di Filippo Burla
E così, nel giro di pochi mesi, ci siamo giocati e ci giocheremo la proprietà nazionale di Ilva e Alitalia. Dall’acciaio ai cieli, è cronaca di un Paese ormai incapace di tenersi stretti i gioielli industriali, che quasi senza colpo ferire – o addirittura con complicità interne – passano di mano prendendo la via dell’estero.
C’era un tempo chi parlava di difesa dell’italianità e, dall’altra parte, chi stigmatizzava il concetto sottolineando che i capitali non hanno patria e sono sempre i benvenuti se forieri di investimenti.
Certo se la difesa dell’italianità significava raggruppare improbabili cordate che hanno dato vita ad accrocchi societari incapaci di cavar fuori un ragno dal buco (Alitalia), la figura è stata decisamente magra. Meglio non va però per gli altri, che dimenticano un piccolo particolare: i capitali esteri saranno pure investimenti (assunto comunque da dimostrare), ma si tratta allo stesso tempo anche di debiti. Debiti verso l’estero, a voler essere più precisi. Liquidità in ingresso sì in Italia ma, dato che nessuno vuole spendere a fondo perduto, con l’aspettativa di un rendimento sul medio termine. Significa che, a fronte di una somma versata oggi, i proventi futuri non resteranno nel circuito nazionale.
In altre parole, il suddetto investimento assume la forma a tutti gli effetti di una depredazione a danno dell’Italia. Una scorreria che colpisce la nostra industria, i nostri lavoratori, l’intera nostra economia. Prendiamo l’Ilva: grazie all’incapacità dei due colossi tricolore rimasti, Marcegaglia e Arvedi, di far fronte comune, i raggruppamenti che si sono sfidati vedevano in entrambi i casi un soggetto straniero (franco-indiano per Marcegaglia, indiano per Arvedi) a dettar legge stanti le quote di maggioranza. Il risultato? Nonostante la dote dei miliardi per il risanamento ArcelorMittal è riuscita nell’impresa di redigere un piano industriale fatto di 6mila licenziamenti, oltre un terzo del totale dei dipendenti. Dopo l’annuncio-choc il numero si è ridotto a “soli” 4200, ma le prospettive sono quelle di praticamente dimezzare entro il 2024.
Non va meglio per Alitalia, la cui procedura di cessione ha raccolto 32 manifestazioni di interesse: ancora da vagliare per restringere il campo ai soggetti più affidabili, ma l’impressione è che di Alitalia non voglia farsi carico nessuno. Se mai, sono quasi tutti interessati a singoli asset della fu compagnia di bandiera: chi punta alle rotte, chi agli slot, chi a qualche aereo, chi al mercato italiano. È il caso ad esempio di Lufthansa e Ryanair, due pretendenti in prima fila che non hanno mai fatto mistero di voler sì partecipare all’asta, ma facendo saccheggio di parti più o meno interessanti dell’ex vettore tricolore, senza ambire in alcun modo all’acquisto dell’intera società. Offrendo così, sia pur involontariamente, una visione plastica dello stato nel quale versa l’economia nazionale.
Fonte: Il Primato Nazionale
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