di Livio Pepino, da il manifesto, 4 maggio 2014
Silvio Berlusconi non è certo il primo uomo politico del Belpaese ad essere stato condannato per gravi reati e neppure il primo a scontare la pena nella forma dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Ricordo a memoria: Mario Tanassi, Pietro Longo, Franco Nicolazzi, Arnaldo Forlani, Francesco De Lorenzo, Cesare Previti e via elencando. Ci fu addirittura un periodo – a cavallo del nuovo millennio – in cui i Tribunali di sorveglianza di Milano e Torino e la Corte di cassazione arrivarono a ridisegnare i contenuti e i limiti della misura dell’affidamento in prova per i “colletti bianchi”, riscrivendo un istituto originariamente pensato per tutt’altra categoria di condannati. E, sul punto, decine furono i commenti e le precisazioni sulle riviste giuridiche. Ma mai era accaduto che l’esecuzione di una pena si trasformasse in un assist per il rilancio politico del condannato e in una dimostrazione scolastica del ripristino di una giustizia tanto forte (e talora spietata) con i deboli quanto debole con i forti.
Intendiamoci. Non amo il carcere per nessuno (e negli oltre quarant’anni in cui ho fatto il magistrato non ho mai gioito per un arresto anche quando, doverosamente, da me disposto). Di più, trovo civile che le pene medio-brevi (e i residui di pena di tale entità) siano scontate con modalità diverse dal carcere. Per tutti. E, a maggior ragione, per chi è segnato dagli anni. Dunque non auspicavo e non auspico il carcere neppure per l’ex cavaliere di Arcore. E ciò, pur non dimenticando che, nel caso specifico, la condanna da scontare riguarda non un fatto contingente e limitato ma una evasione fiscale di ben 13,9 milioni di euro (6,6 nel 2001, 4,9 nel 2002, 2,4 nel 2003) programmata ed organizzata negli anni, effettuata coinvolgendo quasi tutti i più stretti collaboratori. Poco meno di 14 milioni di euro pari – io credo – al danno provocato alle parti offese dall’insieme di quasi tutti gli attuali detenuti per furto nelle prigioni italiane…
Nonostante questo non auspicavo il carcere. Ma ridurre la misura alternativa dell’affidamento in prova a una attività volontaria «di animazione» (come scritto nell’ordinanza di concessione) di quattro ore settimanali in favore degli ospiti di un istituto per anziani è a dir poco offensivo, oltre che per i destinatari dell’animazione sottoposti (essi sì) a una prova di pesantezza inaudita, per la collettività vittima dell’evasione milionaria, per chi crede nella legalità, la pratica e la insegna ai propri figli o ai propri studenti, per chi è dimenticato in carcere in esecuzione di condanne per fatti assai più modesti. Ed è anche lontano le mille miglia da una interpretazione razionale del sistema delle pene e delle misure alternative.
Non si trattava di chiedere al condannato eccellente ammissioni esplicite di responsabilità né dichiarazioni di pentimento o pubbliche scuse (che pure non sarebbero mancate da parte di un cittadino rispettoso delle regole). Più semplicemente si trattava di tradurre in prescrizioni concrete e coerenti l’affermazione – ribadita in sentenze del 1987, 1988 e 1998 della Corte costituzionale e della Corte di cassazione – che le misure alternative alla detenzione (e, tra esse, l’affidamento in prova) «hanno la natura di vere e proprie sanzioni penali» e richiedono, dunque, prescrizioni caratterizzate da un significativo tasso di afflittività tale da costituire controspinta a ulteriori condotte delittuose (unico intervento rieducativo possibile nei confronti di persone normoinserite nella società).
Né sarebbe stato difficile individuarle, quelle prescrizioni: basti pensare a prestazioni quotidiane e a titolo gratuito dirette a contribuire, con un lavoro negli uffici competenti, al recupero di imposte evase, di spese di giustizia o quant’altro… Nulla, invece, di tutto questo né altre significative prescrizioni (al di fuori di quelle di routine) sino al punto di consentire al condannato eccellente – sostanzialmente senza limiti, salvo interventi eccezionali e tardivi – movimenti ed esternazioni inibiti a tutti gli altri affidati in prova, costretti a chiedere l’autorizzazione finanche per recarsi a una visita medica fuori dal comune di residenza e talora addirittura a seguire itinerari prestabiliti per recarsi al lavoro.
Devo dire che in tutta la mia (lunga) attività giudiziaria non avevo mai visto una cosa del genere. È evidente – anche da molti altri segnali – che si sta chiudendo, per la giustizia, una stagione. E si chiude nel peggiore dei modi, all’insegna del ripristino di due codici diversi: uno per i briganti e uno per i galantuomini (o impropriamente ritenuti tali).
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