di Giorgio Cremaschi
Giorgio Cremaschi
A trenta anni dalla scomparsa di Enrico
Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la
decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no
all’adesione dell’Italia allo SME. Il trattato che definiva allora il
cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il PCI decise di opporsi a quel trattato anche per uscire
dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate
contro la rigidità della moneta, e allora il liberismo veniva chiamato non a
caso monetarismo, valgono ancora oggi.
Nella Banca d’Italia era stata appena
liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al
direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi.
Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di
loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata
decapitata ed aveva cambiato completamente politica monetaria. Infatti la
scelta distintiva del governatorato di Baffi era stata proprio la manovra sulla
moneta. La lira veniva rivalutata rispetto al dollaro, in modo da rendere meno
pesante la bolletta energetica, e svalutata rispetto al marco, per sostenere la
produzione industriale. Baffi motivò esplicitamente queste scelte con la
necessità di non svalutare i salari e fu l’unico governatore a non demonizzare
la scala mobile e il sistema di protezione sociale.
Lo SME invece mise al centro della
politica economica la rigidità monetaria, adottando quel liberismo che andava
al governo in Gran Bretagna con Thatcher e negli Usa con Reagan. I nostri primi
interpreti di quella svolta furono il governatore Ciampi e il ministro del
tesoro Andreatta. Che assieme decisero nel 1981 la separazione del Tesoro dalla
Banca d’Italia, con il conseguente obbligo di vendere sul mercato i BOT per
finanziare la spesa pubblica. E con l’attacco alla indicizzazione dei salari
che ebbe il suo apice in quel decreto Craxi di taglio della scala mobile,
contro cui Enrico Berlinguer fece la sua ultima battaglia.
In sintesi l’euro e la perdita formale
della sovranità monetaria a favore della BCE sono il punto di arrivo, e non la
partenza, di un sistema di accordi e decisioni che avevano un obiettivo
dichiarato: rendere impossibili le politiche economiche Keynesiane, imporre gli
interessi della globalizzazione finanziaria e dei mercati come vincoli
insuperabili per gli stati. Il pareggio di bilancio in Costituzione, votato da
noi anche dalla destra oggi anti euro, è l’ultimo atto formale di tale politica
trentennale.
L’effetto euro sulle economie europee é
stato duplice. Da un lato la moneta unica è stata lo strumento per
istituzionalizzare ovunque le politiche liberiste. La Grecia é stata distrutta
con il ricatto della sua espulsione dall’euro. Da noi lo slogan “lo vuole
l’Europa” ha accompagnato ogni operazione di smantellamento dei diritti del
lavoro e dello stato sociale. D’altro lato la moneta unica forte ha finito per
mettere alla pari economie che pari non erano, facendo della zona euro non
un’area di crescita comune, bensì il campo di battaglia della competizione
estrema.
Di questo si è avvantaggiata
profondamente l’economia tedesca, che con il governo socialdemocratico
Schroeder all’inizio del duemila ha colpito duramente i diritti del lavoro,
aprendo così la via all’era Merkel. La depressione salariale da sola non fa
competitività, ma se si somma ad un sistema industriale forte che gode di una
moneta particolarmente favorevole, allora la fa eccome. Perché l’euro desse
risultati economici con un minimo di equilibrio ci sarebbe voluto un boom
salariale in Germania. Invece sono nati a milioni i cosiddetti minijob, lavori
precari con paghe da pochi euro l’ora, per i quali dal Belgio son partite
denunce alla corte di giustizia europea a causa delle delocalizzazioni che
hanno lì provocato. E questa politica continua oggi in primo luogo per opera
della socialdemocrazia e della complicità sindacale. La legge sul salario
minimo, vantata come un successo progressista, è in realtà una formalizzazione
del dumping sociale. Stabilire che nel 2017 la paga minima in Germania sarà di
8,50 euro all’ora, quando ora in Francia è di 10, significa usare l’euro come arma
di devastazione economica di massa.
Ora i due partiti che guidano l’Unione
Europea, la Germania e gli altri principali governi, PSE e PPE, promettono un
allentamento dei lacci delle politiche di austerità. Ma mentono sapendo di
mentire perché in realtà il sistema euro, con i suoi trattati non
rinegoziabili, da Maastricht al fiscal compact, non prevede alternative alle
politiche liberiste. O salta o continua come sempre, e proprio di questa
rigidità si fa forte la signora Merkel, che così ha spianato ogni debole
ostacolo da parte della SPD.
Tre anni fa una intervista di Giuliano
Amato a Rossana Rossanda puntava sul ritorno al governo dei socialisti in
Francia e Germania per farla finita con l’austerità. Non voglio infierire,
certo il centrosinistra europeo è oramai una formazione social liberale che ha
ben poco della sinistra, ma la realtà è che il sistema europeo non è
riformabile. Le tre misure più avanzate di cui si discute in campagna
elettorale, condono di una parte del debito per i paesi del sud Europa,
eurobond, trasformazione della BCE in un istituto che dia i soldi direttamente
agli stati e non alle banche, non son realizzabili senza cancellare, e non
semplicemente aggiustare, i trattati che stanno a presidio dell’euro. E in ogni
caso sarebbero impedite da qualsiasi governo tedesco.
Chi sostiene queste misure dovrebbe
aggiungere: o si fa questo, o salta la baracca perché così non si può andare
avanti. Invece questo non viene detto e così il sistema di potere economico
finanziario che guida l’Europa capisce che non si fa sul serio. Il fondatore
della Linke tedesca Oskar Lafontaine aveva proposto un piano europeo di
smontaggio dell’euro, ma il suo stesso partito non ha avuto il coraggio di
sostenerlo. E tutta la sinistra europea oggi esprime la stessa paura.
È chiaro che dire no all’euro non basta
se non si rimuove la politica economica liberista che ha portato alla sua
costruzione, ma la fine della moneta unica è una condizione necessaria per
poter ricostruire una politica economica e sociale fondata su eguaglianza e
democrazia. È una condizione necessaria, ma non sufficiente e proprio questa
insufficienza avrebbe dovuto essere il campo d’azione di una vera sinistra.
Come ho cercato di spiegare l’euro non é
tutto, ma è il simbolo monetario delle politiche liberiste e di austerità. La
sinistra non doveva subire il ricatto psicologico di chi accusa di nazionalismo
la rivendicazione della sovranità monetaria, mentre in realtà difende
l’internazionalismo di banche e finanza. La sinistra non avrebbe dovuto avere
il tabù dell’euro, ma anzi avrebbe dovuto fare della contestazione della moneta
unica la leva per spingere in campo una critica popolare e di massa al
liberismo. La sinistra doveva dire no all’euro dal suo punto di vista e così
questo punto di vista sarebbe tornato in campo nella crisi europea.
Invece il campo è stato abbandonato e
così il no all’euro è diventato vessillo delle destre autoritarie, xenofobe e
neofasciste. Che ovviamente lo usano a loro modo e per i loro fini. Il
risultato è che la politica europea è bloccata tra la continuazione delle
politiche di austerità sotto le larghe intese PPE PSE e la contestazione degli
euroscettici reazionari. E il sostegno UE al governo ucraino infarcito di
neonazisti, mostra che ci sono momenti e situazioni in cui questi due
schieramenti possono trovare sintesi.
Un’ alternativa di sinistra a tutto
questo si ricostruirà solo quando le sue forze sapranno proporre senza tabù la
messa in discussione dei poteri e delle politiche dell’Europa reale, senza
trastullarsi con una Europa ideale tanto ipocrita quanto inesistente.
In Italia questo significa una sinistra
che rompa davvero con il Pd e apra il confronto e il dialogo con il Movimento 5
Stelle, che avrà tanti limiti e contraddizioni, ma che finora ha anche il merito
democratico di aver impedito un lepenismo di massa nel nostro paese. La prima
cosa da proporre subito dopo le elezioni europee è un referendum costituzionale
sui trattati e sull’euro, così come si fece già nel 1989. Lo chieda anche la
sinistra che non vuol morire renziana.
Aveva ragione Berlinguer a dire no allo
SME e ha torto oggi la sinistra a non mettere in discussione quell’euro che è
stato messo lì per distruggerla.
Nessun commento:
Posta un commento