Alessandro è un giovane addetto alle pulizie sui treni, che da circa due anni svolge le proprie mansioni con scrupolo e diligenza. La sua vita lavorativa scorre tranquilla, almeno fino a quando non riceve, alla vigilia di Natale, una lettera recante la dicitura “contestazione disciplinare”. Non è una lettera di auguri, bensì l’inizio di un procedimento disciplinare in cui gli viene contestata una semplice dimenticanza: l’aver lasciato su un treno la valigia di servizio con l’attrezzatura per pulire. Alessandro, dopo qualche secondo di smarrimento, fa mente locale e poi ricorda: si tratta del pomeriggio del 3 dicembre, quando a causa di un’errata indicazione di un capo treno lasciava su un convoglio diverso da quello su cui era in servizio il trolley con gli strumenti per le pulizie. Nulla di particolare, si intende: dopo una veloce chiamata alla responsabile, ad Alessandro veniva recapitata alla prima fermata una nuova valigia di servizio: ed il treno giungeva a destinazione pulito e lustro come sempre.
Janine invece è una lavoratrice modello, da due anni addetta al controllo di qualità dei vasi in vetro prodotti dall’azienda per cui lavora: mai un errore, sempre tutto perfetto. Da alcune settimane, tuttavia, Janine è tormentata dai problemi familiari, e soprattutto da un marito che le ha preannunciato di volersi separare: pensa giorno e notte al destino della sua famiglia, e soprattutto dei due gemelli avuti quattro anni prima. I pensieri negativi si trasferiscono a lavoro; e scatta purtroppo l’errore: Janine non si accorge di una partita di trenta vasi lievemente difettosi. Anche lei, in prossimità delle vacanze di Natale, ha ricevuto una lettera di “auguri”, con la stessa dicitura di quella di Alessandro: “contestazione disciplinare”. Le si contesta il negligente controllo di una partita di circa quaranta vasi di vetro difettati, successivamente immessi sul mercato. A lei che, in diversi anni di lavoro, non ha mai mancato una partita difettosa. Ma, tant’è, si sa che spesso nel lavoro la riconoscenza non esiste, e Janine se ne fa una ragione.
Questi due episodi, tratti dalla realtà della vita quotidiana sono esemplari di come, d’ora in poi – o meglio, dal varo del cosiddetto “contratto a tutele crescenti” in poi –, l’esistenza di ciascun lavoratore potrebbe essere, in qualsiasi momento, completamente devastata dal minimo errore o dalla più piccola mancanza, anche incolpevole.
Basta raffrontare il destino dei nostri due protagonisti con l’applicazione prima dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (nel testo modificato della cosiddetta “Legge Fornero”) ancora oggi in vigore e poi con la disciplina del tanto declamato “contratto a tutele crescenti”: destini talmente divergenti, da riportare alla mente le scene del film “Sliding doors”.
Esaminiamoli più da vicino, non prima di aver tuttavia svolto una breve premessa.
I fatti non sono contestabili. Si tratta di illeciti disciplinari, incolpevoli quanto si vuole, ma pur sempre configurabili come violazioni del dovere di diligenza, prescritto come tale dall’art. 2104 del codice civile. Ne deriva, per il datore di lavoro, il potere di censurare queste mancanze con delle sanzioni di carattere punitivo denominate “sanzioni disciplinari”, e regolamentate dall’art. 2106 c.c., che così statuisce: “L’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti (artt. 2104 e 2105 c.c., ovverosia la violazione rispettivamente del dovere di diligenza e di fedeltà) puo’ dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione”. Norma codificata quasi al tramonto del regime fascista che ribadisce, tuttavia, un elementare principio di “civiltà giuridica”: ogni pena deve essere adeguata, proporzionata alla gravità del fatto, dell’illecito da sanzionare. E’ il principio di proporzionalità, nato agli albori del diritto: che altro è la legge del taglione (lex talionis), se non l’affermazione della necessaria corrispondenza (cioè proporzione) della pena rispetto all’illecito (il biblico “occhio per occhio, dente per dente” )?
Del resto, appare evidente come il principio di proporzionalità sia il principale istituto di garanzia (insieme al principio di legalità) posto a tutela proprio della dignità personale di chi è sottoposto all’irrogazione di una pena, di qualunque tipo essa sia: è intuitivo a chiunque, infatti, il grave vulnus cui sarebbe sottoposta qualsiasi persona – e con essa anche la stessa idea di giustizia – destinataria di una sanzione esorbitante rispetto alla tenuità del fatto contestato.
Dunque, proprio in applicazione del principio di proporzionalità, anche nell’irrogazione dei provvedimenti disciplinari relativi al rapporto di lavoro, la legge e la contrattazione collettiva hanno previsto un sistema di sanzioni adeguate e “crescenti” (il termine è ormai inflazionato…) rispetto alla gravità degli illeciti: nell’ordine, il rimprovero verbale, il rimprovero scritto, la multa di importo non superiore a quattro ore della retribuzione base, la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per non oltre dieci giorni e, per finire, il licenziamento con e senza preavviso.
Torniamo ai nostri protagonisti.
Alessandro, anche se incolpevolmente, ha violato il dovere di diligenza di cui all’art. 56 comma 1 lett. b) del CCNL applicabile (il CCNL Mobilità del 20.07.2012), che prescrive l’obbligo di cura, per il dipendente, “degli oggetti, macchinari, attrezzi, strumenti ed indumenti da lavoro affidatigli”. Mancanza, questa, punibile nei casi più lievi con il rimprovero verbale o scritto ex art. 58 e, nelle ipotesi più gravi, con la multa ex art. 59 CCNL (che sanziona i comportamenti che, come nel caso di specie, si sostanziano in negligenze da cui non derivino pregiudizi al servizio, alla regolarità del servizio o agli interessi dell’azienda).
Anche Janine, pur con tutta la comprensione per la sua situazione personale, ha comunque chiaramente violato la prescrizione dell’art. 9 del CCNL applicabile (il CCNL Metalmeccanici Industria del 5.12.2012) che prevede la sanzione disciplinare dell’ammonizione scritta, della multa o della sospensione (a seconda della gravità del caso concreto) per il lavoratore che “esegua negligentemente... il lavoro affidatogli”.
Ora, la “prova del nove” sta proprio in questa domanda: cosa accadrebbe ad Alessandro e Janine nel caso in cui i rispettivi datori di lavoro decidessero di punirli con la sanzione più grave e sproporzionata del licenziamento disciplinare? Quale sarebbe il destino di questi due lavoratori vittime di una reazione tanto esorbitante quanto ingiusta?
Con una certa approssimazione, derivante dal fatto che anche la legge Fornero aveva cercato a suo tempo di abolire il principio di proporzionalità in materia di licenziamento disciplinare – tuttavia non riuscendoci, anche in ragione del dominante orientamento giurisprudenziale venutosi a creare presso i Tribunali di merito[1]-, possiamo a ragione sostenere che oggi Alessandro e Janine conseguirebbero la reintegrazione nel proprio posto di lavoro ed il pagamento di un’indennità risarcitoria pari a tutte le retribuzioni decorrenti dalla data del licenziamento a quella della reintegra (non superiore comunque a 12 mensilità), grazie all’applicazione dell’art. 18 comma 4 Stat. Lav. (come modificato dalla Legge 92/2012) che censura il caso in cui “il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. Il ritorno al lavoro ed un adeguato risarcimento del danno: la vita torna quella di sempre, nel suo quotidiano seppur faticoso fluire. Quel che si dice una giusta tutela dell’ordinamento dinanzi ad una condotta iniqua del datore di lavoro.
Domani[2], tuttavia, il quadro cambierà completamente, e con esso i destini di Janine ed Alessandro: l’articolo 3 comma 2 dello “Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” esclude espressamente dalla tutela reintegratoria – apprestata per l’insussistenza del fatto materiale – proprio il caso del licenziamento disciplinare sproporzionato (“rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”), in questo modo disponendo l’applicazione della semplice tutela indennitaria dell’art. 3 comma 1. Il giudice, pertanto, “dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.
Alessandro e Janine, nonostante l’accertata sproporzione del provvedimento disciplinare, nonostante la palese – e dichiarata – ingiustizia di un licenziamento che colpisce in modo tanto iniquo quanto assurdo una minima mancanza, si troveranno in mezzo alla strada dall’oggi al domani. Unico beffardo ristoro, quale “contropartita” per la perdita del posto di lavoro e della relativa retribuzione necessaria “ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.), sarà l’indennità pari ad un minimo di quattro mensilità (addirittura sotto i valori medi della vecchia “tutela obbligatoria” prevista dall’art. 8 L. 604/1966) e ad un massimo di 24 mensilità, livello quest’ultimo raggiungibile tuttavia solo dopo dieci anni di lavoro.
In questo quadro a tinte fosche, non può passare in secondo piano l’umiliazione che subisce l’esercizio del controllo di legalità da parte del giudice, ridotto da un lato alla mera funzione “medico-legale” di accertamento della morte del rapporto di lavoro (e ciò nonostante l’accertata illegittimità della condotta datoriale) e dall’altro al deprimente esercizio contabile di calcolo dell’indennità definita tariffariamente dal decreto attuativo, senza alcun margine discrezionale nell’adeguamento dell’indennità stessa alla gravità dell’illecito datoriale.
Non saremmo tuttavia così sicuri, al posto del Governo e degli “illuminati” consiglieri del Principe, della correttezza e della conformità costituzionale di tale disciplina, che con un tratto di penna abolisce secoli di civiltà giuridica rappresentati dal principio di proporzionalità e dall’adeguamento della norma al caso concreto. La considerazione, infatti, della circostanza che da un lato sarebbe ancora possibile annullare sanzioni disciplinari di gran lunga meno gravi del licenziamento (quali la sospensione, la multa, il richiamo verbale o scritto) in ragione della loro sproporzione e dall’altro situazioni del tutto diverse avrebbero lo stesso indennizzo a causa della sola anzianità di servizio, pone seri dubbi in ordine alla conformità della disciplina del cosiddetto “contratto a tutele crescenti” con il principio di ragionevolezza e proporzione così come delineato dall’art. 3 della Costituzione ed enucleabile da una pluralità di pronunce della stessa Corte Costituzionale.
Del resto, appare davvero assurdo e irragionevole pensare che se ai nostri due sfortunati protagonisti fosse stata invece irrogata dai rispettivi datori di lavoro la sanzione disciplinare della sospensione di dieci giorni dalla retribuzione e dal servizio, in quel caso allora essi avrebbero potuto ricorrere dinanzi al Giudice per chiederne l’annullamento, eventualmente derivandone la “trasformazione”, da parte dello stesso Giudice, in un diverso provvedimento disciplinare più proporzionato (la multa di quattro ore o la sospensione di un giorno). Così come appare altrettanto folle giuridicamente equiparare nelle conseguenze sanzionatorie questi casi di licenziamento sproporzionato rispetto ad altre e differenti ipotesi (prendiamo il caso di scuola di un’assenza ingiustificata di un giorno o di una lieve insubordinazione) che, seppur di per sé non idonee a giustificare un provvedimento di licenziamento, sono di certo più gravi delle mancanze testè citate: in questo caso, tuttavia, il trattamento risarcitorio sarebbe identico (sei mensilità di indennizzo), alla luce dell’anzianità di servizio di due anni dei nostri due lavoratori.
Ma c’è qualcosa di ancor più grave, rispetto alla possibile violazione dell’art. 3 della Costituzione e del correlativo principio di ragionevolezza, che emerge dall’applicazione delle “tutele crescenti”: si tratta delle possibili, pregiudizievoli conseguenze individuali e sociali provocate dalla nuova disciplina.
E’ evidente, infatti, che la facoltà riconosciuta per legge al datore di porre fine al rapporto di lavoro per qualsivoglia minimo illecito disciplinare – di per sé punibile anche solo con un richiamo verbale – a fronte del pagamento di un mero indennizzo economico – indennizzo modesto soprattutto nei primi anni del rapporto – trasforma in modo radicale la figura del prestatore di lavoro subordinato (e del relativo rapporto), un tempo definito dal codice civile come colui che “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa” (art. 2094 c.c.). Il rapporto di lavoro subordinato dunque non è più il sinonimo della collaborazione e della cooperazione nell’ambito dell’organizzazione produttiva, in cui datore e prestatore interagiscono in un’ottica di parità ed equilibrio contrattuale, ma al contrario si riduce alla mera e bieca sottomissione del prestatore di lavoro ad un volere tanto arbitrario quanto paternalistico, in cui il destino personale e lavorativo è rimesso alla – di fatto – insindacabile volontà altrui. Siamo al ritorno del padrone.
Del resto, il fatto che un provvedimento disciplinare anche palesemente sproporzionato possa comunque condurre alla cessazione definitiva del rapporto di lavoro, oltre all’introduzione di un nuovo ed odioso elemento di precarietà nell’unica area – quella della cosiddetta tutela reale – rimasta fino ad oggi immune, non fa che accrescere il senso di profonda ingiustizia provato dal lavoratore eventualmente oggetto di simili – ed immaginiamo frequenti – condotte, manifestamente lesive della dignità personale. Con gravi ed evidenti ricadute, è il caso di precisarlo, sulla stessa coesione sociale, trattandosi di norme e situazioni che, certamente, non potranno che generare profondi contrasti e gravi tensioni tra le parti: tutto il contrario del lavoro inclusivo e aperto delineato dalla carta costituzionale e dalla stessa costituzione europea (art. 4 Cost. e art. 31 Carta dei diritti fondamentali Ue).
Dinanzi a questo nuovo sconfortante panorama lavorativo, risuona in lontananza l’eco delle parole di Bertold Brecht:
Quelli che stanno in alto
si sono riuniti in una stanza
uomo della strada
lascia ogni speranza[3].
NOTE[1] Si cita per tutti l’ordinanza “capofila” dell’orientamento del cd “fatto giuridico”, Tribunale Bologna, sezione lavoro, 15 ottobre 2012; solo recentemente la suprema Corte di Cassazione, con pronuncia n. 23669 del 6 novembre 2014, pare aver “riaperto i giochi” anche con riguardo all’interpretazione dell’art. 18 Stat. Lav. post Legge Fornero, accedendo alla tesi del “fatto materiale” ed escludendo in linea di principio qualsivoglia valutazione in ordine alla proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del fatto. Resta tuttavia il dettato dello stesso art. 18 comma 4 Stat. Lav. che, nel prevedere fra i casi di reintegra il caso in cui “il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, sembra far rientrare anche la questione della proporzionalità nel meccanismo della reintegra, indipendentemente dall’adesione alla tesi del fatto materiale o del fatto giuridico.
[2] Lo schema di decreto attuativo è in attesa del parere non vincolante delle competenti commissioni della Camera dei deputati e del Senato, che dovranno esprimersi entro 30 giorni. Decorso tale termine, il Governo –apportate le eventuali modifiche a seguito delle osservazioni delle Commissioni-, procederà all’approvazione definitiva del decreto legislativo.
[3] Versi tratti da “Quelli che stanno in alto”, in Poesie Politiche, B. Brecht, Torino, Einaudi, 2014, p. 49.
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