girarli alle banche private.
Così un credito privato diventato inesigibile è stato fatto diventare un credito pubblico, a carico dei contribuenti europei, ad altissimo rischio.
Nell'operazione, in ogni caso, la cifra del debito è levitata enormemente, fino a diventare di 240 miliardi. Una cifra impossibile da restituire, anche a rate, per un paese nel frattempo distrutto a colpi di privatizzazioni, liberalizzazioni, taglio della spesa pubblica e dei salari, che ha visto crollare di oltre il 25% il proprio Pil in soli cinque anni di "aiuti".
La decisione del Fmi, ancora da confermare ufficialmente, ma già "scontata" sui mercati internazionali con una caduta generalizzata delle borse (oltre i due punti percentuali in pochi minuti), è arrivata completamente inattesa. Avrebbe infatti minacciato di non versare la propria quota dei 7,2 miliardi in attesa da tre mesi se non si fosse contemporaneamente proceduto a mettere in piedi un serio piano di "ristrutturazione" del debito.
In altri termini, è come se avessero detto: "è inutile continuare a versare aiuti in un pozzo da cui non torneranno mai indietro; diamoci un taglio, radicale, riportiamo quel debito a un livello credibile, e allora si può continuare a tenere la Grecia dentro l'Unione".
Con buona pace di quei criminali che, tra Berlino e Francoforte, hanno continuato a tirare il cappio intorno al collo di Atene nella convinzione che si potesse davvero spremere sangue dalle rape.
E' così passata improvvisamente in secondo piano tutta la trattativa, in corso da giorni senza limiti di durata, sul "pacchetto di riforme strutturali" che il governo Tsipras avrebbe dovuto accettare smentendo se stesso nel rapporto con gli elettori e le speranze di una popolazione intera.
A conferma che l'ironia della storia è veramente feroce, a fare la proposta, nel corso dell'Eurogruppo a Riga, è stato quel Poul Thomsen, capo del dipartimento europeo del Fmi, che aveva guidato la delegazione della Troika ad Atene per cinque tragici anni.
In ogni caso la trattativa non finisce qui e non sembra che possa dare grandi risultati da qui a una settimana. Lo stesso Varoufakis ha spiegato che «L'11 maggio ci saranno sicuramente discussioni proficue che confermeranno i grandi progressi fatti e verrà fatto un ulteriore passo verso un accordo finale».
Adesso tutti hanno smesso improvvisamente di sorridere sardonici. Lo spettro di un'uscita della Grecia dalla Ue e dall'euro si fa molto più concreto; e i "paesi carogna" (quei Piigs che hanno fatto fin qui quadrato insieme a Berlino contro Atene, a cominciare dall'Italia renziana) sentono il brivido del terrore lungo la schiena. La speculazione finanziaria globale, infatti, ha già fiutato la tempesta sui mercati europei; e non mancherà di rivolgere i propri artigli prima di tutto contro quei paesi deboli che si sono comportati come kapò.
Chiaramente per noi è una notizia che dimostra una verità ormai sotto gli occhi di tutti: l'Unione Europea è un mostriciattolo irriformabile, che fin qui è servito soltanto a rendere più forti le filiere produttive e le banche dei paesi forti (Germania in testa). Romperla e stracciare i trattati che la costituiscono è ora un obiettivo decisamente meno "eccentrico". A Napoli, il 23 e 24 di questo mese, avremo modo di discuterne con esponenti di mezza Europa: quella che soffre.
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