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venerdì 7 febbraio 2014
Rappresentanza sindacale e dittatura della maggioranza
L'accordo sulla rappresentanza sindacale firmato dalla Cgil il 10 gennaio scorso configura il pericolo di una "dittatura della maggioranza", che finirebbe per emarginare ed imbavagliare i sindacati dissenzienti. Al contrario, la fonte legittimante della disciplina negoziale andrebbe individuata nella consultazione diretta dei lavoratori, mediante referendum, sull’ipotesi di accordo siglato dalla maggioranza dei membri delle Rsu.
di Piergiovanni Alleva, da il manifesto, 6 febbraio 2014
L'accordo interconfederale 10 gennaio 2014, in tema di rappresentanza sindacale e sistema di contrattazione collettiva, suscita non poche perplessità per alcuni suoi contenuti pericolosi per la libertà sindacale.
Il giudizio critico nulla toglie al fatto positivo che l’ accordo volta pagina rispetto al sistema antidemocratico precedente, dove un sindacato minoritario poteva concludere con questa un contratto gradito alla controparte datoriale, che sarebbe divenuto di fatto l’unico applicato, anche se i lavoratori fossero stati contrari e avrebbe scacciato dall’azienda gli altri sindacati dissenzienti, anche se più rappresentativi tra i lavoratori.
Tale deprecabile “dittatura della minoranza” è stata superata. Vengono riconosciuti due importanti principi : ogni sindacato che possa vantare il 5% di rappresentanza ha diritto di partecipare alle trattative negoziali; i contratti collettivi, sia nazionali che aziendali, sono validi solo se di maggioranza, ossia se conclusi da sindacati che, anche per sommatoria, rappresentino più della metà dei lavoratori, ovvero, a livello aziendale, ove esista una rsu, dalla maggioranza dei membri della stessa.
Si prospetta però il pericolo che si cada all’opposto nella “dittatura della maggioranza”, la quale finisca con emarginare ed imbavagliare i sindacati che, per ragioni di merito, sono rimasti minoranze e non hanno voluto firmare gli accordi.
1. L’accordo‚ pur non impegnando giuridicamente nei suoi contenuti i sindacati autonomi non firmatari, può risultare una “conventio ad escludendum” contro di loro.
Le imprese aderenti a Confindustria hanno contratto l’ impegno di trattare sulla base di una piattaforma maggioritaria di sindacati che abbiano almeno il 51% di rappresentanza e non potrebbero concludere un accordo con i sindacati autonomi presentatori di una piattaforma rivendicativa di minoranza o privi del requisito minimo di rappresentanza. Ne discende che quell’accordo comporta implicitamente un patto di esclusione preventiva nei confronti di altri sindacati. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 231/2013 ha già messo in guardia contro la illegittimità dei patti impliciti o espliciti di esclusione degli altri sindacati.
2. In secondo luogo, nell’accordo sono state inserite nuove previsioni dirette contro le minoranze sindacali interne e cioè anche rappresentate da sindacati aderenti alle Confederazioni firmatarie.
Infatti il negoziato per il contratto nazionale si svolge sulla piattaforma presentata dai sindacati che,nel loro insieme, abbiano il 51% di rappresentatività.
Sembrerebbe una innocua regola procedurale, visto che comunque per partecipare alle trattative basta il 5%, e che comunque l’ipotesi di accordo deve essere approvata dai lavoratori. Si tratta invece di una norma grave che costituisce una sorta di aggiramento della sentenza della Corte costituzionale. Questa ha stabilito che possono costituire rappresentanze sindacali aziendali anche i sindacati che, pur non avendo sottoscritto l’intesa finale,abbiano però partecipato al negoziato. Mentre nel testo dell’accordo si intende che abbia partecipato al negoziato solo il sindacato che abbia contribuito a formulare la piattaforma rivendicativa maggioritaria.
Consideriamo il settore metalmeccanico, del commercio e di tutti gli altri che hanno conosciuto l’esperienza degli “accordi separati”, che vengono di fatto ora premiati .
Ad es. la Fiom è il sindacato di maggioranza relativa, ma è possibile che tutti gli altri sindacati si alleino tra loro e presentino una piattaforma diversa che arrivi al 51% di rappresentanza. La Fiom ha diritto di partecipare al negoziato perché ha più del 5% di rappresentanza; ma poiché la piattaforma su cui si tratta è per lei inaccettabile, non sottoscrive l’intesa finale; e allora, non avendo contribuito alla piattaforma su cui si è negoziato l’accordo, si intenderebbe “non partecipante al negoziato” e perderebbe anche il diritto di costituire o mantenere le rsa.
Purtroppo anche la Cgil sembra non essersi accorta dell’insidia, probabilmente a causa della segretezza e della mancanza di condivisione che hanno avvolto i lavori di preparazione dell’accordo.
3. Con riguardo alla contrattazione aziendale, bisogna rilevare criticamente una sorta di “parlamentarizzazione costrittiva” dell’attività di rappresentanza sindacale, nel senso anzitutto che la legittimazione all’attività negoziale aziendale appartiene alla rappresentanza sindacale unitaria e i contratti vengono approvati a maggioranza dei suoi membri; e fin qui lo schema è accettabile.
Non è accettabile la successiva previsione, secondo cui le clausole dell’accordo aziendale, anche se peggiorative, debbano valere per tutti i lavoratori, senza che abbiano la possibilità di pronunciarsi su di esso con un referendum, ed inoltre sotto pena di sanzioni risarcitorie pecuniarie alle organizzazioni sindacali che hanno partecipato alle elezioni delle rsu, ove assumano qualunque iniziativa di dissenso – essenzialmente lo sciopero – contro il contratto così concluso.
L’oppressione della minoranza è allora evidente. Un sindacato anche largamente maggioritario tra i lavoratori, ma non maggioritario in assoluto: o resta al di fuori dalle elezioni delle rsu e dallo stesso contratto, e così si condanna all’impotenza; oppure, se partecipa alle elezioni e poi intende mobilitare i lavoratori contro il contratto aziendale che i suoi eletti nelle rsu, restando in minoranza, hanno rifiutato, si espone ad azioni repressive e risarcitorie della controparte datorial
Bisogna mutare il fulcro del sistema, individuando la fonte legittimante della disciplina negoziale ad efficacia generale nella volontà dei lavoratori da loro direttamente espressa, mediante referendum,sull’ipotesi di accordo siglato dalla maggioranza dei membri delle rsu.
4. In quarto luogo, l’accordo interconfederale accoglie largamente e acriticamente l’impostazione datoriale relativa al diritto di sciopero fino alla sua virtuale eliminazione.
La clausola di “esigibilità” del contratto collettivo è un non senso giuridico ed una banale tautologia, perché nel diritto civile un accordo è di per sé esigibile nei confronti della controparte che lo ha sottoscritto.
Il fatto è però che nella nostra Costituzione è previsto il diritto di sciopero, che è proprio un “diritto di lotta”, ossia il diritto dei lavoratori associati di contraddire i contratti anche vigenti, chiedendone un mutamento favorevole o rifiutandosi di lavorare alle condizioni esistenti, ritenendole ingiuste.
Quanto alla distinzione tra responsabilità dei sindacati, ai quali dovrebbero essere chiesti risarcimenti dei danni ove organizzino scioperi di protesta, e l’ immunità dalla sanzione per i lavoratori che vi abbiano partecipato, si tratta di una concreta ipocrisia, perché il rapporto tra singolo e organizzazione è comunque fisiologico, giacché una protesta spontanea non coordinata dal sindacato, avrebbe vita breve e minima incidenza.
A questo punto, ci sembra necessaria quella discussione vera tra lavoratori e quadri sindacali che finora è mancata. Questo contributo è finalizzato ad aiutare la discussione.
* Per una analisi più ampia: dirittisocialiecittadinanza.org
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