di Gianmaria Vianova
Partiamo da questo presupposto: Santa Maradona può piacere o non piacere ma rimane una fonte cospicua di citazioni deliziose. Tipo: quale crede sia il suo maggior pregio? La sincerità. E il suo principale difetto? La sincerità. Qual è la sua massima aspirazione? La sincerità. È un giovanotto sveglio, vedo. E allora mi dica: qual è il reddito annuo della sua famiglia? La sincerità?
Qui un giovane Stefano Accorsi interpreta Andrea, un laureato in Lettere alla disperata ricerca di un’occupazione. Non è che si faccia proprio voler bene dai selezionatori, diciamo.
Ogni volta che si ritrova a dover sostenere un colloquio rovina tutto, evadendo dalla rigida etichetta che quel contesto impone. Santa Maradona, in questi termini, è una commedia ribelle e anticonformista, potenziale cult un po’ dimenticato dal cinema italiano.
Era il 2001 e già allora l’atroce rito del reclutamento si consumava a danno della sanità mentale della generazione più giovane. Oggi, dopo la crisi e la decrescita (in)felice impostaci da una certa filosofia economica, il dramma si è ampliato. La disoccupazione non sembra intenzionata a scendere sotto l’11%, ma il dato ufficioso che comprende scoraggiati e sottoccupati sarebbe addirittura intorno al 39%, un’enormità. L’occupazione, con crescita del PIL inferiore al 2% annuo, non aumenta in maniera sensibile anche se lascia spazio ad un aumento del tasso di speranza, non quantificabile, all’interno di ciascuno di noi. È il momento in cui partono curriculum, e-mail e buste di rito.
Pochi rispondono, quasi nessuno a dire il vero, e allora si apre l’iter che potrebbe, e dico potrebbe, portarti a trovare lavoro. La tradizione vuole che il colloquio individuale sia la prassi. Tu, solo, davanti ad un selezionatore. Se prima chi doveva occuparsi di te era il capo dell’azienda, o perlomeno colui che si occupava della gestione dell’attività, adesso si preferisce relegare la selezione ad esperti e professionisti dell’ambito. Si tratta solitamente di psicologi o, semplicemente, gestori delle risorse umane. Più o meno sai cosa aspettarti, data l’esperienza secolare.
Oggi però è un’altra la tendenza, della quale si parla troppo poco peraltro, e prende il nome di colloquio di gruppo. Mai sentito parlare? Questa tipologia di reclutamento è di per sé più subdola e criptica, in quanto non solo il candidato viene analizzato per curriculum e singolarmente ma anche all’interno di un contesto sociale. Solitamente si è in una decina (otto è il numero magico) chiusi in una stanza, dieci candidati per un unico posto che cercano di alzare la propria cresta più in alto di quella altrui. L’idea di base è riuscire a giudicare il comportamento dell’umano in un contesto stressante e la sua connessa capacità di relazione.
Tavolo al centro, contendenti intorno, un conduttore del gioco a premi e qualche assistente armato di block-notes che si appunta ogni vostro comportamento. Un clima leggero, per intenderci. I test psico-attitudinali, specialmente per le mansioni meno qualificate, sono totalmente estranei al lavoro per cui ci si è candidati. Si passa dal doversi presentare al comunicare agli avversari il proprio personaggio dei cartoni animati preferito, dalla scelta di un personaggio famoso da invitare a cena alla propria passione più grande. Nel mezzo può esserci di tutto.
Classificare i colori in base alla propria preferenza, dare un ordine di priorità ad una serie di aggettivi proiettati sul muro, leggere un racconto e rispondere a domande di comprensione scritta e produzione orale. Immancabile il momento catartico: la discussione. Il gruppo di estranei, con interessi personali che ovviamente collidono (un solo posto disponibile, ricordo), devono avviare un dibattito costruttivo e amichevole relativamente ad un tema imposto dal selezionatore/conduttore. Per questo il colloquio collettivo è più scomodo di quello individuale: non sai come prenderlo. Intervenire sempre? Parlare poco? Rispondere per primi o evitare? Paranoie nel campo dell’irreale. Si rischia di perdere il lavoro per una risposta che non si confà ad uno dei selezionatori presenti nella stanza.
Non si nega la presenza di una letteratura scientifica che sostenga i benefici della suddetta modalità di reclutamento, ma non si può non biasimare il postulato che sta alla base: la lotta per la sopravvivenza. Morte tua, vita mia. È la guerra tra poveri istituzionalizzata attraverso un metodo perverso e controverso. Il candidato viene obbligato a sovrastare a livello di carisma i contendenti, anche laddove il lavoro della discordia non lo contempli: da anni grandi catene come Esselunga o UCI Cinemas, tra le altre, hanno importato dai paesi anglosassoni i colloqui collettivi, anche per posti come cassiere e bigliettaio.
Si tratta di lavori a bassa competenza, privi di qualsivoglia necessità di doversi confrontare con ostili contendenti al proprio posto (servendo popcorn non hai a che fare con clienti che tentano di sostituirti dietro al banco). L’idea che sta dietro al processo è la conclamata volontà di assumere futuri dirigenti e non semplici dipendenti. In questo caso ancor più di prima non si comprende come un colloquio basato su sottili test psicologici in cui mentire è la prassi (e fingere la versione più superba e strafottente di sé stessi è persino consigliato) possa definirti adatto o inadatto al ruolo.
Eppure tutto ha una sua coerenza. L’incommensurabile tasso di disoccupazione reale comporta la costituzione di un esercito industriale di riserva (perché sempre Marx, che ci aveva visto lungo, in questo decennio pare onnipresente) che spinge sì al ribasso i salari ma altresì inasprisce la lotta al posto di lavoro, anche laddove poco qualificato o non particolarmente ambito di per sé. Nel nostro presente è il capitale ad aver battuto il salariato, ridotto al suo aspetto più animale: la lotta tra simili per il pane, o per un lavoretto part-time sottopagato.
È questo il ritorno allo Stato di natura che Rousseau auspicava? No, per niente. Ridurre i diritti (non benefici, diritti) sociali acquisiti durante decenni di lotta inasprendo però il potere del datore di lavoro (quindi la qualifica di proprietà privata del dipendente nei confronti del padrone) porta ad una fatale regressione. I metodi smart e anglofoni, corroborati da risultati certificati all’estero, non necessariamente si adattano alla società del lavoro italiana. La scelta è stata quella di forzare comunque l’introduzione di tali metodi, sperando che fossero i lavoratori italiani ad adeguarsi: è la globalizzazione, bellezza.
Il popolo dei Neet, per qualcuno meri scansafatiche, per i sociologi invece giovani che provano un forte disagio per società e mondo del lavoro, è l’esempio pregnante di una guerra tra disoccupati alla ricerca di un posto. Definirli choosy è quantomeno azzardato: sono ragazzi e ragazze in difficoltà. Sono stati cresciuti da genitori che per un lavoro al supermercato (o qualsiasi altro che non richieda una alta specializzazione) dovevano semplicemente posare un curriculum sul banco per essere richiamati, mentre oggi si deve superare un labirinto di pretese, aspettative, richieste e improbabili test il tutto per una retribuzione inferiore.
Invece di puntare il dito contro di loro, come troppo spesso si fa, sarebbe più corretto puntarlo verso il mercato del lavoro, verso il fantasma dei diritti sociali e chimera della piena occupazione, scomparsa dai radar governativi. Ad oggi non viene chiesto loro di studiare per un lavoro, bensì di imparare a memoria il sito internet dell’azienda in cui vorrebbero lavorare, il decalogo delle possibili richieste in un colloquio collettivo e le norme di comportamento per sembrare candidati ideali. Perché la differenza sta tutta lì, tra l’essere e il sembrare, e pare che l’apparenza (ingannevole per definizione e luoghi comuni) sia ciò che davvero conti in processo di selezione privo di criteri ortodossi. Non è un mondo facile. Non che lo sia mai stato, ma oggi ci si sta mettendo d’impegno.
Era il 2001 e già allora l’atroce rito del reclutamento si consumava a danno della sanità mentale della generazione più giovane. Oggi, dopo la crisi e la decrescita (in)felice impostaci da una certa filosofia economica, il dramma si è ampliato. La disoccupazione non sembra intenzionata a scendere sotto l’11%, ma il dato ufficioso che comprende scoraggiati e sottoccupati sarebbe addirittura intorno al 39%, un’enormità. L’occupazione, con crescita del PIL inferiore al 2% annuo, non aumenta in maniera sensibile anche se lascia spazio ad un aumento del tasso di speranza, non quantificabile, all’interno di ciascuno di noi. È il momento in cui partono curriculum, e-mail e buste di rito.
Pochi rispondono, quasi nessuno a dire il vero, e allora si apre l’iter che potrebbe, e dico potrebbe, portarti a trovare lavoro. La tradizione vuole che il colloquio individuale sia la prassi. Tu, solo, davanti ad un selezionatore. Se prima chi doveva occuparsi di te era il capo dell’azienda, o perlomeno colui che si occupava della gestione dell’attività, adesso si preferisce relegare la selezione ad esperti e professionisti dell’ambito. Si tratta solitamente di psicologi o, semplicemente, gestori delle risorse umane. Più o meno sai cosa aspettarti, data l’esperienza secolare.
Oggi però è un’altra la tendenza, della quale si parla troppo poco peraltro, e prende il nome di colloquio di gruppo. Mai sentito parlare? Questa tipologia di reclutamento è di per sé più subdola e criptica, in quanto non solo il candidato viene analizzato per curriculum e singolarmente ma anche all’interno di un contesto sociale. Solitamente si è in una decina (otto è il numero magico) chiusi in una stanza, dieci candidati per un unico posto che cercano di alzare la propria cresta più in alto di quella altrui. L’idea di base è riuscire a giudicare il comportamento dell’umano in un contesto stressante e la sua connessa capacità di relazione.
Tavolo al centro, contendenti intorno, un conduttore del gioco a premi e qualche assistente armato di block-notes che si appunta ogni vostro comportamento. Un clima leggero, per intenderci. I test psico-attitudinali, specialmente per le mansioni meno qualificate, sono totalmente estranei al lavoro per cui ci si è candidati. Si passa dal doversi presentare al comunicare agli avversari il proprio personaggio dei cartoni animati preferito, dalla scelta di un personaggio famoso da invitare a cena alla propria passione più grande. Nel mezzo può esserci di tutto.
Classificare i colori in base alla propria preferenza, dare un ordine di priorità ad una serie di aggettivi proiettati sul muro, leggere un racconto e rispondere a domande di comprensione scritta e produzione orale. Immancabile il momento catartico: la discussione. Il gruppo di estranei, con interessi personali che ovviamente collidono (un solo posto disponibile, ricordo), devono avviare un dibattito costruttivo e amichevole relativamente ad un tema imposto dal selezionatore/conduttore. Per questo il colloquio collettivo è più scomodo di quello individuale: non sai come prenderlo. Intervenire sempre? Parlare poco? Rispondere per primi o evitare? Paranoie nel campo dell’irreale. Si rischia di perdere il lavoro per una risposta che non si confà ad uno dei selezionatori presenti nella stanza.
Non si nega la presenza di una letteratura scientifica che sostenga i benefici della suddetta modalità di reclutamento, ma non si può non biasimare il postulato che sta alla base: la lotta per la sopravvivenza. Morte tua, vita mia. È la guerra tra poveri istituzionalizzata attraverso un metodo perverso e controverso. Il candidato viene obbligato a sovrastare a livello di carisma i contendenti, anche laddove il lavoro della discordia non lo contempli: da anni grandi catene come Esselunga o UCI Cinemas, tra le altre, hanno importato dai paesi anglosassoni i colloqui collettivi, anche per posti come cassiere e bigliettaio.
Si tratta di lavori a bassa competenza, privi di qualsivoglia necessità di doversi confrontare con ostili contendenti al proprio posto (servendo popcorn non hai a che fare con clienti che tentano di sostituirti dietro al banco). L’idea che sta dietro al processo è la conclamata volontà di assumere futuri dirigenti e non semplici dipendenti. In questo caso ancor più di prima non si comprende come un colloquio basato su sottili test psicologici in cui mentire è la prassi (e fingere la versione più superba e strafottente di sé stessi è persino consigliato) possa definirti adatto o inadatto al ruolo.
Eppure tutto ha una sua coerenza. L’incommensurabile tasso di disoccupazione reale comporta la costituzione di un esercito industriale di riserva (perché sempre Marx, che ci aveva visto lungo, in questo decennio pare onnipresente) che spinge sì al ribasso i salari ma altresì inasprisce la lotta al posto di lavoro, anche laddove poco qualificato o non particolarmente ambito di per sé. Nel nostro presente è il capitale ad aver battuto il salariato, ridotto al suo aspetto più animale: la lotta tra simili per il pane, o per un lavoretto part-time sottopagato.
È questo il ritorno allo Stato di natura che Rousseau auspicava? No, per niente. Ridurre i diritti (non benefici, diritti) sociali acquisiti durante decenni di lotta inasprendo però il potere del datore di lavoro (quindi la qualifica di proprietà privata del dipendente nei confronti del padrone) porta ad una fatale regressione. I metodi smart e anglofoni, corroborati da risultati certificati all’estero, non necessariamente si adattano alla società del lavoro italiana. La scelta è stata quella di forzare comunque l’introduzione di tali metodi, sperando che fossero i lavoratori italiani ad adeguarsi: è la globalizzazione, bellezza.
Il popolo dei Neet, per qualcuno meri scansafatiche, per i sociologi invece giovani che provano un forte disagio per società e mondo del lavoro, è l’esempio pregnante di una guerra tra disoccupati alla ricerca di un posto. Definirli choosy è quantomeno azzardato: sono ragazzi e ragazze in difficoltà. Sono stati cresciuti da genitori che per un lavoro al supermercato (o qualsiasi altro che non richieda una alta specializzazione) dovevano semplicemente posare un curriculum sul banco per essere richiamati, mentre oggi si deve superare un labirinto di pretese, aspettative, richieste e improbabili test il tutto per una retribuzione inferiore.
Invece di puntare il dito contro di loro, come troppo spesso si fa, sarebbe più corretto puntarlo verso il mercato del lavoro, verso il fantasma dei diritti sociali e chimera della piena occupazione, scomparsa dai radar governativi. Ad oggi non viene chiesto loro di studiare per un lavoro, bensì di imparare a memoria il sito internet dell’azienda in cui vorrebbero lavorare, il decalogo delle possibili richieste in un colloquio collettivo e le norme di comportamento per sembrare candidati ideali. Perché la differenza sta tutta lì, tra l’essere e il sembrare, e pare che l’apparenza (ingannevole per definizione e luoghi comuni) sia ciò che davvero conti in processo di selezione privo di criteri ortodossi. Non è un mondo facile. Non che lo sia mai stato, ma oggi ci si sta mettendo d’impegno.
fonte: l'Intellettuale Dissidente
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