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domenica 17 maggio 2015

LA GUERRA LAMPO DEI FRATELLI RENZI

DI MARCO TRAVAGLIO
ilfattoquotidiano.it

Nessuno ha il coraggio di dire “guerra”: ma è questo che stiamo per fare in Libia. L’ennesima guerra. Difficile camuffarla da “missione umanitaria”, o da “esportazione della democrazia”, o da “soccorso dei civili” – le supercazzole escogitate per le guerre degli ultimi vent’anni, tutte con esiti catastrofici. Quindi se ne sta cercando un’altra sufficientemente ambigua, per nascondere l’orrore e fregare la gente dei paesi coinvolti. O meglio, dell’unico paese che ha già fatto sapere con certezza che parteciperà: l’Italia. Quanto agli altri, si parla di Gran Bretagna, Francia, Spagna, Malta (mai più senza), ma è tutto da vedere.





Così come un altro trascurabile dettaglio: contro chi la facciamo, questa guerra? Contro la Libia del governo islamico di Tripoli, che nessuno riconosce? Contro la Libia del governo in esilio di Tobruk? Contro qualche tribù sfusa? O contro l’Isis, che in Libia non schiera truppe regolari sul campo, ma solo miliziani libici autoarruolati in franchising e nascosti ciascuno in casa propria? Si vedrà, le nostre volpi del deserto – Renzi, Mogherini, Pinotti e persino Alfano, trust di cervelli mica da ridere – ci faranno sapere. Forse.   Intanto la Mogherini è andata all’Onu, molto celebrata dai giornali italiani manco fosse il generale Rommel, e ha chiesto un mandato per destroy: affondare i barconi degli scafisti che traghettano i profughi da un capo all’altro del Mediterraneo. Russi e americani, eccezionalmente compatti di fronte a tanta insipienza, le hanno riso in faccia. Destroy se lo levi dalla testa: la Libia è uno Stato sovrano, anche se momentaneamente dotata di una mezza dozzina di governi, e difficilmente consentirebbe atti di guerra senza reagire. Allora la Mogherini ha spiegato che vuole “destroy the business model”, il modello operativo dei trafficanti. Altre risate rabelaisiane: se non è zuppa è pan bagnato.  
Ora si cerca un compromesso sul verbo dispose: genericamente “eliminare” non si sa bene cosa, dove e come. I russi ricordano che nel 2011 la Nato ebbe il mandato di aiutare i civili libici e poi lo usò per rovesciare Gheddafi, con il bel risultato che sappiamo. C’è poi un’altra questioncella: Tobruk non vuole che l’Onu chieda il permesso a Tripoli, altrimenti riconoscerebbe un governo illegittimo; ma senza l’ok di Tripoli non si può fare nulla, a meno di entrare in guerra con la Libia, cioè di autorizzare una missione di terra, con migliaia di uomini e costi miliardari, molto superiori a quelli dell’accoglienza dei profughi.
L’ipotesi è radicalmente esclusa da Russia, Usa e paesi del Golfo Persico. L’ultima trovata è mandare nei porti gli incursori dell’Esercito e della Marina per sforacchiare i barconi degli scafisti, che le nostre volpi del deserto continuano a chiamare “nuovi schiavisti”, incuranti del fatto che gli schiavisti costringevano gli africani a lasciare i loro paesi per imbarcarsi a forza verso l’Europa o le Americhe, mentre gli scafisti trasportano africani e asiatici che vogliono a tutti i costi emigrare in Europa. Dunque, per quanto spregevole, il loro mestiere risponde a una precisa domanda di mercato che, finché esisteranno guerre e carestie che mettono in fuga le popolazioni, qualcuno dovrà soddisfare. Per ogni barcone bucato o distrutto, ne verranno costruiti altri dieci, magari ancor meno sicuri e dunque vieppiù pericolosi. C’è poi un problemuccio pratico che nessuno dei nostri strateghi ha ancora considerato.   Fermo restando che, prima di distruggere un barcone, bisogna sincerarsi che sia vuoto per evitare di fare stragi ancor più devastanti di quelle che si dice di voler prevenire, come si fa ad accertare con satelliti e droni di ricognizione che un barcone che dall’alto sembra vuoto non è pieno di migranti nascosti nella stiva? E come si fa a distinguere un barcone di migranti da uno di pescatori, visto che spesso gli scafisti sono pescatori che arrotondano il magro stipendio e usano, per pescare e per trasportare, gli stessi natanti? Resta poi da spiegare come si possa impedire a un profugo in fuga da un paese in guerra, dunque con diritto d’asilo, di imbarcarsi per un Paese che lo conceda secondo tutte le leggi internazionali. Ma questi, com’è noto, sono i sofismi dei soliti gufi che vogliono impedire al Caro Premier di tirare diritto per il Bene della Nazione, anzi dell’Umanità.  
Basterà qualche minuscolo accorgimento per sistemare tutto. In luogo degli sgradevoli destroy e dispose, l’Italia potrebbe suggerire all’Onu di usare il verbo riddle: letteralmente “bucherellare”, ma anche “indovinello” e “parlare per enigmi”. Il modello è quello del trattato italo-etiopico siglato nel 1889 a Uccialli dal nostro ambasciatore col negus Menelik, che diceva cose opposte nelle versioni in lingua italiana e in lingua amarica: nella prima l’Etiopia diventava un protettorato italiano e la politica estera del Negus la decideva il nostro governo; nella seconda, Menelik poteva fare di testa sua quando pareva a lui. Una furbata che consentiva a entrambi i governi di presentarsi come vincitori agli occhi dei rispettivi popoli. Poi – sfumato l’effetto annuncio – fra Roma e Addis Abeba riesplose la guerra.   Ma i nostri strateghi sembrano ispirarsi anche al film La guerra lampo dei fratelli Marx, con Groucho protagonista nei panni del capo del governo di Freedonia, Rufus T. Firefly, un dittatorello pazzo, arrogante e anarchico che, dopo aver imposto una serie di leggi demenziali, fa scoppiare un conflitto con la vicina Sylvania. Celebre e attualissima la battuta: “Può essere che Chicolini parli come un idiota e abbia una faccia da idiota. Ma non lasciatevi ingannare: è veramente un idiota”.

Marco Travaglio
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it

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