Ultimi Post

martedì 16 agosto 2016

50 volte NO all’Euro

di Paolo Becchi e Fabio Dragoni

Mentre tutti i giornali sono pieni e zeppi di Italicum – condito ormai nelle salse più diverse – e di ragioni per il sì o il no ad un referendum su una revisione costituzionale da vero sballo, vi offriremo un piccolo manuale di salvezza nazionale su due temi che riteniamo veramente decisivi per la sorte del nostro Paese e di cui solo Libero parla. L’euro da una parte e l’Unione Europea dall’altra. Il primo è un cappio al collo che sta inesorabilmente umiliando e devastando un Paese che nel dopoguerra ha dimostrato – invece – di saper brillantemente camminare e correre sulle sue gambe fino a diventare una delle principali potenze manifatturiere del pianeta. La seconda è una gabbia soffocante che limita la nostra sovranità in spregio ai più elementari principi di libertà.





Riconquistare la propria indipendenza monetaria è condizione necessaria – anche se non sufficiente – per tornare a crescere.
Senza questo scatto di orgoglio e libertà ogni altro meritevole sforzo per rilanciare l’economia del Paese si rivelerà purtroppo inutile. Ecco perché abbiamo deciso di elencare “vero su bianco” 50 buoni motivi per dire NO all’euro e NO all’Unione Europea. E lo faremo sfatando uno per uno tutti i luoghi comuni più radicati di volta in volta tirati in ballo da chi sostiene che non ci sia alternativa.

1- Perché i Trattati dell’Unione violentano la nostra Costituzione. 
L’adozione dei Trattati palesa un’esplicita violazione dei più elementari principi fondanti della nostra Costituzione. Tutto è fuorché un progetto che risponde allo spirito della nostra Carta. Ci si riferisce in particolare all’articolo 1. Il secondo comma recita “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. È impossibile non toccare con mano come il potere decisionale sia stato di fatto delegato ad élite tecnocratiche, non elette ed irresponsabili. Come altrettanto evidente e palese è la violazione dell’articolo 11 della nostra Carta laddove viene scritto che l’Italia “consente in condizioni di parità con gli altri Stati (principio nei fatti già sconfessato dalle cronache quotidiane) alle limitazioni (si badi bene non si parla di “cessioni” ma di “limitazioni”) di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. I Padri Costituenti si riferivano in maniera esplicita ad Organizzazioni transnazionali quali le Nazioni Unite. Non certo ad un mostro giuridico quale l’Unione Monetaria Europea che addirittura pretende di promuovere o bocciare le leggi di bilancio dei singoli Stati aderenti prima ancora che queste siano presentate al voto dei parlamenti nazionali. E cosa c’è dunque di più anticostituzionale che cedere la propria sovranità monetaria?

2- Perché la “castrazione monetaria” oltre ad essere anticostituzionale non è cosa affatto normale. 
Gli eurofili ritengono che sia assolutamente naturale aver conferito ad un’autorità sovranazionale come la BCE il diritto di coniare moneta. Segue un illuminante elenco di alcuni altri Paesi al mondo che hanno deciso di non coniare monete nazionali. E vi assicuriamo che vederli colorati in un planisfero (come ha fatto il sito com) fa un certo effetto. Ecuador, Timor est, El Salvador, Isole Marshall, Micronesia, Palau, Turks and Caicos, Isole Vergini Britanniche, Zimbabwe, Benin, Burkina Faso, Camerun, Repubblica Centro Africana, Ciad, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal, Togo, Antigua e Barbuda, Dominica, Grenada, Saint Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vicent and the Grenadines ecc. Tutti Stati, cioè, con un recente passato da colonia.

3- Perché l’Unione Monetaria non è fatta su misura per l’Italia. L’Europa non è affatto una casa comune. L’Italia abbandonò nel 1992 un insostenibile tasso di cambio “fisso” con le altre valute per essere poi sciaguratamente ripreso nel 1996. Nel 1999 – al momento dell’ingresso nell’euro – il reddito pro-capite degli italiani era il 96% di quello tedesco. Nel 2015 dopo sedici anni di euro il reddito degli italiani è il 76% di quello dei tedeschi (Fondo Monetario Internazionale). Le alternative sono due. O Meno Europa oppure Meno Reddito. Tertium non datur.

4- Perché l’Unione Monetaria è fatta invece su misura della Germania.
La pretesa di ritenere che l’Unione sia un progetto comune costruito nell’interesse ed al servizio di tutti è una pura utopia. Basta rielaborare i dati relativi al surplus/deficit delle partite correnti di Italia e Germania. Nel periodo intercorrente fra il 1993 ed il 1999 l’Italia ha sempre avuto un surplus positivo per arrivare a toccare il suo massimo nel 1996. Un valore del 2,9% sul PIL. Purtroppo in quell’anno l’Italia cessa di far fluttuare liberamente la propria valuta per rientrare nuovamente nel Sistema Monetario Europeo, in previsione dell’adozione dell’euro del 1999 (sebbene l’euro sia entrato materialmente in circolazione il 1 gennaio 2002). Nello stesso periodo la Germania ha quasi sempre registrato un deficit (mediamente dell’1% con l’eccezione del 1998). Ma dal 2000 al 2013 la situazione si capovolge radicalmente. L’Italia in questi 14 anni ne colleziona 12 di deficit per arrivare ad un picco negativo di -3,5% sul PIL nel 2010 mentre la Germania “ingrana la quarta” collezionando 12 anni di surplus ed arrivando al picco positivo del 7% nel 2012 (FMI).

5- Perché avevano bisogno di un pollo da spennare: l’Italia. Queste in proposito le confessioni dell’ex Ministro Vincenzo Visco a Stefano Feltri nel maggio 2012: “L’Italia fuori dall’euro, visto il nostro apparato industriale, poteva fare paura a molti, incluse Francia e Germania che temevano le nostre esportazioni prezzate in lire. Ma Berlino ha consapevolmente gestito la globalizzazione: le serviva un euro deprezzato, così oggi è in surplus nei confronti di tutti i Paesi, tranne la Russia da cui compra l’energia. Era un disegno razionale, serviva l’Italia dentro la moneta unica proprio perché era debole”. Ogni ulteriore commento ci sembra superfluo.

6- Perché economie diverse devono avere monete diverse. 
Ma è semplice: altrimenti il debole diventa sempre più debole ed il forte diventa sempre più forte. La moneta, cioè, assolve al ruolo di “ammortizzatore” nei rapporti fra diverse economie. Quella infatti che si trova in una situazione di difficoltà vedrà la sua moneta svalutarsi. Ovvero il prezzo di quella moneta si riallineerà al giusto prezzo di mercato, così consentendo un recupero di competitività. Ma non potendo svalutare la moneta, l’unica alternativa per recuperare la competitività rimane quella del taglio dei salari e dell’aumento di produttività attraverso licenziamenti. E la conferma arriva addirittura dalla Commissione UE che in un report del gennaio 2014 rivelava: “Venuta meno la possibilità di svalutare la moneta, i Paesi della zona euro che tentano di recuperare competitività sul versante dei costi devono ricorrere alla ‘svalutazione interna’ (contenimento di prezzi e salari). Questa politica presenta però limiti e risvolti negativi, non da ultimo in termini di un aumento della disoccupazione e del disagio sociale “.

7- Perché la Germania ce lo ha detto chiaro e tondo. 
6 Maggio 2014 la tedeschina Ska Keller – leader dei verdi – viene intervistata in TV su Rai 3. Queste le sue testuali parole “Se la Germania lasciasse l’euro perderebbe moltissimi posti di lavoro nel settore delle esportazioni perché nessuno comprerebbe più i prodotti carissimi tedeschi”. Theo Waigel, ex ministro del finanze tedesco (10 luglio 2016): “Se la Germania oggi uscisse dall’Unione Monetaria allora avremmo immediatamente, il giorno dopo, un apprezzamento tra il 20% ed il 30% del marco tedesco che tornerebbe nuovamente in circolazione. Chiunque si può immaginare che cosa significherebbe per il nostro export, per il nostro mercato del lavoro, per il nostro bilancio federale. Invece con un’uscita dall’euro ed un taglio netto del debito la crisi interna italiana finirebbe di colpo”. Più chiaro di così.

8- Perché famosissimi economisti ce lo hanno detto chiaro e tondo. 
Sul testo “macroeconomia” scritto da Rudiger Dornbush e Stanley Fischer si sono formati milioni di studenti di tutto il mondo. In un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista Foreign Affairs, Dornbusch venti anni fa scriveva: “Abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio l’Euro finirà per scaricare sul mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività ed i prezzi relativi. Diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione e pressioni sulla BCE affinché inflazioni l’economia. Una volta entrata l’Italia con una valuta sopravvalutata si troverà di nuovo alle corde come nel 1992, quando venne attaccata la lira”. Un’ulteriore conferma arriva addirittura da uno studio finanziato dalla Commissione UE a firma degli economisti Lars Jonung ed Eoin Drea. Già il titolo parla da solo: “L’Euro non può essere realizzato. È una pessima idea. Non durerà. Il parere degli economisti americani nel periodo 1989-2002“. Nel sommario riassuntivo addirittura leggiamo: “Tutti gli economisti -pur nella diversità di approccio- mostrano un forte scetticismo per un progetto politico che ignora i più elementari fondamenti della scienza economica non essendo l’Europa un’area valutaria ottimale”.

9- Perché gli Stati Uniti d’Europa sono un progetto antistorico e fallimentare. 
Nel 1940 gli Stati indipendenti e sovrani al mondo erano 69. Nel 2015 erano 205. In 75 anni il numero è quasi triplicato. A chi dice che gli Stati Uniti d’Europa sono un progetto che asseconda la storia noi rispondiamo quindi numeri alla mano che è l’esatto contrario (CIA factbook). E non è neppure vero che l’unione faccia la forza. Chiunque sostenga che la creazione dell’Unione Monetaria risponda all’obiettivo di rafforzare l’intero blocco si scontra con la cruda realtà dei numeri. La quota di PIL mondiale dell’eurozona nel 1999 era pari al 22%. Oggi è il 17%. (FMI).

10- Perché non potremo mai creare gli Stati Uniti d’Europa. 
È un mantra ricorrente. Ossessivo e compulsivo. “La globalizzazione incombe. Impone sfide che i singoli Stati nazionali da soli non potrebbero affrontare. Abbiamo una moneta in comune? Bene andiamo avanti e facciamo gli Stati Uniti di Europa”. Ma è veramente una prospettiva concreta e razionale? È vero, i cinquanta Stati a stelle e strisce condividono il dollaro come gli Stati dell’eurozona condividono l’euro. Ma le somiglianze finiscono qui. Gli USA hanno in comune la stessa lingua. Quando il Presidente eletto parla lo comprendono in Florida e nel Wisconsin. Immaginatevi la scena di un ipotetico presidente degli Stati Uniti d’Europa che parla a reti unificate. Il suo discorso dovrebbe essere tradotto o sottotitolato in altre diciassette lingue. E che razza di campagna elettorale potremmo mai avere con queste barriere linguistiche? L’assenza delle quali -ricordiamolo- consente al disoccupato del poverissimo stato del Mississippi (il cui PIL è grosso modo quello dell’Ecuador) di poter agevolmente emigrare e trovare lavoro in Texas (il cui reddito è pari a quello dell’Australia). E voi pensate forse che un dentista disoccupato di Salonicco possa agevolmente esercitare la propria attività a Riga? E sempre negli Stati Uniti d’America esiste un bilancio federale che si fa carico di trasferimenti dalla California all’Alabama senza che a quest’ultima vengano imposte deliranti “riforme strutturali” in cambio di trasferimenti finanziari. Tutte cose che in Europa non solo non abbiamo ma neanche avremo mai; perché altrimenti le vedremmo già realizzate. E che – se comunque fatte – non agevolerebbero certamente lo sviluppo degli stati sussidiati come del resto dimostra l’esperienza plurisecolare del nostro Mezzogiorno. Ricapitolando: gli USA costituiscono un’area valutaria ottimale non perché condividono il dollaro ma perché hanno in comune una lingua, quindi la mobilità del fattore lavoro ed anche un bilancio federale unico. L’Unione Monetaria Europea manca di tutto questo.

11- Perché non è vero che uscire da un’Unione Monetaria sarebbe una catastrofe. 
È un classico, come l’agnello a Pasqua o il Panettone a Natale. “Se entrare nell’euro è stato un errore, uscirne sarebbe letale”. E con queste parole è morta lì. Ma è veramente così? Il Centro Studi Oxford Economics ha condotto nel 2015 un accurato studio evidenziando come dal 1945 ad oggi “oltre settanta Stati hanno sperimentato uscite da unioni monetarie”. In media una ogni anno. E non è neppure vero che tali disgregazioni monetarie siano state accompagnate da conseguenze economiche disastrose. Tutt’altro. Dal momento che lo studio rileva che in oltre “due casi su tre si è registrato un tasso di crescita fin dall’anno in cui un il Paese di turno ha lasciato l’Unione con un valore mediano pari al 2,7%“.

12- Perché non è vero che uscire dall’euro significhi uscire dall’UE. 
Vi sono Paesi quali, ad esempio, la Svezia, l’Ungheria, la Danimarca ecc. che pur non avendo l’euro fanno comunque parte dell’Unione Europea e guarda caso stanno meglio. Una rielaborazione del Centro Studi Unimpresa sui dati della Banca d’Italia mostra che nel periodo 2008-2015 i Paesi dell’eurozona hanno perso 3,238 milioni di posti di lavoro mentre quelli dell’Unione con propria moneta nello stesso periodo di tempo hanno creato 1,068 milioni di posti di lavoro. L’Eurozona è un’autentica macchina di distruzione del lavoro.

13- Perché comunque non è vero che uscire o non far parte dell’Unione Europea significhi non avere accesso al mercato continentale. 
Vi sono Paesi quali la Norvegia, l’Islanda, il Liechtenstein e la Svizzera che hanno stipulato da tempo accordi per la partecipazione al mercato interno che disciplina la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei lavoratori all’interno del cosiddetto Spazio Economico Europeo (di cui fanno parte questi Paesi assieme all’Unione Europea). Ora toccherà alla Gran Bretagna negoziare un accordo che preveda l’uscita dall’Unione Europea nel rispetto dell’esito del referendum del 23 giugno 2016. E sono già tantissimi gli osservatori che prevedono l’adozione del cosiddetto “modello Norvegia” da parte del Regno Unito.

14- Perché fuori dall’Unione Europea si sta comunque meglio. Mentre i Paesi senza euro ma dentro l’UE stanno meglio dei cugini che hanno scelto la moneta unica, così i Paesi che stanno fuori dall’Unione vivono molto meglio dei vicini condomini dell’UE. Il PIL pro-capite medio dell’EFTA (l’accordo di libero scambio fra Norvegia, Liechtenstein, Islanda e Svizzera) è infatti pari a $ 62.534, mentre quello dell’Unione Europea è pari a $ 37.800. In altre parole un cittadino dell’Unione mediamente guadagna il 60% del cugino che sta fuori. I dati sono riferiti al 2015 (Fonte CIA factbook). A riprova di quanto detto sia l’Islanda che la Svizzera hanno di recente ufficialmente abbandonato il progetto di adesione all’Unione Europea. Un tempo si facevano carte false per entrare nell’Unione, ora se puoi la eviti.

15- Perché non è vero che abbandonando l’euro torneremo ai vecchi milioni e miliardi. 
Sono in molti quelli che spesso – in cattiva o buona fede – fanno confusione fra tasso di conversione e tasso di cambio. L’Italia uscendo dell’euro potrà scegliere di convertire la propria nuova moneta con un tasso di conversione “convenzionale” rispetto all’euro. Cioè frutto di una deliberata scelta tecnica. Può essere 1 lira per ogni euro e quasi sicuramente così sarà per semplicità. Dopodiché il prezzo della lira sarà libero di fluttuare nel mercato valutario e quasi sicuramente svaluterà del 20%-30% circa rispetto alle altre monete. Questo è il cosiddetto tasso di cambio. Ma ciò non deve destare preoccupazione. Per caso qualcosa nella vostra vita è drammaticamente cambiato da quando l’euro ha pesantemente svalutato rispetto al dollaro? Due anni fa con un euro acquistavamo 1,35 dollari mentre oggi ne acquistiamo 1,10 circa. Ovviamente nulla è cambiato nella vita quotidiana di ciascuno di noi per il semplice motivo che non facciamo la spesa al supermercato di Cleveland.

16- Perché non è vero che svalutare non serve a niente. 
Dopo la conversione la nostra nuova moneta si svaluterà rispetto alle altre. Raggiungerà cioè il giusto prezzo di mercato di mercato rispetto alle altre valute. Tutti i più importanti economisti sono concordi nello stimare il riallineamento in misura pari ad una svalutazione del 20%-30%. In considerazione dei diversi livelli di prezzo relativo fra le varie economie. Sarà più conveniente per gli stranieri acquistare il Made in Italy, fare le vacanze nel Bel Paese o mettere su una fabbrica da noi. E sarà simmetricamente più costoso per gli italiani acquistare prodotti stranieri, fare le vacanze all’estero o delocalizzare la produzione. Ma per un Paese come l’Italia che vive di manifattura e turismo si aprirebbero enormi opportunità di crescita. Tutto ciò che purtroppo oggi è precluso da una moneta artificialmente troppo forte per la nostra economia.

17- Perché non è vero che se tornassimo alla lira saremmo travolti dall’iperinflazione o dall’inflazione. 
È questa una delle più ricorrenti mistificazioni. L’Italia sarebbe devastata da una terribile iperinflazione. Innanzitutto partiamo dalla sua definizione. Si parla convenzionalmente di iperinflazione quando il tasso di incremento dei prezzi supera l’1% al giorno o, alternativamente, il 50% in un mese. Il Centro Studi americano Cato Institute ha catalogato e studiato oltre 50 casi di iperinflazione avvenuti nella storia contemporanea fino ai giorni nostri. Tutti sono accomunati da uno o più fenomeni di straordinaria ed eccezionale gravità quali in particolare: (a) conflitti internazionali; (b) devastanti guerre civili interne; (c) instaurazione di regimi totalitari con conseguente adozione di scriteriate e non ragionate politiche economiche; (d) traumatica trasformazione dei modelli economici con successivo passaggio degli stessi da sistemi di mercato a regimi pianificati di tipo socialista o viceversa. Niente a che vedere con la situazione italiana. Quanto ai più tenui timori di inflazione anche qui occorre fare chiarezza. L’inflazione altro non è che l’aumento generalizzato dei prezzi al consumo dovuto ad surriscaldamento della domanda. Detto in soldoni la gente lavora, ha i soldi in tasca, acquista e quindi i prezzi crescono. Non è un caso che disoccupazione ed inflazione siano inversamente correlate. Più una è alta, più l’altra è bassa. Detta relazione è stata modellizzata dall’economista neozelandese Phillips. Svalutazione e inflazione sono invece fenomeni scorrelati. Ne volete una prova diretta e recente? Negli ultimi 7 mesi il prezzo del petrolio è aumentato di quasi il 50% sia in dollari che in euro. Una svalutazione mostruosa. Vi risulta forse che gli italiani stiano tutti andando a giro a cavallo? In sintesi: l’inflazione è direttamente correlata all’occupazione e non alla svalutazione.

18- Perché non è vero che senza l’euro i risparmi si dimezzerebbero. 
Se vuoi impaurire una persona devi colpirla negli affetti più cari. Il risparmio. Che come sapete può essere investito in molti modi: case, azioni, obbligazioni, oro ecc. E non è certo cambiando la moneta che perderebbero mercato. È solo grazie alla ripresa o alla stagnazione che il valore del risparmio sale o scende. Anzi è proprio con l’euro che in Italia i risparmiatori hanno visto andare in fumo i risparmi di una vita grazie al bailin (anzi Belin! come si dice a Genova). Ne sanno qualcosa gli obbligazionisti di Banca Etruria & C.

19- Perché non è vero che senza l’euro i mutui andrebbero alle stelle. 
Le strategie del terrorismo sulla moneta unica passano con grande spregiudicatezza dai risparmi ai mutui. Il mutuo viene convertito in lire e la sua rata andrebbe alle stelle. Come se con il passaggio dalla lira all’euro questa si fosse dimezzata. Facciamo chiarezza. Il tasso del mutuo non è indicizzato alla valuta. Il debitore deve solo temere la perdita del posto di lavoro, senza il quale non avrà fondi a sufficienza per rimborsare il mutuo. Situazione purtroppo tipica in cui si trovano oggi i molti disoccupati italiani. Circa tre milioni. Aumentati di oltre un milione rispetto al 2004 (Fonte Istat). Provate a pagare il mutuo da disoccupati, in euro o in lire la cosa non cambia.

20- Perché non è vero che è tutta colpa della spesa pubblica. 
La spesa pubblica (assieme ai consumi delle famiglie, agli investimenti delle imprese ed alle esportazioni nette) è una delle componenti del PIL. Non si vede come la sua semplice riduzione possa determinare un aumento del reddito. Certo potremmo meritoriamente utilizzare i risparmi di spesa per abbassare le tasse. Giusto. Ma avremmo comunque effettuato soltanto un’operazione di redistribuzione fiscale. E non si vede come ridurre lo stipendio al segretario comunale per incrementare lo stipendio di un creativo pubblicitario possa alimentare la domanda aggregata. La verità è che quando la crisi morde due sono i modi per uscirne: spendere di più e tassare di meno. Ecco noi in Italia dall’arrivo di Monti in poi stiamo facendo l’esatto opposto: spendere di meno e tassare di più. E non è neppure vero che l’Italia sarebbe malata di eccessiva spesa pubblica dal momento che l’incidenza media della spesa primaria (esclusi cioè gli interessi) sul PIL nel periodo 1999-2012 è stata pari al 40% circa contro una media del 41% dell’eurozona (FMI).

21- Perché non è vero che tutta colpa del debito pubblico. 
Chi dice tutto questo, sia chiaro, non siamo noi, ma addirittura il Vice Presidente della BCE Vitor Constancio in una famosa conferenza tenuta ad Atene il 23 maggio 2013 in cui spiega a chiare lettere come il debito pubblico non sia mai la causa bensì la conseguenza di squilibri di finanza privata. Come altrimenti spiegarsi la crisi di Paesi come Spagna, Portogallo o Irlanda che nel 2007 avevano livelli di debito pubblico rispetto al PIL rispettivamente pari al 36%, al 68% ed al 25% mentre il debito privato era cresciuto nel periodo 1999-2007 (dall’introduzione dell’euro fino allo scoppio della crisi) rispettivamente del 75%, del 49% e del 101%? Per non parlare del Giappone che con un debito del 240% del PIL registra una disoccupazione giovanile del 4%. Vero è piuttosto che il debito pubblico è la conseguenza della crisi, dal momento che alla fine tocca sempre al contribuente farsi carico degli oneri di salvataggio del sistema bancario.

22- Perché non è vero che il nostro debito pubblico dovremmo comunque ripagarlo in euro. 
Perché oltre il 96% del debito pubblico – stando alle statistiche del Tesoro – è emesso e disciplinato dalla legge italiana. E quindi in caso di uscita dalla moneta unica verrebbe convertito in valuta domestica ai sensi degli articoli 1277 e seguenti del Codice Civile (la cosiddetta Lex Monetae). Gli investitori esteri che hanno Titoli di Stato subiranno certo una perdita dovuta al rischio di cambio in caso di svalutazione della lira. Niente di drammatico. Come nulla è successo quando gli investitori stranieri che avevano in portafoglio titoli di stato britannici hanno visto svalutare la sterlina. E lo stesso dicasi per il gli investitori americani che avevano in portafoglio titoli di stato italiani o tedeschi a seguito della pesante svalutazione dell’euro rispetto al dollaro.

23- Perché non è affatto vero che faremo la fine dell’Argentina. Pur di impaurire e terrorizzare la gente, gli euroinomani sono soliti sproloquiare che faremo la fine dell’Argentina in caso di uscita dell’euro. Chi non ricorda il più grande default sovrano della storia? Ebbene quasi tutti trascurano che il debito pubblico argentino al momento del default era grosso modo pari al 45% del PIL. Come si spiega quindi la successiva rovinosa caduta? Semplicemente con il fatto che questo debito era stato contratto in dollari USA (cioè una valuta straniera). E si dà il caso che l’Argentina non possa stampare dollari alla bisogna per far fronte a questo debito. Illuminanti le parole dell’ex governatore della FED Greenspan che risponde ad un preoccupato giornalista della CNBC “Gli USA possono rimborsare qualsiasi debito in quanto possiamo stampare valuta per pagarli. La probabilità di default è ZERO”. Non è quindi la quantità di debito pubblico a determinare la maggiore o minore probabilità di default ma la possibilità o meno di coniare la moneta con cui il debito viene rimborsato. Ed è così che che l’Argentina indebitata in dollari ma “virtuosa nei conti” va in default ed il Giappone no.

24- Perché non è vero che neppure i Paesi del Sud Europa non vogliono uscire dall’euro. 
Si dice spesso che Paesi come Grecia, Irlanda e Spagna anche nei momenti più acuti della loro crisi mai hanno accarezzato l’idea di lasciare l’Unione Monetaria. Intanto si consideri che nel luglio 2015 gli elettori greci hanno con un referendum sonoramente bocciato i “piani di salvataggio” elaborati dalla Troika (BCE, Commissione UE e FMI). Inoltre si tenga conto del fatto che tutti questi Paesi hanno ricevuto corposi finanziamenti dagli altri cugini europei affinché rimborsassero con questi soldi i prestiti incautamente erogati loro dalle banche francesi e tedesche. Ad esempio nel luglio 2015 per impedire alla Grecia di uscire dall’Unione Monetaria è stato accordato un finanziamento per complessivi 86 miliardi di euro. Quasi il 50% del PIL. Insomma, se li sono comprati per farli rimanere nell’euro, ovviamente con i soldi nostri.

25- Perché non è vero che se la BCE si comportasse come la FED riusciremmo a superare la crisi rimanendo nell’euro. 
Sono in molti a sostenere che la BCE dovrebbe essere come la FED (la Banca Centrale USA) che fra i suoi obiettivi principali non ha soltanto il controllo della stabilità dei prezzi ma anche la crescita occupazionale. Ma in realtà tutto ciò che una Banca Centrale può fare in caso di crisi è abbassare i tassi di interesse e stampare nuova moneta per “annaffiare l’economia”. E questo è ciò che la Banca Centrale Europea sta già facendo da tempo. Come rileva una rielaborazione del Centro Studi Unimpresa, nel periodo 2013-2016 le banche italiane hanno raccolto un importo lordo di 859 miliardi. Quasi un terzo del totale messo a disposizione da Draghi per tutte le banche europee. Ma nello stesso periodo i crediti ad imprese e famiglie sono diminuiti di 15 miliardi. Keynes – del resto – era solito ricordare ai suoi alunni che “la politica monetaria è come una corda. Buona per tirare ma inutile per spingere“. Fuor di metafora, aumentando i tassi di interesse o drenando moneta dall’economia si raffredda il ciclo economico. Ma viceversa no. Se il cavallo non beve puoi dargli tutta l’acqua che vuoi. Sarà semplicemente sprecata.

26- Perché non è vero che l’UE protegge le nostre banche. Era il 19 dicembre 2013 e l’allora Presidente del Consiglio Letta così festeggiava “Finita ora la sessione del Consiglio Europeo. Approvata la Banking Union. Per tutelare i risparmiatori ed evitare nuove crisi. Buon passo verso una UE più unita”. Parole che alcuni obbligazionisti di Banca Etruria, Cariferrara, Carichieti e Banca Marche troveranno a dir poco incaute e beffarde 23 mesi più tardi. Ma l’applicazione della direttiva sul bailin ha avuto conseguenze devastanti anche sull’intero sistema bancario. Basti pensare che il comparto delle banche quotate a Piazza Affari ha registrato pesantissime perdite passando da un valore di borsa di 130 miliardi a Novembre 2015 ad uno di 59 miliardi a Giugno 2016. Completamente rovesciato e sovvertito il funzionamento del sistema bancario: dai risparmiatori che finanziano le banche con l’implicita garanzia della Banca Centrale a quest’ultima che le tiene in piedi grazie a copiosi finanziamenti garantiti dagli incolpevoli risparmiatori.

27- Perché non è vero che è tutto e soltanto colpa della cattiva gestione delle nostre banche. 
Al netto di deprecabili episodi di “mala gestio” sui quali sta indagando la magistratura, la crisi delle nostre banche non può essere confinata a semplici episodi di cronaca giudiziaria. L’economista Lars Christensen estensore del blog Market Monetarist rileva che se la crescita del PIL nominale non si fosse arrestata ed invertita in maniera così acuta a partire dal 2008 oggi non staremmo a parlare di una crisi bancaria italiana. Nessuna bolla speculativa prima del 2008 e neppure indizi che le banche italiane fossero state particolarmente irresponsabili. Anche la banca più prudente finirebbe nei guai non appena il PIL nominale scendesse di un quarto del suo valore. Cosa che di fatto è successa in Italia a partire dal 2008. Tutto spiegato da quella che Christensen chiama la “morte incrociata”; da una parte il PIL nominale italiano che nel periodo 2008-2015 crolla di un quarto del suo valore; dall’altro l’esplosione dei crediti deteriorati che in pratica triplicano passando dal 4% al 12% del PIL.

28- Perché non è vero che basterebbe mettere le banche in condizioni di recuperare più velocemente i crediti deteriorati per rilanciare l’economia. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze annuncia nel Maggio 2016 che grazie alle misure approvate per velocizzare le procedure esecutive le banche disporranno di maggiori spazi per l’erogazione del credito. Il punto è: rilanciare la domanda interna per rendere più semplice il rimborso del debito da parte delle imprese debitrici oppure “spezzare i mignolini subito subito a chi non paga” senza tante storie o lungaggini burocratiche? Il Governo italiano in ossequio ai diktat europei non ha avuto alcun dubbio in proposito. Ma è solo rilanciando l’economia che i debitori rimborsano i prestiti e le banche malate guariscono.

29- Perché non è vero che l’euro protegge la nostra industria. Chiunque pensasse che l’UE abbia protetto o rafforzato la nostra industria deve purtroppo misurarsi con la cruda realtà dei fatti. La quale dimostra che l’indice di produzione industriale è salito da un livello di circa 85 nel 1984 per arrivare ad un massimo di 120 nel 2008 e quindi ritornare intorno a 91 nel 2015. L’incapacità di reagire a shock esterni attraverso il riallineamento del cambio della moneta nei confronti dei nostri principali competitor europei ha cioè spostato le lancette dell’orologio di nuovo intorno agli anni 90. I dati sono frutto di una rielaborazione dei numeri OCSE effettuato dalla Federal Reserve di St. Louis.

30- Perché non è vero che gli altri sono efficienti, investono in ricerca e sviluppo e le nostre imprese no. 
Le argomentazioni di denigrazione non mancano anche riguardo alle nostre imprese. “Non hanno fatto abbastanza in termini di efficientamento e di ricerca e sviluppo” è il mantra ricorrente. “Lo avessero fatto oggi le nostre imprese sarebbero competitive ed esporterebbero di più”. Ricordiamoci che l’euro è per la Germania un marco svalutato che aiuta ad esportare, vendere, incassare e in queste situazioni fare innovazione è molto più semplice che non quando devi affrontare pesanti crisi di domanda interna oppure Equitalia ti notifica una cartella da pagare mentre la banca ti chiede di rientrare immediatamente nel fido. Ma pur fra queste mille difficoltà il sistema manifatturiero rimane comunque uno dei più competitivi al mondo. Non sappiamo ancora per quanto.

31- Perché non è vero che l’Europa migliora la qualità della vita dei consumatori. 
Un luogo comune ricorrente è: l’Europa ha in generale migliorato la qualità della vita di ogni cittadino tranne il fatto che non ha per ora dimostrato di avere concordato alcunché in merito alla realizzazione di opportune azioni di politica economica atte a rimuovere le cause della crisi. A parte che ci verrebbe da dire “hai detto scansati!”. Ma sinceramente non si capisce in quale misura gli sconcertanti regolamenti europei possano avere migliorato la qualità della vita dei consumatori o delle nostre imprese. Cogliamo fior da fiore alcuni regolamenti UE decisamente emblematici: c’è quello che disciplina la lunghezza minima delle banane (almeno 14 cm) o quello che impedisce la messa in vendita di fave con meno di tre piselli all’interno (sempre in tema!); quello che stabilisce che le vongole debbano avere un diametro non inferiore ai 25 mm per arrivare a quello che disciplina il raggio di curvatura del cetriolo; dai carciofi con sezione equatoriale non inferiore a 6 cm (altrimenti non commestibili?!?) alla cipolla con diametro che deve essere non inferiore ai 10 cm. L’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti in una recente intervista a Libero ha rivelato che se mettessimo in fila le oltre 32.000 pagine di Gazzetta Ufficiale Europea pubblicate nel 2015 arriveremmo a coprire la distanza record di oltre 151 km lineari.

32- Perché non è vero che se i prezzi calassero noi saremmo a posto. 
C’è pure chi magnifica la deflazione perché una diminuzione del livello dei prezzi aumenterebbe, secondo loro, il potere di acquisto dei salari. Niente di più stupido. In contesti deflattivi i consumatori rimandano le scelte di consumo (aspettando che i prezzi calino ancora). Le imprese vendono di meno, rimandano gli investimenti e licenziano. Andate a spiegare al lavoratore disoccupato quanto è bello avere i prezzi stabili o in calo se il suo reddito è zero. Ovviamente il circolo vizioso si autoalimenta in una terribile spirale. Meno salari, meno vendite, meno investimenti, meno produzione, ancora più licenziamenti ecc. Esattamente ciò che stiamo sperimentando ora. La nostra domanda è semplice: è meglio avere gente che lavora e consuma alimentando l’inflazione o il terribile circolo vizioso della deflazione?

33- Perché non è vero che un singolo stato nazionale non può avere tutte le necessarie leve per reagire ad uno shock economico esterno. 
È un altro luogo comune con cui si intende giustificare l’assoluta necessità di delegare potere a Bruxelles. Niente di più falso. Basta vedere come la Gran Bretagna ha reagito al crack Lehman Brothers nel 2008. Crollo dei mercati finanziari. Cui segue una consistente svalutazione della sterlina. Politica fiscale espansiva ed un deficit/PIL crescente. Con la Banca Centrale che inizia ad acquistare i titoli di stato emessi da Sua Maestà. Il bilancio della Banca d’Inghilterra che si gonfia grazie alla politica monetaria accomodante. Conseguente crescita del rapporto Debito/PIL. E il PIL? Inizia a crescere costantemente fin dal 2009. Ecco in proposito le parole rilasciate dall’ex premier islandese Gunnlaughsson in una recente intervista al The Telegraph: “Non avere l’euro è stato essenziale per riprenderci velocemente dalla crisi. Se avessimo avuto la moneta unica o comunque fossimo stati parte dell’Unione Europea oggi avremmo fatto la fine della Grecia”.

34- Perché non è vero che con una superpotenza come la Cina è impossibile competere per un singolo stato nazionale. 
Lo spettro della Cina viene costantemente evocato per giustificare la necessità di creare un Superstato Europeo. Ovviamente è una mistificazione sesquipedale. Basti vedere ciò che ha fatto la Corea del Sud. Oltre ad essere il Paese OCSE con il tasso di disoccupazione più basso del mondo (sotto al 4%) la Corea nel periodo 1999-2014 ha visto aumentare la propria quota di PIL mondiale dall‘1,5% all1,8% circa finendo per quasi raddoppiare il proprio reddito. Ed ha la Cina lì a due passi.

35- Perché non è vero che l’Italia da sola non ce la faceva. Ovviamente niente di più falso in quella retorica che dipinge un’Italia di operetta con la sua povera lira. Tutt’altro. L’Italia è dal 1976 che fa parte del G6 (i sei grandi). Che poi sarebbero diventati 7 con l’ingresso del Canada. Illuminanti le riflessioni di Giuseppe Guarino nel suo intervento “Il lungo e sorprendente miracolo italiano”: “Nel periodo 1945-1980 l’Italia è stato il primo – non il secondo il primo – Paese al Mondo per tasso medio di crescita annuo. Se si considera anche il decennio 1980-1990 l’Italia è seconda al mondo solo dietro la Germania”.

36- Perché non è vero che senza l’euro saremmo meno affidabili. 
Premessa doverosa: non metteteci nel gruppo di coloro che ritengono che il giudizio di affidabilità delle agenzie di rating sia Vangelo, anzi tutt’altro. Ciò non toglie che nel 1996 (ultimo anno in cui l’Italia ha operato con un cambio flessibile) l’Italia aveva un rating AA da parte di Standard and Poor’s. Un giudizio lusinghiero quasi di massima affidabilità. Mentre oggi il voto è BBB-. Qualora detto voto fosse abbassato anche di un solo piccolo scalino, il debito dell’Italia sarebbe catalogato come “spazzatura”.

37- Perché non è vero che basterebbe “più Europa” per risolvere i problemi. Dire “ci vuole più Europa” equivale a dire una fesseria. In uno stato unico le regioni ricche sussidiano quelle povere. E i tedeschi mai e poi mai si sognerebbero di fare trasferimenti in favore dei greci, dei portoghesi, degli italiani e degli spagnoli. E se anche lo volessero ci dovremmo opporre con forza noi a questa soluzione. Lo abbiamo visto col nostro Mezzogiorno. I sussidi creano malcostume e criminalità vanificando ogni sforzo imprenditoriale.

38- Perché non è vero che “sbattendo i pugni sul tavolo” risolveremmo i nostri problemi. 
A parte il fatto che a forza di sbattere questi pugni, il tavolo dovrebbe essersi ormai rotto. Ma come diceva Sun Tzu nell’arte della guerra ogni battaglia è vinta prima di essere combattuta. Il Centro Studi Asimmetrie ha accuratamente mappato l’esercito tedesco attualmente stanziato nelle file dell’eurocrazia di Bruxelles pronto a fare gli interessi della Germania e non il nostro. Dodici potentissimi funzionari teutonici sconosciuti al grande pubblico, ma che hanno un potere decisionale enorme. Sono a capo delle segreterie più rilevanti: dalla concorrenza alla commissione UE; dal Consiglio UE all’Eurogruppo; dall’Unione bancaria agli affari economici. Tutti i posti chiave sono occupati da tedeschi o da amici di tedeschi.

39- Perché non è vero che i problemi sono solo italiani e non europei. 
L’argomentazione in base alla quale l’Italia soffra di problemi interni specifici rispetto all’Europa è una nuova fesseria che non trova riscontro nei numeri. Osservando l’elenco dei Paesi OCSE riportati in ordine decrescente per tasso di disoccupazione si scoprono cose illuminati. I primi dieci Paesi sono quelli che hanno la disoccupazione più alta. Per intendersi a doppia cifra. Ebbene nove di questi Paesi su dieci con disoccupazione superiore al 10% hanno una cosa in comune. La moneta. Abbiamo Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna (i famigerati PIIGS). Non ci facciamo mancare pure Slovenia e Slovacchia. E per finire i nostri cugini d’oltralpe – la Francia – assieme ai vichinghi della Finlandia.

40- Perché non è vero che l’UE è una barriera contro la povertà. 
L’Europa doveva essere un progetto di libertà e prosperità. I numeri purtroppo dicono che i poveri in Italia sono aumentati in maniera esponenziale. Nel 2005 gli italiani in situazione di povertà assoluta erano 1,9 milioni. Nel 2015 quasi 4,6 milioni (rilevazione dati ISTAT). La situazione della Grecia è per certi versi ancor più drammatica ed agghiacciante. La banca di Grecia e la rivista scientifica The Lancet riportano in proposito numeri inequivocabili. La mortalità infantile è aumentata di quasi il 50% passando dal 2,65% del 2008 al 3,75% nel 2014 mentre oltre 800.000 persone si stima che non abbiano più accesso alle cure mediche di base.

41- Perché non vero che l’austerità paga. 
In questi anni la Grecia è stata oggetto dei più feroci ed insulsi esperimenti di politica economica mai concepibili. Il tutto è stato pure giustificato con affermazioni risibili del tipo: “i greci hanno truccato i conti“; “hanno sperperato denaro in apparati pubblici improduttivi” ovvero “sono pigri e lazzaroni“. C’è del vero nel fatto che i conti pubblici siano stati oggetto di manipolazione e che il tessuto manifatturiero ellenico sia di fatto inesistente. Ma ciò rende ancor più deprecabile il sadismo delle torture cui il popolo e l’economia della Grecia sono stati sottoposti in questi ultimi anni dalla Troika; peraltro con risultati sconcertanti. La Commissione Europea -ad esempio- riportava nel luglio 2015 che la spesa primaria annua (esclusi cioè gli interessi sul debito) sia stata tagliata da 110 a 81 miliardi nel periodo 2008-2014. Una sforbiciata del 26% circa. La disoccupazione è nel frattempo salita dal 7,8% al 26,5%. Cioè più che triplicata. Giusto per darvi un’idea dell’ordine di grandezza di questa follia, è come se l’Italia fosse arrivata a tagliare la spesa pubblica primaria annua di quasi 200 miliardi. In pratica cancellando tutto il Servizio Sanitario Nazionale, mandando a casa medici, infermieri ed impiegati, chiudendo tutti gli ospedali e non garantendo più alcun farmaco ai nostri assistiti, dovremmo ancora trovare dagli 80 ai 90 miliardi per raggiungere l’incredibile cifra di 200 miliardi. Viceversa l’esperienza di Paesi quali USA, Giappone e Regno Unito dimostra che arrivare a livelli di deficit di bilancio fra l’8% ed il 10% nei momenti di crisi -grazie anche agli investimenti pubblici ed alle minori tasse – aiuta l’economia a ripartire.

42- Perché non ci dobbiamo fidare delle previsioni di organismi quali il Fondo Monetario Internazionale. 
Quando gli euroinomani citano a supporto delle proprie narrazioni le previsioni del FMI (non i dati consuntivi come facciamo noi) iniziate pure a ridere. Non ne hanno mai azzeccata una. Nel 2010 il Fondo Monetario prevedeva che il PIL 2015 della Grecia sarebbe stato 260 miliardi di euro. Nel 2011 invece scrisse che sarebbe stato intorno a 230 miliardi di euro; nel 2012 prevedeva infine che sarebbe stato intorno a 220 miliardi di euro per poi “arrotondare” questa cifra a 195 miliardi. Il PIL greco nel 2015 si è attestato comunque intorno ai 180 miliardi cioè oltre il 30% in meno rispetto a quanto prevedeva cinque anni prima (fonte The Telegraph).

43- Perché non è vero che il problema sono le nostre pensioni troppo alte. 
Altra balla. Il sistema pensionistico italiano sarebbe fuori controllo. Ma qual è effettivamente lo stato del nostro sistema pensionistico? Esiste una grandezza per determinarne la sostenibilità. È il cosiddetto debito implicito. Ovvero il debito che lo Stato deve pagare per erogare le future prestazioni previdenziali, sanitarie ed assistenziali secondo quanto previsto dalla legislazione vigente, nell’ipotesi che la legislazione sulla previdenza sociale e sulla sanità pubblica resti invariata in futuro. Ebbene uno studio dell’Università di Friburgo in Germania già nel 2011 rilevava come il nostro sistema pensionistico fosse il più sostenibile in Europa.

44- Perché l’Unione Europea non è democratica. 
L’Unione Europea in generale (e quella monetaria in particolare) tutto sono fuorché democratiche. I cittadini di ben undici Stati, non si sono mai potuti esprimere sull’adesione o meno del proprio Paese all’Europa. Dieci di questi sono anche Paesi che hanno adottato la moneta comune. La cosa ancora più inquietante è che tra questi undici ci sono tutti e tre “soci fondatori” dell’Europa, cioè Francia, Germania e Italia. Ma quello che più fa paura è che la Germania, architrave dell’Europa, il Paese che detta la politica economica dell’Unione e che si è assunta il ruolo di contro-potere rispetto alla Banca Centrale Europea, in 44 anni non ha mai permesso ai propri cittadini di votare su nessuna questione che riguardasse temi europei. L’Italia lo ha fatto una sola volta e la Francia tre, una delle quali (adozione del trattato costituzionale) finita con la vittoria dei no.

45- Perché non è vero che uscendo dall’Unione Europea perderemmo i finanziamenti UE. 
È vero il contrario. Lasciando l’UE risparmieremmo un sacco di soldi. Per l’esattezza 25 milioni al giorno. Questo è quanto ci costa l’UE. Dal 2001 al 2014 l’Italia ha dato all’UE 70,9 miliardi in più di quanti ne abbia ricevuti. E questo -sia chiaro- nell’ipotesi che tutti i soldi ricevuti fossero effettivamente spesi. La fonte è la Ragioneria Generale dello Stato. A questo si aggiungano i circa 60 miliardi che nel 2014 avevamo prestato in varie forme agli altri Stati dell’Unione (Grecia, Irlanda, Spagna) affinché restituissero i crediti che le banche francesi e tedesche avevano loro incautamente prestato. Crediti oggi in massima parte inesigibili e che avremmo invece potuto prestare alle nostre imprese. Ergo in 14 anni sono stati spesi 130,9 miliardi. Cioè 25 milioni al giorno. Se uscissimo di sabato dall’UE per rientrare il lunedì dopo risparmieremmo più di quanto Renzi sostiene si possa tagliare con la sua revisione costituzionale del Senato.

46- Perché non è vero che non sappiamo spendere i fondi che l’Unione europea ci assegna. 
Le regole in materia sono talmente demenziali da far pensare che siano state disegnate pur di non far spendere questi soldi. La normativa europea spesso prevede che i fondi assegnati per determinati investimenti (soldi che –ricordiamolo!- sono nostri in quanto l’Italia è un “contribuente netto”) possano essere spesi solo e soltanto se gli Enti destinatari cofinanziano la spesa con altri fondi. E le restrittive politiche di bilancio spesso sono di tale durezza che gli enti possono benissimo non avere la disponibilità dei soldi per cofinanziare l’operazione. Ma la cosa ancor più incredibile è che talvolta anche riuscendo a racimolare i soldi per miracolo, gli investimenti devono essere comunque rimandati o accantonati pur di rispettare il demenziale vincolo di stabilità interna che obbliga tutta la Pubblica Amministrazione a razionare ogni e qualsiasi spesa pur di rispettare il “sacro” limite del 3% del rapporto deficit/PIL.

47- Perché non è vero che l’Unione Europea ha portato la pace. L’Unione Europea nella sua attuale fisionomia è in vita soltanto a partire dal 1993. Prima di lei c’erano state la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) e poi la CEE. Organizzazioni di Paesi indipendenti e sovrani e non un superstato; soggetti capaci di assicurare decenni di prosperità e pace. È vero invece che ogni sforzo di costringere all’unità popoli diversi è finito tragicamente. Si pensi ai casi della Yugoslavia e dell’Unione Sovietica. In Europa a partire da Maastricht è cominciato il disastro, o come dice Ida Magli, la “dittatura europea”.

48- Perché non è vero che è impossibile uscire dalla UE
Che l’uscita dalla UE da parte di uno Stato membro sia sempre possibile, lo ha dimostrato, di recente, la Brexit. Ma come funzionano le cose dal punto di vista delle procedure definite dal Trattato di Lisbona? L’art. 50 ha introdotto una particolare procedura “liberatoria”. Al primo paragrafo viene riconosciuto che «ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione». Lo Stato, tuttavia, ha l’onere di notificare tale intenzione al Consiglio Europeo. Alla luce degli orientamenti formulati da quest’ultimo, «l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione». L’accordo è, infine, concluso a nome dell’Unione, dal Consiglio «che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo». Secondo l’art. 50, pertanto, uno Stato che intenda uscire dall’Unione dovrebbe negoziare un accordo con quest’ultima attraverso una procedura che, per giungere ad un esito positivo, richiede non soltanto il consenso del Consiglio Europeo, ma anche l’approvazione del Parlamento Europeo. Vale la pena, però, notare che il paragrafo 3 prevede che «i trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine». Il recesso non richiede, pertanto, la conclusione dell’accordo previsto dai primi due paragrafi dell’art. 50: nel caso di fallimento dei negoziati, infatti, i trattati cessano comunque di avere efficacia per lo Stato membro che intenda “uscire” dall’Europa, con il solo limite temporale di due anni dalla notifica dell’intenzione di recedere. L’accordo bilaterale, pertanto, non esclude la possibilità di un recesso unilaterale, ma, al contrario, la presuppone. Nei prossimi mesi vedremo quello che succederà in Gran Bretagna.

49- E se uno Stato volesse uscire solo dall’eurozona? 
“Se uno Stato non volesse uscire dalla UE ma soltanto rinunciare all’euro si potrebbe fare?” Vi sono, nell’Unione, Stati che non hanno adottato l’euro, come è noto. Logica vorrebbe, pertanto, che sia certamente possibile restare in Europa uscendo soltanto dalla moneta unica. Eppure la cosa sembra più complicata di quanto si penserebbe. Mentre, infatti, il Trattato di Lisbona disciplina, all’art. 50, la procedura di uscita dall’Unione, nessuna disposizione fa riferimento alcuno al recesso dall’Unione Monetaria (così come, del resto, nulla diceva il Trattato di Maastricht a questo proposito). Sembrerebbe quasi che, una volta accettata la moneta, non si possa più neppure tornare indietro. Impossibile uscirne, dunque? Secondo alcuni costituzionalisti l’uscita unilaterale per decreto è assolutamente legittima. Secondo altri, invece, proprio in forza del fatto che il sistema europeo è stato disegnato sia con Stati dentro che fuori dall’euro, l’uscita dovrebbe essere consentita, quantomeno con un negoziato analogo a quello previsto dall’art. 50.

50- Perché non è vero che non è possibile un referendum su Ue e euro. 
Se ne è molto discusso, ma poca chiarezza è stata fatto fino ad oggi. Anzitutto, occorre precisare che dall’Euro l’Italia non potrebbe uscire tramite un referendum abrogativo. Non soltanto, infatti, l’art. 75 della Costituzione vieta esplicitamente che possa svolgersi un simile referendum sulle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali ma, secondo una consolidata interpretazione della Consulta, non sarebbe mai possibile interferire, attraverso referendum, con l’ambito di applicazione delle norme comunitarie e con gli obblighi assunti dall’Italia nei confronti dell’Unione Europea. Nel nostro ordinamento, inoltre, al momento (le cose potrebbero cambiare qualora venisse approvata la revisione costituzionale) non è possibile proporre lo svolgimento di referendum consultivi, al di là delle espresse previsioni della costituzione (articolo 132, ai sensi del quale tali consultazioni riguardano unicamente modifiche ai territori delle Regioni). Abbiamo, però, un precedente, che potrebbe valere anche per il caso dell’Euro. Nel 1989, con legge costituzionale (3 aprile 1989, n. 2), fu indetto un “referendum di indirizzo” (ossia consultivo) sul conferimento di un mandato al Parlamento Europeo per redigere un progetto di Costituzione europea. Fu necessaria, allora, una legge di iniziativa popolare promossa dal Movimento federalista europeo – successivamente sostituita dalla proposta di legge costituzionale presentata dal Partito Comunista Italiano – la cui approvazione richiese la doppia lettura in entrambi i rami del Parlamento, secondo l’iter necessario per le leggi costituzionali. La Costituzione non prevede, nella sua lettera, un’ipotesi simile, ma nell’89 i partiti furono concordi nell’approvare questo strumento atipico (il “referendum di indirizzo”) mediante una legge costituzionale ad hoc, formalmente derogando da quanto previsto dall’art. 75 della Costituzione, per legittimare in quel caso con il ricorso al voto popolare l’accelerazione del processo di integrazione europea. Limitandosi all’indizione di quella singola consultazione peraltro la legge costituzionale non ha introdotto nel nostro ordinamento il referendum di indirizzo, il quale è per così dire, una volta svoltesi le operazioni di voto, uscito dallo scenario costituzionale. Ma nulla esclude che possa ritornare sulla scena. Con legge costituzionale (e dunque con doppia votazione in entrambe le Camere, ed approvazione a maggioranza di 2/3 o, quantomeno, assoluta), sarebbe dunque possibile istituire un referendum di indirizzo ad hoc per la moneta unica. Si potrebbe obiettare che non ci sono oggi le condizioni politiche per realizzare quanto accadde nel 1989 data la delicatezza del tema. Ciò non toglie che, in linea di principio, la possibilità esista. Ecco perché la raccolta di firme iniziata da Libero, oltre a stimolare il dibattito tra i cittadini, è del tutto degna di considerazione.
Fonte: Scenari Economici

Nessun commento: