di Riccardo Realfonzo e Guido Tortorella Esposito
La disoccupazione dilaga nell’Eurozona. Dallo scoppio della crisi, a fine 2007, si contano oltre 7 milioni di disoccupati in più con situazioni particolarmente gravi nei Paesi periferici. Si pensi ad esempio alla Spagna e alla Grecia, dove il numero dei disoccupati è triplicato, ma anche all’Italia dove è più che raddoppiato. Con la politica fiscale ingessata dai vincoli europei sul deficit e sul debito, l’attenzione si concentra sulle politiche del lavoro e in particolare sulla tesi – sostenuta dalla letteratura economica più conservatrice, la stessa che difende l’austerity – che una sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro possa espandere l’occupazione. Questo è l’orizzonte della riforma Poletti, che punta soprattutto sulla liberalizzazione dei contratti a tempo determinato (prevedendo, tra l’altro, l’eliminazione dell’obbligo di indicazione della causale economico-organizzativa, l’aumento del numero delle proroghe possibili, la trasformazione di obblighi ad assumere in sanzioni amministrative).
Quella della riforma Poletti non è certo una strada nuova, ma si pone in continuità con gli sforzi che gli ultimi governi italiani ed europei hanno compiuto in questa direzione: introdurre sempre più flessibilità, in particolare nel ricorso al lavoro a termine, per ridurre la disoccupazione. Ma occorre chiedersi: le politiche di liberalizzazione del lavoro a termine hanno avuto successo nel favorire una crescita occupazionale? Ebbene, l’esperienza storica a nostra disposizione, così come registrata dai dati ufficiali, ci permette oggi di affermare che queste politiche hanno fallito in Europa negli ultimi 25 anni[1].
La disoccupazione dilaga nell’Eurozona. Dallo scoppio della crisi, a fine 2007, si contano oltre 7 milioni di disoccupati in più con situazioni particolarmente gravi nei Paesi periferici. Si pensi ad esempio alla Spagna e alla Grecia, dove il numero dei disoccupati è triplicato, ma anche all’Italia dove è più che raddoppiato. Con la politica fiscale ingessata dai vincoli europei sul deficit e sul debito, l’attenzione si concentra sulle politiche del lavoro e in particolare sulla tesi – sostenuta dalla letteratura economica più conservatrice, la stessa che difende l’austerity – che una sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro possa espandere l’occupazione. Questo è l’orizzonte della riforma Poletti, che punta soprattutto sulla liberalizzazione dei contratti a tempo determinato (prevedendo, tra l’altro, l’eliminazione dell’obbligo di indicazione della causale economico-organizzativa, l’aumento del numero delle proroghe possibili, la trasformazione di obblighi ad assumere in sanzioni amministrative).
Quella della riforma Poletti non è certo una strada nuova, ma si pone in continuità con gli sforzi che gli ultimi governi italiani ed europei hanno compiuto in questa direzione: introdurre sempre più flessibilità, in particolare nel ricorso al lavoro a termine, per ridurre la disoccupazione. Ma occorre chiedersi: le politiche di liberalizzazione del lavoro a termine hanno avuto successo nel favorire una crescita occupazionale? Ebbene, l’esperienza storica a nostra disposizione, così come registrata dai dati ufficiali, ci permette oggi di affermare che queste politiche hanno fallito in Europa negli ultimi 25 anni[1].
Per dimostrare quanto appena affermato, facciamo ricorso al database sulla flessibilità del mercato del lavoro messo a disposizione dall’OCSE. Il riferimento è all’Employment Protection for Temporary Contracts (EPT), l’indicatore che misura il grado di protezione dell’occupazione a termine previsto dalla legislazione di un Paese[2]. Complessivamente, tanto più le norme accentuano la flessibilità del ricorso al lavoro a termine – eliminando protezioni, vincoli e costi per le imprese, intervenendo sulla disciplina dei contratti a termine – tanto minore è l’indicatore EPT[3].
L’EPT viene stimato come segue dall’OCSE:
Tabella 1: EPT nell’eurozona 1990-2013 (fonte: OCSE)
Come si osserva, la maggioranza dei paesi dell’Eurozona ha condotto dal 1990 ad oggi politiche di liberalizzazione del lavoro a termine. Le eccezioni sono Francia, Austria, Finlandia e Irlanda. È anche evidente il particolare impegno con il quale l’Italia ha proceduto dal 1990 alla fine del 2013 a liberalizzare il lavoro a termine: l’indicatore EPT si riduce infatti da 4,88 a 2, dunque di circa il 60%. E, naturalmente, la riforma Poletti ridurrà ancora sensibilmente il grado di protezione di questi lavoratori.
Per valutare se esista un qualche nesso di causalità tra le politiche di riduzione della protezione del lavoro a termine e la disoccupazione si procede con alcune elaborazioni seguendo una consolidata metodologia. In sostanza, si calcola la variazione assoluta dell’EPT riscontrata tra il 2013 e il 1990 ponendola in correlazione con la media delle variazioni, anno dopo anno, del tasso di disoccupazione, registrate nei singoli paesi[4].
Il risultato ottenuto è sintetizzato dalla Figura 1:
Figura 1: EPT e disoccupazione 1990-2013 (fonte: nostra elaborazione su dati OCSE ed Eurostat). R-quadro: 0,15
Come si osserva, la retta (di regressione) appare decrescente. Il che significa che al ridursi dell’EPT (sull’asse orizzontale), e quindi all’aumentare della flessibilità nel lavoro a termine, la disoccupazione nell’Eurozona (asse verticale) tende generalmente ad aumentare. Si tratta di un risultato che evidentemente nega la tesi tradizionale secondo cui la flessibilità determina più occupazione. Certo, la correlazione non è marcata, ma la sua dimensione e il segno negativo della correlazione certamente smentiscono l’idea che le politiche di flessibilità abbiano avuto successo nel ridurre la disoccupazione all’interno dell’eurozona. D’altronde, come si osserva, gli incrementi del tasso di disoccupazione tendono ad essere più spiccati proprio in quelle realtà nelle quali più forti sono state le deregolamentazioni, come in Grecia, Portogallo e Spagna (ma anche la stessa Italia). L’esatto contrario di quanto ci si aspetterebbe alla luce della teoria economica più conservatrice. Si può notare ancora che i tre paesi che hanno aumentato la protezione del lavoro – Francia, Irlanda e Finlandia – hanno registrato aumenti del tasso medio di disoccupazione piuttosto bassi, quando non addirittura una diminuzione della disoccupazione (nel caso dell’Irlanda).
Si noti ancora che l’Italia è il Paese che, dal 1990 ad oggi, ha fatto i maggiori sforzi nella liberalizzazione del lavoro a termine, già prima della riforma Poletti. È infatti il Paese collocato nella Figura 3 più vicino all’asse delle ordinate, e nonostante ciò registra una sensibile crescita della disoccupazione.
L’analisi sin qui condotta riguarda il periodo 1990-2013, e dunque anche il periodo della crisi scoppiata a fine 2007. Tuttavia, includendo la crisi, qualcuno potrebbe ritenere che l’analisi sia viziata da eventuali “distorsioni” provocate dalla crisi stessa nella “normale” connessione tra le variabili economiche. Abbiamo allora ritenuto opportuno testare la presenza di una correlazione tra liberalizzazione del ricorso al lavoro a termine e occupazione anche limitatamente al periodo pre-crisi (1990-2007).
L’analisi dell’esperienza storica del periodo pre-crisi, condotta sempre con la medesima metodologia, porta al seguente risultato:
Figura 2: EPT e disoccupazione 1990-2007 (fonte: nostra elaborazione su dati OCSE ed Eurostat). R-quadro: 0,001
Qui la retta appare molto lievemente decrescente. Ciò significa che tra il 1990 e il 2007 le politiche di liberalizzazione dei contratti a termine sono sostanzialmente del tutto incorrelate con le variazioni dell’indice protezione del lavoro a termine. L’assenza di una qualunque legame tra deregolamentazione e occupazione conferma anche limitatamente al periodo pre-crisi che le politiche di liberalizzazione non hanno avuto alcun successo nel ridurre la disoccupazione sulla scena europea.
D’altra parte, anche un esame specifico delle principali riforme del lavoro a termine confermerebbe le conclusioni sopra osservate. Basti pensare al caso italiano, dove la liberalizzazione del lavoro a termine ha comportato una forte riduzione dell’indicatore rispetto al valore del 1990 e nonostante ciò oggi il tasso di disoccupazione è di quattro punti percentuali più elevato di allora.
Le considerazioni qui effettuate non possono certo stupire. In passato, la stessa OCSE ha a più riprese negato l’esistenza di una correlazione tra la flessibilità complessiva del mercato del lavoro (misurata dall’EPL) e l’occupazione. Ed anche l’attuale capo economista del FMI, Olivier Blanchard, in uno studio del 2006 sostenne che “le differenze ni regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari Paesi.
In conclusione, lo studio della relazione tra normative sul lavoro e occupazione chiarisce che le liberalizzazioni del lavoro a termine, e in genere una sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro, non favoriscono la riduzione della disoccupazione. Piuttosto, si potrebbe mostrare che queste politiche contribuiscono al ristagno dei salari medi dei lavoratori e spingono a sostituire lavoro a tempo indeterminato con lavoro a tempo determinato. Insomma, la flessibilità diventa precarietà. Una precarietà a cui sono associati gravissimi costi sociali, soprattutto a carico dei più giovani. Una precarietà che non riesce in alcun modo ad essere espansiva, cioè che non serve ad accrescere l’occupazione e i livelli di attività dell’economia
NOTE
[1] Per un approfondimento dell’analisi si rinvia al nostro “Gli insuccessi nella liberalizzazione del lavoro a termine” [àhttp://www.economiaepolitica.it/index.php/lavoro-e-sindacato/gli-insuccessi-nella-liberalizzazione-del-lavoro-a-termine/#.U3NJlPl_t34 ] pubblicato daeconomiaepolitica.it.
[2] L’EPT si aggiunge all’EPRC (l’indicatore di protezione per i contratti a tempo indeterminato) per definire il famoso indicatore EPL (Employment Protection Legislation Index), che misura il grado di protezione complessiva dell’occupazione prevista dalla legislazione. L’EPL, utilizzato in tutta la letteratura scientifica su questi temi, è il migliore indicatore esistente sul grado di rigidità complessiva del mercato del lavoro.
[3] L’analisi qui condotta considera tutti i paesi dell’Unione Monetaria, con esclusione di quelli per i quali l’OCSE offre solo dati parziali.
[4] Tecnicamente si opera una regressione semplice bivariata, utilizzando dati Eurostat per ciò che concerne il tasso di disoccupazione.
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