Strana, pericolosa Germania: è risorta dalla vergogna mondiale del nazismo ricorrendo alla “politica della memoria” che l’ha riabilitata, beneficiando di un colossale taglio del debito accordatole nel ’53 (per motivi geopolitici, certo) da ben 65 paesi, tra cui l’Italia. Ma ora pare vittima di un’amnesia capitale, pretendendo che il debito altrui venga saldato, costi quel che costi, foss’anche la morte per fame dei poveri greci o la devastazione economica di un grande paese come il nostro. Per Barbara Spinelli, rischia di tornare in scena il peggio della storia europea: proprio i tedeschi stanno infliggendo al resto d’Europa la stessa “punizione” che furono i primi a subire, per mano della Francia, che dopo la Prima Guerra Mondiale demolì la Repubblica di Weimar spianando la strada alle camicie brune. Stessa ricetta degli “austeritari” di allora: deflazione spietata, super-export, crollo dei consumi interni, crescente irresponsabilità bellicosa verso i vicini.
Sbaglia, scrive l’editorialista di “Repubblica”, chi pensa che l’Europa di oggi sia immune dal ritorno della guerra: la grande crisi è già di per sé una forma di guerra, con la sua intollerabile ingiustizia sociale, mentre l’Unione Europea continua ad «affidarsi a una pax americana che sta creando caos più che ordine, in una mondializzazione dove nessuno, da solo, si salverà». Primo nemico, il cieco egoismo di una classe dirigente ipnotizzata dal neoliberismo, il dogma bugiardo che criminalizza l’istituto democratico del debito pubblico, cioè l’investimento a deficit per i cittadini, senza il quale (Fiscal Compact, pareggio di bilancio) crolla anche il settore privato, soffocato dalle tasse. Nella sua analisi sulla grave minaccia rappresentata ancora una volta dalla Germania, Barbara Spinelli non fa cenno alla tragedia della confisca della sovranità finanziaria operata dal regime dell’euro, ma preferisce citare Keynes, nemico storico dei deflazionisti: ignorato dopo il primo conflitto mondiale, il grande economista inglese fu invece ascoltato nel secondo dopoguerra, in cui prevalse la politica espansiva della finanza pubblica, cioè l’opposto del rigore preteso da Bruxelles e dalla Bce.
Barbara Spinelli rimpiange la “saggezza” del Piano Marshall, riconoscendo che non c’è possibile salvezza senza il ritorno a una politica solidale, non usuraia, fondata sulla cooperazione e non sulla competizione esasperata. Il modello tedesco? Pericoloso, e anche fragile. Lo spiega l’economista Ulrich Schäfer: il super-export di Berlino ha causato gravi bolle finanziarie nel SudEuropa, «in ragione di ingenti flussi di capitali non compensati da adeguate importazioni». E’ un boom a doppio taglio, che persino in Germania «s’accompagna a bassi consumi, al precariato che cresce, a gracili importazioni». Piano Marshall? Alcuni critici, come Guido Viale e Luciano Gallino, preferiscono parlare di “riconversione ecologica dell’economia”: investimenti pubblici, certo, ma non per replicare i disastri dello sviluppismo fordista, oggi peraltro resi impossibili dalla crisiterminale del capitalismo globalizzato. Non un solo leader, in Europa, ha il coraggio di bandire la più stupida e pericolosa delle parole, “crescita”. In attesa dell’auspicata rivoluzione culturale, sarà più probabile assistere a rivolte rabbiose contro la livida tirannide dell’euro, sconcertante non-moneta privatizzata a cui gli Stati, direttamente, non hanno accesso.
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