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mercoledì 11 aprile 2018

Il pensiero di J. M. Keynes, Susan Strange e Dani Rodrik su interesse nazionale e democrazia

di Enrico Grazzini

Il presidente degli Stati Uniti d'America Donald Trump sta chiudendo le frontiere del suo paese applicando pesanti dazi alla Cina e a tutto il mondo, e si sta scontrando apertamente con il presidente cinese Xi Jinping che invece è diventato il maggiore alfiere del libero commercio internazionale (anche se Xi Jinping si guarda bene dal liberalizzare completamente la moneta e la finanza nel suo paese).

Lo scontro tra protezionismo e globalismo non si limita certo al conflitto tra Trump e Xi Jinping.





Uno scontro analogo, anche se ovviamente non identico, si svolge da tempo in Europa, tra i cosiddetti “sovranisti” che non vogliono subordinarsi all'euro e alla “tecnocrazia” di Bruxelles, e, dall'altra parte, gli europeisti ad oltranza: questi ultimi sono schierati a favore della maggiore integrazione europea, e quindi a favore della libera circolazione dei capitali (che, insieme alla libera circolazione delle merci e delle persone, è il sacro principio fondante di questa Unione Europea).


Gli europeisti ad oltranza condannano a priori ogni forma di resistenza nazionale con l'accusa di populismo e di sciovinismo retrogrado e reazionario. 

Ormai però le forze della destra nazionalista (purtroppo) dilagano: in alcuni stati già governano, come nell'est Europa e in Austria, in altri stati i nazionalisti di destra sono diventati la principale forza di opposizione, come in Germania l'AFD (Alternative für Deutschland) e in Francia il Front National. Il nazionalismo ha attualmente quasi sempre una caratterizzazione di destra estrema e para-fascista. La Gran Bretagna è uscita nonostante che laburisti fossero contrari alla Brexit. L'onda della destra nazionalista avanza ormai in tutta Europa, Italia compresa.

In diverse versioni, lo scontro è quindi a tutto campo tra globalizzazione e nazionalismo, tra libero commercio e protezionismo. Lo scopo di questo scritto è di rispondere ad alcune domande cruciali: le forze progressiste e democratiche, e quelle di sinistra, devono diventare “nazionaliste” o no? Devono difendere e sviluppare o no l'economia, la cultura e l'autonomia politica della nazione? E se no, perché? E se invece sì, perché, come, e con quali modalità e con quali obiettivi?

Per tentare di rispondere a questi quesiti in questo articolo richiamerò le teorie e le lezioni di tre autorevolissimi studiosi, che in Italia quasi mai vengono citati in merito a queste questioni: John Maynard Keynes, considerato l'inventore della macroeconomia; Susan Strange, considerata l'inventrice dell'economia politica internazionale. Fino alla sua scomparsa (1998), Strange è stata la capofila degli studiosi britannici di relazioni internazionali; purtroppo però è sempre stata sottovalutata in Italia, forse perché le sue analisi sul Casino Capitalism, erano tanto precise e anticipatrici quanto insopportabilmente radicali ed “estremiste” per gli studiosi italiani, troppo abituati all'ambiguità e ai compromessi intellettuali; e Dani Rodrik, docente di Economia Politica Internazionale alla John F. Kennedy School of Government e alla Harvard University.

Rodrik oltre che essere un'autorità riconosciuta nel campo della finanza e del commercio internazionale, è, insieme a Joseph Stiglitz e ad altri eminenti studiosi, molto critico sulla globalizzazione, che considera nemica della democrazia.

Il dilemma da affrontare è centrale: infatti, secondo gran parte degli economisti e dei politici, il fronte principale dello scontro politico nel mondo – dopo che si è concluso il conflitto tra capitalismo e comunismo, con il primo vincitore pressoché assoluto – non sarebbe più tra destra e sinistra, ma tra globalizzazione e nazionalismo, ovvero tra chiusura nazionale e apertura internazionale.

Per gli economisti ortodossi, e per quasi tutta la sinistra, essere nazionalisti significa semplicemente essere culturalmente retrogradi e politicamente sciovinisti: il nazionalismo comporterebbe automaticamente l'approdo a ideologie conservatrici e a politiche reazionarie e parafasciste. A me pare invece che – anche in base alle lezioni di Keynes, della Strange e di Rodrik – la questione sia più complessa.

Occorre innanzitutto ricordare una realtà banale, quasi ovvia, ma spesso dimenticata: nel finanzcapitalismo il capitale passa tutte le frontiere, è “internazionalista” e non ha nazione (almeno così appare), mentre il lavoro, la produzione reale, i conflitti sociali e di classe, e la democrazia rimangono sempre necessariamente ancorati al livello nazionale. In questo senso la classica visione marxista del proletariato come classe spontaneamente internazionale e “al di sopra” degli specifici contesti nazionali, è irrealistica e velleitaria. Il terreno delle battaglie democratiche e delle lotte sociali è sempre innanzitutto nazionale.

Anticipo la conclusione delle mie considerazioni affermando che – seguendo la lezione de tre maestri citati sopra – le forze progressive dovrebbero denunciare e contrastare le istituzioni della globalizzazione – tra le quali l'Unione Europea e la moneta unica in particolare, che sono dichiaratamente nate e si sono sviluppate su presupposti iper-liberisti – e difendere innanzitutto l'economia nazionale, il lavoro e la democrazia del proprio Paese.

Il finanzcapitalismo e la crisi dell'eurozona

Per comprendere le idee di Keynes, Strange e Rodrik sulla globalizzazione, il protezionismo e il nazionalismo, è necessario un minimo di approfondimento sulla situazione attuale del capitalismo e dell'Unione Europea. Partiamo da un dato di fatto ampiamente riconosciuto e non contestabile: il capitalismo è attualmente caratterizzato dal dominio della finanza speculativa sull'economia reale ed è diventato finanzcapitalismo.[1]

Il finanzcapitalismo ha origine e si sviluppa con la fine degli accordi di Bretton Woods (1944). Il sistema di Bretton Woods è stato progettato dalle grandi potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale (USA e Gran Bretagna) ed era basato sulla fissità dei rapporti di cambio tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all'oro. Gli accordi sui cambi fissi – anche se aggiustabili – erano mirati ad abbattere le barriere commerciali e a incrementare gli scambi internazionali. Il cambio fisso elimina infatti il cosiddetto “rischio di cambio”. Parallelamente, a differenza del sistema che lo precedette (il Gold Standard), si stabilì che la mobilità internazionale dei capitali dovesse essere limitata poiché si era consci del grande peso che essa aveva avuto nel determinare la crisi globale negli anni '30.

Con la fine dell'intesa di Bretton Woods e dell'equivalenza tra dollaro e oro, annunciata dal famoso discorso del presidente americano Richard Nixon nel 1971, si è aperta la strada verso la completa e globale deregolamentazione dei capitali finanziari internazionali e dei cambi delle valute nazionali. Gli storici probabilmente non hanno ancora riconosciuto l'importanza eccezionale di questo salto di qualità: la fine dell'intesa di Bretton Woods ha avviato un processo di completa mobilità dei capitali e di speculazione sulle monete nazionali che costituisce una svolta radicale nella storia del mondo, paragonabile alla caduta del muro di Berlino e alla fine dell'Unione Sovietica e del comunismo.

Con la fine dei cambi fissi e l'introduzione dei cambi flessibili, con la libera circolazione dei capitali - a cui è stato consentito di speculare sulle monete e sulla finanza degli altri Paesi - si sono aperti mercati sconfinati per la grande finanza, in primis anglo-americana (grazie al “privilegio esorbitante del dollaro”, la moneta dominante a livello globale) ma anche della grande finanza europea (sfera del marco e del franco, e poi dell'euro) e giapponese (sfera dello yen). Il capitale finanziario è diventato libero di muoversi a livello globale non solo e non tanto per investire a medio e lungo termine sulla produzione reale, ma soprattutto per cercare profitti a breve termine in ogni angolo del pianeta.

La nuova finanza non intermedia più tanto il risparmio indirizzandolo verso gli investimenti produttivi. Il finanzcapitalismo, sfruttando il suo dominio sulla moneta e sul credito, tende invece a un processo rapido di accumulazione soprattutto grazie a rischiose scommesse sui titoli finanziari. Il finanzcapitalismo alimenta incessantemente il debito e sfrutta come un parassita le risorse produttive grazie innanzitutto al suo potere sulla moneta.

Il finanzcapitalismo ha come obiettivo principale proprio gli stati, dal momento che questi sono i maggiori detentori di ricchezza in ogni singolo paese e sono anche i maggiori debitori. In generale uno stato controlla mediamente circa il 30-50% del PIL, ovvero la parte più ampia di ricchezza nazionale, e ha debiti per quote assai rilevanti e crescenti del PIL (in Europa gli stati hanno un debito medio pari circa al 90% del Pil complessivo).

L'obiettivo del nuovo capitalismo non è più tanto il profitto industriale quanto – grazie al dominio delle monete forti e mediante la servitù del debito - l'estrazione di valore dai mercati monetari e finanziari, dagli stati indebitati, dai cittadini che pagano le tasse, dal risparmio del ceto medio, dal lavoro, e dallo stesso capitale produttivo. Al conflitto tradizionale caratteristico del secolo scorso, quello tra le classi lavoratrici e gli industriali (i padroni), si sovrappone il nuovo conflitto tra la grande finanza internazionale, sostanzialmente parassitaria, e le economie nazionali, tra speculazione ed economia reale, tra creditori e debitori, tra stati forti e stati indebitati.

Il neocolonialismo monetario e finanziario contrasta necessariamente la democrazia politica e il compromesso sociale che si erano sviluppati negli stati europei dopo il secondo conflitto mondiale grazie agli accordi di Bretton Woods. Democrazia e diritti sociali diventano un ostacolo, un muro da abbattere per avanzare nella globalizzazione.

Le scommesse speculative generano però necessariamente continue crisi, e i cicli finanziari basati sul debito tendono a diventare insostenibili. Quando si verifica la crisi, per salvarsi e rigenerarsi, il sistema finanziario chiede l'aiuto dello stato, ha bisogno del denaro dei contribuenti e ricorre quindi alla moneta come pubblico. In questo senso produce le condizioni per la sua stessa fine.

La causa principale della crisi europea, e in particolare dell'eurozona, consiste proprio nel fatto che i trattati costitutivi dell'Unione Europea hanno spianato la strada alla finanza speculativa. Il liberismo – fondato sulla completa libertà di movimento di masse enormi di capitale – è nel DNA di questa Unione Europea nata a Maastricht, ed è anche il peccato mortale che la condanna alla strutturale debolezza e alla disunione.

Il problema dell'eurozona è che non ha gli anticorpi istituzionali per contrastare la crisi che genera. Le politiche di austerità imposte dalla miopia tedesca frenano l'economia e generano deflazione e disoccupazione. Questo aumenta la fragilità finanziaria e i debiti della periferia dell'eurozona. Il punto debole è che la Banca Centrale Europea che emette la moneta unica, a differenza delle altre banche centrali, della FED americana e della Banca Centrale giapponese, per statuto non può coprire (ovvero monetizzare, stampando moneta) i debiti di stato.

Così gli stati dell'eurozona si devono indebitare sui mercati finanziari in euro, cioè in una moneta straniera – ovvero in una moneta che non possono controllare – come aziende private qualsiasi. E subiscono il ricatto e lo sfruttamento della speculazione finanziaria. A causa di questo sistema perverso il rischio di fallimento di uno stato è sempre presente. La crisi del sistema è insita nella sua stessa struttura.

L'eurozona si tiene assieme solo perché nessuno sa bene come uscirne. Le elezioni italiane, che, se mai riusciranno a dare un governo al Paese, certamente non lo daranno pro-UE, potrebbero diventare l'occasione del crollo totale del sogno/incubo sovranazionale e della moneta unica europea. Per uscire dal tunnel della crisi, occorrerebbe allora nazionalizzare il debito pubblico – senza affidarlo completamente agli umori dei mercati finanziari – e rilanciare l'economia reale – grazie per esempio alla cosiddetta moneta fiscale[2].

Keynes e l'elogio del “protezionismo”

Keynes si è sempre schierato contro la liberalizzazione dei movimenti di capitale, cioè contro quella che spesso chiamava semplicemente “fuga dei capitali”. Per lui non era ammissibile che il risparmio maturato in un paese vada a beneficiare altri paesi solo perché il capitale è ingordo e cerca di ottenere ovunque elevati rendimenti a breve termine.

Per il grande economista britannico il libero movimento dei capitali avrebbe portato a scompensi e a crisi valutarie, e a un tendenziale (anche se irraggiungibile) e dannoso livellamento dei tassi di interesse a scapito dell'autonomia monetaria delle singole nazioni. Infatti quando i capitali sono liberi di muoversi, prendono a prestito nei paesi a basso tasso di interesse e impiegano le risorse ottenute nei paesi dove il tasso di interesse è maggiore, in modo da guadagnare sul differenziale (arbitraggio, o carry trade). Questi movimenti influenzano ovviamente i tassi di cambio delle valute.

In questo contesto le banche centrali e i governi sono costretti ad aggiustare i tassi di interesse a livello nazionale in base ai movimenti del capitale speculativo internazionale.[3] Per un governo diventa praticamente impossibile attuare una politica monetaria valida per l'economia nazionale. Per Keynes quindi è preferibile che i governi e gli accordi internazionali contrastino il libero movimento dei capitali e che i tassi di interesse siano fissati autonomamente in base alle esigenze nazionali, in modo cioè che l'economia cresca e produca la piena occupazione senza tensioni inflazionistiche.

Così scriveva il maggiore economista del secolo scorso cercando di convincere i suoi connazionali che il dogma del libero commercio era sbagliato e che occorreva innanzitutto promuovere una politica nazionale autonoma (traduzione e sottolineature mie).[4] “E' più facile sviluppare una politica nazionale maggiormente efficace se un fenomeno noto come "fuga di capitali" può essere completamente evitato. All'interno di un paese il divorzio tra proprietà e responsabilità del management diventa un fattore grave di rischio quando, in un'impresa in comproprietà, la proprietà è divisa tra innumerevoli entità che magari oggi acquistano una fetta di capitale e poi domani lo rivendono senza avere la minima conoscenza dell'impresa stessa e senza essere assolutamente responsabili verso quello su cui hanno temporaneamente investito. Quando poi lo stesso principio – cioè quello per cui “sono irresponsabile nei confronti di quello che possiedo, e coloro che gestiscono la mia proprietà sono irresponsabili verso di me” - viene applicato a livello internazionale, esso diventa assolutamente intollerabile, soprattutto in tempi di stress economico.

Qualcuno può anche fare il calcolo che sul piano finanziario sia vantaggioso che i miei risparmi siano investiti in qualunque parte del globo abitabile e che mostri la maggiore efficienza marginale del capitale, o che il tasso di interesse più elevato. Ma sta maturando l'esperienza che la distanza tra proprietà e management è un male nei rapporti tra gli uomini, ed è assai probabile, anzi è certo, che nel lungo periodo crei tensioni e contrasti che porteranno ad azzerare il ritorno finanziario.

Perciò simpatizzo con coloro che puntano a minimizzare piuttosto che a massimizzare i legami economici tra le nazioni.

Le idee, le conoscenze, l'arte, l'ospitalità, i viaggi - queste sono le cose che dovrebbero avere una natura internazionale. Ma lasciate che le merci siano invece prodotte principalmente a livello nazionale quando sia ragionevolmente possibile e conveniente; e, soprattutto, la finanza deve essere principalmente nazionale... sono incline alla convinzione che, dopo la transizione, una maggiore misura dell'autosufficienza nazionale e dell'isolamento economico tra i paesi che esistessero nel 1914, può tendere a servire la causa della pace, piuttosto che diversamente. In ogni caso l'età dell'internazionalismo economico non ha avuto particolarmente successo nell'evitare la guerra”.

In un mondo razionale è necessario un notevole grado di specializzazione internazionale in tutti i casi in cui questa è dettata da ampie differenze di clima, risorse naturali, di abitudini naturali, livello di cultura e densità di popolazione. Ma su una gamma sempre più ampia di prodotti industriali, e forse anche di prodotti agricoli, dubito che il costo economico dell'autosufficienza nazionale sia abbastanza grande per superare gli altri vantaggi di portare progressivamente il produttore e il consumatore nell'ambito della stessa organizzazione nazionale, economica e finanziaria.

L'internazionalismo economico che abbraccia la libera circolazione del capitale, dei fondi attivi e dei beni negoziati può condannare questo paese (Keynes si riferiva alla sua Gran Bretagna, ndr) per una generazione a raggiungere un livello molto inferiore di prosperità materiale di potrebbe essere raggiunto con un sistema diverso”.

Anche in base a queste sue idee è stato costruito il compromesso di Bretton Woods che imponeva severe restrizioni al movimento internazionale dei capitali e un regime di cambi fissi (ma eventualmente aggiustabili nel caso che un paese registrasse crisi gravi della bilancia dei pagamenti).

Nel secondo dopoguerra, grazie alla regolamentazione del movimento dei capitali, e grazie al fatto che gli stati europei hanno potuto proteggersi dalle importazioni di merci americane, l'economia europea “protezionista” è riuscita a decollare nonostante le rovine della guerra. Bretton Woods ha assicurato alti livelli di benessere nei paesi sviluppati, almeno fino agli anni '70. Poi è seguita l'ondata liberista portata dalle politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

Susan Strange: stato e finanza speculativa

Susan Strange ha il merito di avere innovato radicalmente l'analisi delle relazioni internazionali unificando lo studio dell'economia e della politica interazionale, che prima erano quasi sempre esaminate separatamente. In pratica ha “inventato” una nuova disciplina: l’“economia politica” delle relazioni internazionali.

Strange fin dagli anni '80-90 ha detto praticamente tutto l'essenziale sul caos della finanza deregolamentata - diventata praticamente un gioco d'azzardo -, e sui pesanti condizionamenti che il sistema finanziario, le grandi multinazionali e le istituzioni sovranazionali esercitano sulle istituzioni statali nazionali.

La tesi fondamentale della Strange è che gli stati non sono più l'unico attore delle relazioni internazionali, e che le istituzioni statali sono sempre più soggette a condizionamenti, pressioni e influenze di diversi attori, soprattutto da parte della finanza, delle imprese multinazionali e dei detentori delle tecnologie.

Già nel 1996 Susan Strange aveva indicato come conseguenza dei cambiamenti globali “un intensificarsi della separazione delle imprese dai governi dei loro paesi di origine. Le imprese americane, britanniche, persino giapponesi che individuino nuovi mercati nei quali esiste una domanda in crescita, scoprono anche che per loro è necessario prestare maggiore attenzione ai desideri dell’autorità, centrale o locale, statale o non statale, che governa questi mercati”. [5]

Strange ha compreso le potenzialità distruttive della finanza creativa basata sui cosiddetti prodotti derivati, individuando nella fine di Bretton Woods, nella fine del sistema dei cambi fissi, nella possibilità di speculare sulle monete, e nell'internazionalizzazione dei movimenti di capitale l'origine del caos speculativo. Le sue analisi sono profetiche: “"Il sistema finanziario occidentale" scrisse nel 1986, "sta rapidamente diventando né più né meno che un grande casinò .... Questo non può che avere gravi conseguenze ". [6] Per Strange l'instabilità finanziaria era diventata "la questione principale della politica internazionale e dell'economia”.

L'economista britannica attribuisce il declino del potere statale alla diffusa erosione della fiducia del pubblico nella sua capacità di leadership: le persone sono inclini a vedere il potere come corrotto o impotente nell'affrontare problemi come l'insicurezza, la disoccupazione e i servizi pubblici in declino.

Il divario tra la politica in declino e l'autorità pubblica da una parte e, dall'altra parte, una società civile insufficientemente sviluppata, è riempito da una sfera nascosta di potere, che include non solo la criminalità organizzata ma anche servizi di intelligence, banche per il riciclaggio del denaro sporco, il commercio di armi, i cartelli della droga e le organizzazioni terroristiche. Questo mondo opaco e segreto penetra nel governo e sviluppa relazioni simbiotiche con il big business e la finanza. Questo ambiente simbiotico mina la trasparenza e la responsabilità pubblica e diminuisce ulteriormente la fiducia del pubblico nelle istituzioni.

Strange non aveva però troppa fiducia neppure nelle istituzioni sovranazionali che cercano di governare i conflitti e i mercati globali. Strange mostrò che tutte le strutture sovranazionali nate dai governi (come il FMI, la Banca Mondiale, l'ONU) non sono mai realmente al di sopra delle nazioni, ma sono in realtà lo schermo dell'egemonia degli stati più forti. L'ONU per esempio è dominata dalle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, da Usa, Russia e Cina, Gran Bretagna e Francia, mentre la UE è egemonizzata dalla Germania in alleanza con la Francia.

Strange spiega che “L’organizzazione internazionale è soprattutto un mezzo a disposizione del governo nazionale, uno strumento per conseguire l’interesse nazionale con altri mezzi… Troppo spesso un regime è raffigurato solo quale mera conseguenza di un processo di armonizzazione, mediante il quale i governi hanno coordinato i loro interessi comuni. L’elemento costituito dal potere viene sminuito. Tuttavia, molti regimi internazionali non sono stati tanto il risultato di un’unità di intenti fra eguali, quanto il risultato finale della strategia espressa da uno Stato dominante o, a volte, da un ristretto gruppo di Stati dominanti…”. [7]

La Strange era anche molto critica verso il processo di integrazione monetaria che si stava compiendo in Europa, e ne previse la crisi.[8] Per lei una moneta unica - con un unico tasso di interesse, un unico tasso di cambio, e una unica politica di regolazione della massa monetaria e del credito bancario – non era adatta per paesi tra loro diversissimi. Ancora una volta previde perfettamente i fattori della futura crisi.

Dani Rodrik

Dani Rodrik è noto per essere assai critico sulle questioni della globalizzazione e dell'ideologia del libero mercato. Ha enunciato un ormai famoso "teorema di impossibilità" che recita così (traduzione mia). “la democrazia, la sovranità nazionale e l'integrazione economica globale sono reciprocamente incompatibili tra loro: si possono combinare due di questi tre elementi, ma non possiamo mai disporre di tutti e tre loro contemporaneamente e per intero”.[9]

Spiega Rodrik: “Una profonda integrazione economica richiede che eliminiamo tutti i costi di transazione che i commercianti e i finanzieri affrontano nei loro rapporti transfrontalieri. Gli stati nazione sono una fonte fondamentale di questi costi di transazione. Generano il rischio sovrano, creano discontinuità normative alle frontiere, impediscono la regolamentazione globale e la supervisione degli intermediari finanziari internazionali e rendono un prestatore globale di ultima istanza un sogno senza speranza”.

Rodrik continua a spiegare il suo teorema: “Un'altra opzione è mantenere lo stato nazionale legandolo alle esigenze dell'economia internazionale. Questo stato però perseguirebbe l'integrazione economica internazionale a scapito degli altri obiettivi interni. Il crollo dell'esperimento di convertibilità argentino degli anni '90 fornisce l'esempio contemporaneo della intrinseca incompatibilità con la democrazia di questa soluzione”.

“Infine “spiega Rodrik” possiamo dimensionare le nostre ambizioni in relazione a quanta integrazione economica internazionale possiamo (o dovremmo) raggiungere. In conclusione è preferibile optare per una versione ristretta della globalizzazione, come quella realizzata dal regime di Bretton Woods del dopoguerra (con i suoi controlli sui capitali e una liberalizzazione degli scambi limitata). Sfortunatamente Bretton Woods è diventato vittima del proprio successo. Abbiamo dimenticato il compromesso incorporato in quel sistema e quale era la fonte della sua fortuna”.

“Qualsiasi riforma del sistema economico internazionale deve affrontare questo trilemma “conclude Rodrik” Se vogliamo una maggiore globalizzazione, dobbiamo rinunciare alla democrazia o alla sovranità nazionale. Fingere di poter avere contemporaneamente tutti e tre le cose ci lascia in una instabile terra di nessuno”.

Secondo Rodrik, la globalizzazione espande le opportunità di sviluppo economico grazie all'incremento del commercio internazionale. Ma la globalizzazione comporta anche gravi conseguenze distributive, con alcuni gruppi sociali che soffrono condizioni peggiorative. Chiusure di fabbriche, dislocazione di posti di lavoro e offshoring sono il rovescio della medaglia dei vantaggi del libero commercio.

Per gestire positivamente la globalizzazione molti chiedono istituzioni in grado di esercitare una guida democratica dei processi internazionali. Ma, secondo Rodrik una democrazia globale per l'economia mondiale è velleitaria e praticamente impossibile; inoltre è difficile azzerare gli Stati nazionali.

Qual è allora la strada giusta? «Io non ho dubbi: la democrazia e la determinazione nazionale devono prevalere sull’iperglobalizzazione “spiega Rodrik” Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro sistemi sociali, e quando questo diritto entra in conflitto con le esigenze dell’economia globale, è quest’ultima che deve cedere. Restituire potere alle democrazie nazionali garantirebbe basi più solide per l’economia mondiale, e qui sta il paradosso estremo della globalizzazione. Occorre sviluppare uno strato sottile di regole internazionali che lascino ampio spazio di manovra ai Governi nazionali; questa sarebbe una globalizzazione migliore, un sistema che può risolvere i mali della globalizzazione senza intaccarne i grandi benefici economici”. [10]

Non ci serve una globalizzazione estrema e incontrollata, ma una globalizzazione intelligente, riassume Rodrik con uno slogan.

Per Rodrik “occorre ribilanciare l'eccessiva focalizzazione sulla governance globale per concentrarsi invece sul governo nazionale. Le nostre elite intellettuali e politiche credono che i nostri problemi globali siano originati dalla mancanza di accordi globali, e che abbiamo bisogno di più accordi globali. Ma la maggior parte dei nostri problemi economici deriva dai problemi nella governance locale e nazionale. Se le economie nazionali fossero gestite correttamente, potrebbero generare piena occupazione, potrebbero generare soddisfacenti intese sociali e buoni risultati distributivi; e potrebbero anche generare un'economia mondiale aperta e sana.

Questo problema è importante, specialmente in relazione alla sinistra cosmopolita e progressista, perché tendiamo ad essere imbarazzati quando parliamo di interesse nazionale. Penso che dovremmo capire che l'interesse nazionale è in realtà complementare all'interesse globale, e che il problema ora non è che non siamo sufficientemente orientati alla globalizzazione, ma che non siamo sufficientemente inclini a perseguire l'interesse nazionale in un senso ampio e inclusivo. Potrebbe sembrare un po 'paradossale, ma è un dato di fatto”.

Rodrik ha espresso le sue convinzioni anche sulla Unione Europea. “Prima ho creduto che la UE potesse essere l'unica forza dell'economia mondiale in grado di combinare con successo l'iperglobalizzazione (il mercato unico) con la democrazia, grazie alla creazione di un demos e un sistema politico europeo. Ma ora devo ammettere che ho sbagliato in questa visione (ma forse era solo una speranza). Il modo in cui la Germania, e Angela Merkel in particolare, hanno reagito di fronte alla crisi in Grecia e in altri paesi indebitati ha sepolto ogni possibilità di un'Europa democratica”.[11]


NOTE

[1]Luciano Gallino “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi”, 20111.

[2]Enrico Grazzini, Economiaepolitica.it “Tre proposte per ridurre il rapporto debito pubblico/PIL”, 2018

[3]E' noto il cosiddetto Trilemma dell'economia internazionale. Considerando tre fattori a) tassi di cambio fissi; b) autonomia della politica monetaria nazionale; c) mobilità dei capitali finanziari, essi, presi insieme, sono incompatibili; possono invece essere compatibili solo due delle tre opzioni prese in a coppia.

[4]John Maynard Keynes “National Self-Sufficiency”, The Yale Review, Vol. 22, no. 4 (June 1933)

[5] Susan Strange “Chi governa l'economia mondiale? Crisi dello Stato e dispersione del potere”, edito da Il Mulino, 1998

[6] Susan Strange “Capitalismo d'azzardo”, Laterza, 1988

[7]Susan Strange “Chi governa l'economia mondiale?”, già citato

[8]Susan Strange “Chi governa l'economia mondiale? ”, già citato

[9]Dani Rodrik's weblog “The inescapable trilemma of the world economy” giugno 2007

[10]Intervista a Dani Rodrik “What’s Wrong With Our System Of Global Trade And Finance” Talking Points Memo, 9 giugno, 2017

[11]Idem

fonte: MicroMega

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