di Piero Orteca
Non è solo economia. E’ anche geostrategia. Il dibattito sulla “Via della seta”, l’intesa Italia-Cina che da qualche tempo infiamma aule parlamentari, giornali e salotti, come spesso capita nella nostra Italietta, viene fin troppo banalizzato. Luoghi comuni, livori “partitici”, ancestrali pregiudizi e sospette e improvvise manifestazioni di fedeltà ai “blocchi” (nel nostro caso quello occidentale) imperversano. Se a questo cocktail di desuete cianfrusaglie ideologiche, aggiungete anche una mirabile ignoranza degli scenari internazionali contemporanei, allora il quadretto è completo.
A dialogare con la Cina tradiamo forse i sacri principi dell’Alleanza atlantica, dell’europeismo più parruccone o della cultura capitalistica “democratica” (delle ferriere), capace di snobbare gli Stati-nazione che non la pensano come noi? Ma quando mai.
Negli ultimi trent’anni i nostri compagni di merende dell’Ovest (rispettabilissimi alleati, per carità) ci hanno spogliato dei gioielli di famiglia ogni volta che hanno potuto. Hanno approfittato della sindrome bipolare di un Paese schizoide come il nostro, dove hanno convissuto governi stile Katanga e settori privati formato Giappone (o Ruhr, fate voi), per affondare i loro bisturi nelle nostre vive carni.
Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, l’Italia ha perso importanza “strategica” (dicono loro) diventando solo ed esclusivamente terra di conquista, per gli avventurieri in doppio petto che calavano da ogni dove. Come i lanzichenecchi. Il resto lo hanno fatto governi senza spina dorsale, proni e asserviti al capitale straniero. “Italia invertebrada” avrebbe scritto Ortega y Gasset. Ci hanno tenuti a galla solo ed esclusivamente la nostra creatività e il nostro “genio” italico. Quelli non sono riusciti a copiarli, ma li hanno solo scarabocchiati. Ergo, il nostro export di “qualità” e ad alto valore aggiunto, trainato dalle piccole e medie imprese, ci ha salvato le terga.
Oggi, fermi restando i principi ispiratori della nostra appartenenza (atlantica, europea e democratica) chi si permette di criticare scelte come l’intesa geo-strategica con la Cina, o non capisce il resto di niente o prende soldi (e prebende) dall’estero. Dai compagnucci della parrocchietta, che hanno fatto carne di porco col colonialismo dei sette mari e poi, oltre al danno la beffa, anche con la decolonizzazione. Tanto il conto (salato) lo stiamo pagando ancora noi. Trump ha gettato all’aria decenni d’intese sul libero commercio solo per il suo sporco tornaconto e senza versare una lacrima.
Si è inventato sanzioni a vanvera quando gli conveniva, tirandosi appresso un’Europa patetica, che predica bene e razzola male. Anzi, che si comporta come se fosse guidata da una congrega di cialtroni. Perché i soliti noti, vedi Germania, Francia e Inghilterra, hanno continuato, sottobanco, a fare affari con tutti, vendendosi. come Faust, l’anima al diavolo. Discorsi “sovranisti”? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe sibilato il mitico Totò. Quest’etichetta oggi viene appiccicata a qualsiasi riflessione che metta al primo posto, com’è logico, l’interesse nazionale. Che non dev’essere cieco e manco “rampante”, come ha opportunamente ricordato lo stesso Presidente Mattarella. Ma che deve ispirare tutta la nostra politica estera.
I latini dicevano “Est modus in rebus”. Facciamo le cose con saggezza e moderazione, ma facciamole. La Cina si avvia a essere il primo gigante economico mondiale. Ha le casse piene di valuta pregiata (anche grazie a tutti i dollari che le vengono dall’avere turato le falle del debito pubblico americano…) e più prima che dopo esploderà non solo come modello di economia “supply side”, ma anche come un’idrovora che alimenterà la domanda internazionale. Noi dobbiamo essere in prima fila. Chi ci vuole ricacciare nel loggione straparla a vanvera, di cose che non capisce o non conosce. Oppure, più semplicemente, ci teme.
fonte: QUI
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