Qualche settimana fa nella rubrica “Si può fare”, ospitata sul periodico L’Espresso, l’ex direttore generale di Confindustria, Innocenzo Cipolletta, sosteneva che se c’è un Paese che in questi anni ha svolto “i compiti a casa”, questo è senz’altro l’Italia. Per sostenere questa posizione si chiedeva, in modo retorico, fra le altre cose, in quale altro Paese sia stato possibile che una grande impresa industriale (la Fiat) rescindesse unilateralmente dal contratto nazionale di categoria e se ne costruisse uno su misura (che le lascia ampia possibilità nell’utilizzo dei lavoratori).
Come se non bastasse, qualche anno fa, la stessa Ocse, in uno studio, affermava che per le imprese italiane (in particolare quelle di minori dimensioni) licenziare non è poi così complicato (e centinaia di migliaia di insegnanti, operai e impiegati hanno avuto una prova empirica sulla propria pelle di questa dotta considerazione).
Come se non bastasse, qualche anno fa, la stessa Ocse, in uno studio, affermava che per le imprese italiane (in particolare quelle di minori dimensioni) licenziare non è poi così complicato (e centinaia di migliaia di insegnanti, operai e impiegati hanno avuto una prova empirica sulla propria pelle di questa dotta considerazione).
Contratti precari e alta disoccupazione, ma ai padroni non basta
Ciononostante è ormai parte della vulgata comune che se in Italia abbiamo un alto tasso di disoccupazione (oltre il 12%, il 40% tra i giovani) e un basso tasso di occupazione (il che significa che oltre ai tre milioni di disoccupati ve ne sono forse altrettanti che ormai hanno perso ogni speranza di trovare un impiego) la colpa è di norme che rendono poco flessibile il “mercato del lavoro”.
E questo nonostante da almeno un ventennio siano stati introdotti, sia nei contratti nazionali di lavoro sia a livello normativo generale, disposizioni che nei fatti hanno reso impossibile per i lavoratori un impiego a tempo indeterminato. Dai contratti di formazione lavoro della fine degli anni Ottanta, fino alla miriade di forme di lavoro precario, intere generazioni di proletari vivono nell’incertezza che il loro lavoro, precario e mal retribuito, possa essere loro negato da un giorno all’altro, letteralmente.
Eppure, come dicevamo, tutto ciò non basta. Negli ultimi tempi siamo arrivati al punto che la Cgil ha firmato, per regolamentare (o meglio de-regolamentare) il lavoro, in occasione dell’Expo 2015, un accordo in cui, per la prima volta, si sancisce che il lavoro può essere gratuito; nel congresso Cgil della Lombardia un alto dirigente sindacale ha affermato che uno stagista che in occasione dell’Expo guadagnerà circa 500 euro il mese, non ha di che lamentarsi.
E’ sembrato ovvio dunque che il Governo Renzi, in linea con i suoi predecessori, come primo atto si cimentasse nell’ennesima riforma del lavoro, con l’obiettivo di smantellare definitivamente le ormai poche e simboliche garanzie a tutela di operai e impiegati.
Il premier e il suo ministro del lavoro Poletti, ex presidente della Lega delle cooperative che sono ancora definite, superando ogni pudore e senso del ridicolo, “rosse”, appena insediati a Palazzo Chigi hanno affermato che la riforma Fornero – che tra le altre cose aveva avuto il merito (per i padroni) di cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori – aveva imposto troppi limiti e paletti alla libera iniziativa imprenditoriale.
Jobs act: ennesimo colpo ai diritti dei lavoratori
Quando il tanto citato Jobs Act, che aveva suscitato enormi attese in tutti i commentatori borghesi e che aveva ottenuto l’endorsment da parte del leader della Fiom Landini, è stato infine presentato sotto forma di decreto da parte dell’esecutivo, si è visto quale ulteriore attacco rappresenti per i lavoratori del Paese.
I contratti a termine avranno la durata di 36 mesi e potranno essere fatti senza causale, cioè i padroni non dovranno nemmeno fingere di dover assumere precari per esigenze della loro impresa. Le imprese non avranno nessun obbligo di stabilizzare una percentuale di precari (il ministro Poletti ha affermato che non si possono prevedere obblighi positivi per le imprese, non sia mai…nel frattempo ai lavoratori si può imporre di lavorare fino a 67 anni e oltre prima di poter avere una pensione da fame).
Si creeranno lavori coperti da voucher, per creare anche in Italia i mini job, che tanta fortuna hanno fatto per le multinazionali in Germania (dove milioni di lavoratori ricevono salari da 400 euro), la cassa integrazione in deroga sarà sostituita dall’Aspi (sussidi disoccupazione), recidendo anche quel debole legame tra operaio e luogo di lavoro che rimaneva con l’utilizzo della cassa.
Si lascia intendere che i disoccupati che vorranno mantenere quel poco di servizi sociali che lo Stato garantisce, dovranno fare una sorta di servizio civile (sempre l’ineffabile Poletti ha parlato di servire pranzi alla Caritas!). Passa l’idea che la disoccupazione sia una sorta di crimine sociale per il quale bisogna espiare una pena. Sembra di essere tornati agli albori del capitalismo manifatturiero nell’Inghilterra del XVI e XVII secolo dove disoccupati e vagabondi erano arrestati e in alcuni casi condannati a morte. Non siamo ancora a questo punto ma non ci stupiremmo più di tanto se qualche teorico del rinnovamento prima o poi ci pensasse.
Va da sé che questa sorta di servizio civile fornirebbe manodopera gratis, o quasi, al business del terzo settore, altro che carità cristiana!
I contratti a termine avranno la durata di 36 mesi e potranno essere fatti senza causale, cioè i padroni non dovranno nemmeno fingere di dover assumere precari per esigenze della loro impresa. Le imprese non avranno nessun obbligo di stabilizzare una percentuale di precari (il ministro Poletti ha affermato che non si possono prevedere obblighi positivi per le imprese, non sia mai…nel frattempo ai lavoratori si può imporre di lavorare fino a 67 anni e oltre prima di poter avere una pensione da fame).
Si creeranno lavori coperti da voucher, per creare anche in Italia i mini job, che tanta fortuna hanno fatto per le multinazionali in Germania (dove milioni di lavoratori ricevono salari da 400 euro), la cassa integrazione in deroga sarà sostituita dall’Aspi (sussidi disoccupazione), recidendo anche quel debole legame tra operaio e luogo di lavoro che rimaneva con l’utilizzo della cassa.
Si lascia intendere che i disoccupati che vorranno mantenere quel poco di servizi sociali che lo Stato garantisce, dovranno fare una sorta di servizio civile (sempre l’ineffabile Poletti ha parlato di servire pranzi alla Caritas!). Passa l’idea che la disoccupazione sia una sorta di crimine sociale per il quale bisogna espiare una pena. Sembra di essere tornati agli albori del capitalismo manifatturiero nell’Inghilterra del XVI e XVII secolo dove disoccupati e vagabondi erano arrestati e in alcuni casi condannati a morte. Non siamo ancora a questo punto ma non ci stupiremmo più di tanto se qualche teorico del rinnovamento prima o poi ci pensasse.
Va da sé che questa sorta di servizio civile fornirebbe manodopera gratis, o quasi, al business del terzo settore, altro che carità cristiana!
Tra entusiasmo e opposizione di facciata
Sparisce la proposta di lavoro a tutele crescenti, in virtù della quale, dopo un lungo periodo alla mercé dei padroni, i nuovi assunti acquisterebbero diritti come i lavoratori a tempo indeterminato. Come a Goebels, a padroni e ministri corre la mano alla pistola quando sentono parlare di stabilizzazione del lavoro (non che l’idea formulata da Boeri fosse particolarmente progressista…).
Il coro di apprezzamento per il Jobs Act è, come detto, sostanzialmente unanime. Chi nel Pd si oppone lo fa solo perché il nuovo corso “renziano” ha nei fatti spazzato via la vecchia nomenclatura del partito. Chi alza la voce lo fa solo per logiche di potere e niente di più.
Rifondazione e Sel sono impegnate nella campagna elettorale europea a sostegno della lista Tsipras, consapevoli che non raggiungere il quorum per avere eletti a Bruxelles segnerà forse la loro definitiva uscita di scena: quindi delle quisquilie del lavoro a loro poca importa.
Cgil e Fiom si lamentano nei congressi e sulle pagine dei giornali ma non fanno nulla di concreto per opporsi al Governo. Landini, che ora accenna qualche critica a Renzi perché capisce che la riforma del lavoro è troppo anche per lui, gioca di sponda col premier per mettere in difficoltà la Camusso e forse scalzarla dalla segreteria, se non subito almeno in tempi non troppo lontani.
Chi si stupisce nel vedere il leader più di destra nella storia recente del Pd flirtare col leader più a sinistra della Cgil, non capisce che a entrambi non importa nulla dei lavoratori e degli sfruttati, e che Landini, come Renzi, si preoccupa solo delle proprie ambizioni personali e di come la parte di burocrazia sindacale che dirige possa scalzare dai vertici quella legata ai vecchi leder dei Democratici.
In presenza di un sostanziale coro unanime favorevole al Governo, non stupisce che, secondo molti sondaggi, questo goda della fiducia anche di quei settori della popolazione che, fuor di retorica e propaganda, saranno duramente colpiti dalle decisioni dell’esecutivo.
La disperazione di fronte a una crisi che pare senza fine, il voler credere in soluzioni rapide e veloci, una demagogica propaganda anti-casta (che è solo fumo e niente sostanza come le riforme di Senato e Province dimostrano) fanno sì che il sostegno al Governo sia molto alto.
Il coro di apprezzamento per il Jobs Act è, come detto, sostanzialmente unanime. Chi nel Pd si oppone lo fa solo perché il nuovo corso “renziano” ha nei fatti spazzato via la vecchia nomenclatura del partito. Chi alza la voce lo fa solo per logiche di potere e niente di più.
Rifondazione e Sel sono impegnate nella campagna elettorale europea a sostegno della lista Tsipras, consapevoli che non raggiungere il quorum per avere eletti a Bruxelles segnerà forse la loro definitiva uscita di scena: quindi delle quisquilie del lavoro a loro poca importa.
Cgil e Fiom si lamentano nei congressi e sulle pagine dei giornali ma non fanno nulla di concreto per opporsi al Governo. Landini, che ora accenna qualche critica a Renzi perché capisce che la riforma del lavoro è troppo anche per lui, gioca di sponda col premier per mettere in difficoltà la Camusso e forse scalzarla dalla segreteria, se non subito almeno in tempi non troppo lontani.
Chi si stupisce nel vedere il leader più di destra nella storia recente del Pd flirtare col leader più a sinistra della Cgil, non capisce che a entrambi non importa nulla dei lavoratori e degli sfruttati, e che Landini, come Renzi, si preoccupa solo delle proprie ambizioni personali e di come la parte di burocrazia sindacale che dirige possa scalzare dai vertici quella legata ai vecchi leder dei Democratici.
In presenza di un sostanziale coro unanime favorevole al Governo, non stupisce che, secondo molti sondaggi, questo goda della fiducia anche di quei settori della popolazione che, fuor di retorica e propaganda, saranno duramente colpiti dalle decisioni dell’esecutivo.
La disperazione di fronte a una crisi che pare senza fine, il voler credere in soluzioni rapide e veloci, una demagogica propaganda anti-casta (che è solo fumo e niente sostanza come le riforme di Senato e Province dimostrano) fanno sì che il sostegno al Governo sia molto alto.
Il clima sociale si appresta a cambiare
Ma come anche i migliori sogni finiscono col risveglio, così la moderna demagogia del Premier farà, a breve, i conti con la realtà. Da più parti si ammette che il 2014 sarà ancora un anno molto duro, che non vedrà nessun miglioramento per i lavoratori, né in termini di occupazione né per ciò che riguarda il potere di acquisto dei salari.
I rischi sempre più concreti di deflazione (riduzione generalizzata di prezzi, risparmi, proprietà ecc), l’avvicinarsi del giorno in cui il fiscal compact andrà a regime, col relativo taglio di 50 miliardi di euro l’anno per i prossimi venti anni nel campo del welfare pubblico, c’inducono a pensare che la, relativa, pace sociale di cui padroni e governi italiani hanno potuto beneficiare negli ultimi anni sta per finire.
Le avanguardie sindacali e di lotta presenti in Italia devono essere consapevoli del compito che spetta loro: organizzare e coordinare tra loro i lavoratori per far sì che siano pronti quando il tempo della resa dei conti fra padroni e proletari arriverà, perché questo momento è sempre più vicino.
I rischi sempre più concreti di deflazione (riduzione generalizzata di prezzi, risparmi, proprietà ecc), l’avvicinarsi del giorno in cui il fiscal compact andrà a regime, col relativo taglio di 50 miliardi di euro l’anno per i prossimi venti anni nel campo del welfare pubblico, c’inducono a pensare che la, relativa, pace sociale di cui padroni e governi italiani hanno potuto beneficiare negli ultimi anni sta per finire.
Le avanguardie sindacali e di lotta presenti in Italia devono essere consapevoli del compito che spetta loro: organizzare e coordinare tra loro i lavoratori per far sì che siano pronti quando il tempo della resa dei conti fra padroni e proletari arriverà, perché questo momento è sempre più vicino.
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