E così, alla fine, il governo è riuscito a salvare Banca Popolare di Vicenza e Veneto banca, e con loro i correntisti con somme depositate oltre i centomila Euro e i possessori di obbligazioni senior: non subiranno le conseguenze previste dalla recente disciplina europea, quella sul mitico bail in, non dovranno cioè contribuire in prima persona al salvataggio.
La parte sana delle due banche verrà regalata a Banca Intesa, che erediterà così una rete di sportelli in una tra le aree più ricche del Paese. E riceverà inoltre cinque miliardi di Euro per fronteggiare i costi dell’operazione, inclusa la gestione dei quasi quattromila lavoratori che perderanno il posto.
La parte malata delle due banche verrà invece assorbita dallo Stato, che metterà a disposizione altri dodici miliardi di Euro come garanzia per i crediti deteriorati: quelli che hanno condotto i due istituti veneti alla rovina.
Il tutto con la benedizione della Commissione europea e della Banca centrale europea, a dimostrazione che, se e quando vuole, il governo sa battere i pugni sul tavolo e farsi concedere ciò che vuole dai tecnocrati di Bruxelles. Così come è bravo a trovare in fretta i soldi, sempre se e quando vuole, cioè quando si tratta di banche. Non ha volto e non vuole, invece, per gli edifici scolastici che cadono a pezzi, per la sanità oramai incapace di soddisfare le richieste dei cittadini, per le pensioni minime da adeguare al costo della vita, per la manutenzione delle strade sempre più pericolanti, per gli stipendi dei dipendenti pubblici al palo da anni, per i servizi pubblici locali a cui si offre la privatizzazione come unica prospettiva, per la messa in sicurezza del territorio tanto sbandierata nelle settimane successive al terremoto. Per tutto questo i soldi non ci sono, e sempre meno ci saranno, dal momento che il governo si è impegnato con l’Europa a risparmiare, nei prossimi due anni, una trentina di miliardi.
Difficilmente il Pd, maggiore azionista del governo, potrà scrollarsi di dosso l’immagine della forza politica al servizio dei forti, e nel contempo sordo alle ragioni dei deboli, lavoratori in testa. Del resto è troppo stridente il confronto con due recenti episodi particolarmente significativi: la reintroduzione truffaldina dei voucher e la pretestuosa polemica sul diritto di sciopero.
Cominciamo da quest’ultima. Il 16 giugno scorso i sindacati di base hanno scioperato per protestare contro le privatizzazioni e le liberalizzazioni che colpiscono i trasporti e la logistica. Evidentemente il tema era molto sentito dai lavoratori, e difatti l’astensione ha ottenuto un’adesione elevata, con disagi in particolare nelle grandi città. Lo sciopero, in quanto ha riguardato un servizio pubblico essenziale, è stato organizzato nel rispetto di quanto prevede la legge al fine di bilanciare i diritti dei lavoratori alla lotta sindacale e dei cittadini alla mobilità. Si è infatti rispettato il periodo di preavviso e si è inoltre predisposto un piano di prestazioni minime, il tutto presidiato da un sistema di sanzioni, oltre che dalla possibilità di ricorrere alla precettazione. Ciò nonostante il governo, per bocca del Ministro dei trasporti Delrio, ha colto l’occasione per un ennesimo attacco al diritto di sciopero, da colpire con regole ancora più restrittive destinate a evitare che “una minoranza di lavoratori tenga in ostaggio una maggioranza di cittadini nelle loro esigenze quotidiane”. Come se non ci fossero già le regole a cui abbiamo fatto riferimento, e come se il diritto di sciopero fosse una prerogativa da riservare a quei pochi lavoratori che, per le caratteristiche della loro occupazione, possono esercitarlo colpendo il solo datore di lavoro: i casellanti, i controllori di bordo, e pochi altri.
Nella medesima occasione solo Luigi Gubitosi, commissario straordinario di Alitalia, era riuscito a dire una cosa più fastidiosa: ha sostenuto, con sprezzo del ridicolo, che lo sciopero era un regalo alla concorrenza. Come se fossero i lavoratori la causa del disastro della ex compagnia aerea di bandiera, e non i dirigenti come lui, che poi corrono ai ripari dichiarando nuovi esuberi.
Se nella vicenda dello sciopero nei trasporti il governo è stato intellettualmente disonesto, in quella dei voucher le regole violate non sono solo quelle della morale. È infatti noto che i voucher sono stati aboliti solo per evitare il referendum voluto dalla Cgil. E che, una volta ottenuto questo risultato, sono stati reintrodotti, oltretutto con una disciplina che ha addirittura esteso la platea dei soggetti che possono ricorrervi: famiglie, imprese e pubblica amministrazione.
Per la verità la nuova legge ha individuato qualche espediente per prevenire gli abusi, che difficilmente funzionerà, ma che è servito a legittimarla: il governo ha sostenuto che il problema principale sollevato dal referendum era appunto la possibilità di abusare dei voucher. È chiaro però che il sindacato poneva una questione di principio, che voleva cioè contrastare la tendenza alla voucherizzazione del lavoro: la sua riduzione a una relazione di mercato qualsiasi, allo scambio dell’attività umana contro il salario. Senza che vi siano fastidiose obbligazioni accessorie, come quelle che richiamano il diritto a una retribuzione dignitosa, o il diritto a essere reintegrati se licenziati ingiustamente. Questo era il senso del referendum, per questo aveva raccolto tante firme, e per questo il governo ha compito un atto eversivo, inedito e inaudito. Anche se oramai in linea con una consolidata tradizione di ostilità nei confronti dei lavoratori incarnata dal partito di Renzi.
Forse, se da qualche tempo a questa parte il Pd esce male dalle urne, è perché gli elettori hanno finalmente compreso di che pasta è fatto. È il partito che toglie ai lavoratori per dare alle banche, che a furia di voler vincere conquistando il centro è finito a destra, che combatte le ideologie solo se sono di sinistra, ma non se spianano la strada al libero mercato. E che dalla destra verrà prima o poi sconfitto, non appena avrà finito di compiere il lavoro sporco, o se si preferisce di essere apprezzato come utile idiota.
Il tutto con la benedizione della Commissione europea e della Banca centrale europea, a dimostrazione che, se e quando vuole, il governo sa battere i pugni sul tavolo e farsi concedere ciò che vuole dai tecnocrati di Bruxelles. Così come è bravo a trovare in fretta i soldi, sempre se e quando vuole, cioè quando si tratta di banche. Non ha volto e non vuole, invece, per gli edifici scolastici che cadono a pezzi, per la sanità oramai incapace di soddisfare le richieste dei cittadini, per le pensioni minime da adeguare al costo della vita, per la manutenzione delle strade sempre più pericolanti, per gli stipendi dei dipendenti pubblici al palo da anni, per i servizi pubblici locali a cui si offre la privatizzazione come unica prospettiva, per la messa in sicurezza del territorio tanto sbandierata nelle settimane successive al terremoto. Per tutto questo i soldi non ci sono, e sempre meno ci saranno, dal momento che il governo si è impegnato con l’Europa a risparmiare, nei prossimi due anni, una trentina di miliardi.
Difficilmente il Pd, maggiore azionista del governo, potrà scrollarsi di dosso l’immagine della forza politica al servizio dei forti, e nel contempo sordo alle ragioni dei deboli, lavoratori in testa. Del resto è troppo stridente il confronto con due recenti episodi particolarmente significativi: la reintroduzione truffaldina dei voucher e la pretestuosa polemica sul diritto di sciopero.
Cominciamo da quest’ultima. Il 16 giugno scorso i sindacati di base hanno scioperato per protestare contro le privatizzazioni e le liberalizzazioni che colpiscono i trasporti e la logistica. Evidentemente il tema era molto sentito dai lavoratori, e difatti l’astensione ha ottenuto un’adesione elevata, con disagi in particolare nelle grandi città. Lo sciopero, in quanto ha riguardato un servizio pubblico essenziale, è stato organizzato nel rispetto di quanto prevede la legge al fine di bilanciare i diritti dei lavoratori alla lotta sindacale e dei cittadini alla mobilità. Si è infatti rispettato il periodo di preavviso e si è inoltre predisposto un piano di prestazioni minime, il tutto presidiato da un sistema di sanzioni, oltre che dalla possibilità di ricorrere alla precettazione. Ciò nonostante il governo, per bocca del Ministro dei trasporti Delrio, ha colto l’occasione per un ennesimo attacco al diritto di sciopero, da colpire con regole ancora più restrittive destinate a evitare che “una minoranza di lavoratori tenga in ostaggio una maggioranza di cittadini nelle loro esigenze quotidiane”. Come se non ci fossero già le regole a cui abbiamo fatto riferimento, e come se il diritto di sciopero fosse una prerogativa da riservare a quei pochi lavoratori che, per le caratteristiche della loro occupazione, possono esercitarlo colpendo il solo datore di lavoro: i casellanti, i controllori di bordo, e pochi altri.
Nella medesima occasione solo Luigi Gubitosi, commissario straordinario di Alitalia, era riuscito a dire una cosa più fastidiosa: ha sostenuto, con sprezzo del ridicolo, che lo sciopero era un regalo alla concorrenza. Come se fossero i lavoratori la causa del disastro della ex compagnia aerea di bandiera, e non i dirigenti come lui, che poi corrono ai ripari dichiarando nuovi esuberi.
Se nella vicenda dello sciopero nei trasporti il governo è stato intellettualmente disonesto, in quella dei voucher le regole violate non sono solo quelle della morale. È infatti noto che i voucher sono stati aboliti solo per evitare il referendum voluto dalla Cgil. E che, una volta ottenuto questo risultato, sono stati reintrodotti, oltretutto con una disciplina che ha addirittura esteso la platea dei soggetti che possono ricorrervi: famiglie, imprese e pubblica amministrazione.
Per la verità la nuova legge ha individuato qualche espediente per prevenire gli abusi, che difficilmente funzionerà, ma che è servito a legittimarla: il governo ha sostenuto che il problema principale sollevato dal referendum era appunto la possibilità di abusare dei voucher. È chiaro però che il sindacato poneva una questione di principio, che voleva cioè contrastare la tendenza alla voucherizzazione del lavoro: la sua riduzione a una relazione di mercato qualsiasi, allo scambio dell’attività umana contro il salario. Senza che vi siano fastidiose obbligazioni accessorie, come quelle che richiamano il diritto a una retribuzione dignitosa, o il diritto a essere reintegrati se licenziati ingiustamente. Questo era il senso del referendum, per questo aveva raccolto tante firme, e per questo il governo ha compito un atto eversivo, inedito e inaudito. Anche se oramai in linea con una consolidata tradizione di ostilità nei confronti dei lavoratori incarnata dal partito di Renzi.
Forse, se da qualche tempo a questa parte il Pd esce male dalle urne, è perché gli elettori hanno finalmente compreso di che pasta è fatto. È il partito che toglie ai lavoratori per dare alle banche, che a furia di voler vincere conquistando il centro è finito a destra, che combatte le ideologie solo se sono di sinistra, ma non se spianano la strada al libero mercato. E che dalla destra verrà prima o poi sconfitto, non appena avrà finito di compiere il lavoro sporco, o se si preferisce di essere apprezzato come utile idiota.
fonte: MicroMega
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