Prima o poi bisognerà istituire il premio all’Elettore Ignoto. E non mi riferisco a quell’elettorato flottante, liquido, incostante, disincantato che passa da sinistra ai 5Stelle o addirittura alla Lega. Ma all’elettore fisso, stabile, irremovibile del Pd. Ne conosciamo tanti e sono perlopiù bravissime persone che credono sinceramente nei valori della legalità, della trasparenza, della Costituzione, dell’antifascismo, dell’accoglienza, della solidarietà. Votano Pd perché pensano a Berlinguer (se vengono dal Pci) o a De Gasperi e a Moro (se vengono dal mondo cattolico). Sotto sotto, invidiano chi riesce a cambiare partito, a dare fiducia a quell’armata brancaleone dei 5Stelle o a qualche formazione della sinistra-sinistra, ma alla fine resistono a ogni tentazione e disciplinatamente si recano ogni volta alle urne a fare quello che considerano il proprio dovere. In questi 25 anni, dopo la breve parentesi di Prodi subito fiaccata dagli astuti “professionisti della politica”, sono stati sottoposti alle prove più dure, roba che avrebbe fiaccato una mandria di bisonti: gli inciuci machiavellici di D’Alema, i consociativismi di Napolitano, i cattivissimi buonismi di Veltroni.
Nel 2013, dopo il dissanguamento appresso a Monti&Fornero, pensavano di aver visto tutto con la rielezione di re Giorgio contro il loro amato Rodotà e per le larghe intese con B. Invece nel 2014 arrivò Renzi, l’Attila della sinistra.
Eppure, nel 2018, questi eroi dei nostri tempi tributarono al Pd un 18,7% dei voti, che pareva una sconfitta ma a ben vedere, dopo il passaggio del rottamatore-sterminatore, era quasi un miracolo. In fondo il Pd restava il secondo partito italiano e il centrosinistra nel suo complesso, con le altre liste fiancheggiatrici e quella di LeU, toccava il 26,2%. Un voto su quattro. Che ora, alle Europee, complice lo sbarramento del 4%, potrebbe ridursi a un voto su cinque. Dopo un anno trascorso a strillare contro il “peggior governo della storia repubblicana” (invece i tre di Berlusconi, per tacer di altri, erano meravigliosi) che avevano fatto di tutto per rendere inevitabile a furia di Aventino e pop corn. L’elezione di Nicola Zingaretti a segretario aveva fatto ben sperare quel popolo, che ancora una volta si era trascinato alle primarie, persino nel gazebo dove c’era Calenda. Zinga è anche lui un brav’uomo che l’estate scorsa aveva addirittura osato lanciare uno slogan ragionevole: “Meno Macron e più sinistra”. E tanto era bastato per farlo amare da chi non ne poteva più di vedere Renzi abbracciato ai peggiori nemici dell’Italia, della sinistra e della legalità.
E masticava amaro dinanzi ai 5Stelle che rubavano alla sinistra, l’una dopo l’altra, tutte le sue bandiere storiche: la lotta al precariato, alla povertà, ai salari e alle pensioni da fame, alla corruzione, alla prescrizione, alla privatizzazione dell’acqua, alle grandi opere inutili e inquinanti come il Tav, ai vitalizi e agli altri privilegi della casta. Poi, purtroppo, l’Era Zingaretti è cominciata. E per l’Elettore Ignoto è ricominciato il calvario. Zanda “nuovo” tesoriere, che propone subito di aumentare lo stipendio ai parlamentari e di ripristinare il finanziamento pubblico diretto ai partiti (poi ritirati, ma solo per finta). L’ex lettiana e poi renziana De Micheli vicesegretaria. L’ex renziana Serracchiani vicepresidente. I renziani Delrio e Marcucci confermati capigruppo. Le marcette Pro Tav a braccetto con FI e Lega. Le candidature in Europa di vecchi dinosauri come Toia, Cozzolino, Bresso, di pasionarie turborenziane come la Bonafè e la Picierno, di personaggi incompatibili come Pisapia e Calenda. Per non parlare della strepitosa accoppiata in Campania fra l’ex pm Roberti alle Europee e dell’indagato Alfieri “Mr Fritture” alle Comunali. E poi l’accordo con Miccichè in Sicilia, da Gela a Mazara del Vallo. L’abbraccio con Cirino Pomicino. Lo scandalo del marchettificio sanitario in Umbria, con le dimissioni retrattili della Marini. L’ennesima indagine sui ras calabresi Oliverio, Adamo e Bruno Bossio, che non si dimettono neanche per finta. La nomina dell’ex magistrato berlusconiano Arcibaldo Miller a capo dell’Ipab del Lazio. L’arruolamento di Moscovici come testimonial per far perdere qualche altro voto.
E poi l’ideona di candidare come futuro premier (ma di quale maggioranza?) il sindaco milanese Beppe Sala alla vigilia della richiesta di condanna a 13 mesi di carcere per falso documentale. L’assenza in luoghi e momenti cruciali, come l’assalto fascista ai rom di Casal Bruciato, con gli applausi postumi e imbarazzati all’arcinemica Virginia Raggi, sola e unica a metterci la faccia. L’incredibile battaglia parlamentare contro la riforma, finalmente efficace, del voto di scambio politico-mafioso, votata da M5S, Lega, FdI e LeU e avversata da Pd e Forza Italia. L’assurda ostilità alla proposta di salario minimo lanciata da Di Maio e molto vicina a quella dei sindacati. E il mantra quotidiano “Mai con i 5Stelle” che risponde a una domanda al momento insensata (in questa legislatura non c’è spazio per maggioranze diverse) e serve solo a rafforzare Salvini (lui un’alternativa alla coalizione giallo-verde ce l’ha). Insomma, una raffica di martellate sulle palle (degli elettori superstiti), al cui confronto Tafazzi è un dilettante allo sbaraglio. Intanto, come ai tempi del Popolo dei Fax e dei Girotondi, la società civile progressista organizza l’opposizione (soprattutto a Salvini) per conto suo: la rivolta degli striscioni del Popolo dei Balconi è nata a prescindere da quel che accade al Nazareno. Come se il Pd non esistesse. Ma esiste ancora, il Pd? E quali peccati atavici devono ancora espiare i suoi elettori?
Eppure, nel 2018, questi eroi dei nostri tempi tributarono al Pd un 18,7% dei voti, che pareva una sconfitta ma a ben vedere, dopo il passaggio del rottamatore-sterminatore, era quasi un miracolo. In fondo il Pd restava il secondo partito italiano e il centrosinistra nel suo complesso, con le altre liste fiancheggiatrici e quella di LeU, toccava il 26,2%. Un voto su quattro. Che ora, alle Europee, complice lo sbarramento del 4%, potrebbe ridursi a un voto su cinque. Dopo un anno trascorso a strillare contro il “peggior governo della storia repubblicana” (invece i tre di Berlusconi, per tacer di altri, erano meravigliosi) che avevano fatto di tutto per rendere inevitabile a furia di Aventino e pop corn. L’elezione di Nicola Zingaretti a segretario aveva fatto ben sperare quel popolo, che ancora una volta si era trascinato alle primarie, persino nel gazebo dove c’era Calenda. Zinga è anche lui un brav’uomo che l’estate scorsa aveva addirittura osato lanciare uno slogan ragionevole: “Meno Macron e più sinistra”. E tanto era bastato per farlo amare da chi non ne poteva più di vedere Renzi abbracciato ai peggiori nemici dell’Italia, della sinistra e della legalità.
E masticava amaro dinanzi ai 5Stelle che rubavano alla sinistra, l’una dopo l’altra, tutte le sue bandiere storiche: la lotta al precariato, alla povertà, ai salari e alle pensioni da fame, alla corruzione, alla prescrizione, alla privatizzazione dell’acqua, alle grandi opere inutili e inquinanti come il Tav, ai vitalizi e agli altri privilegi della casta. Poi, purtroppo, l’Era Zingaretti è cominciata. E per l’Elettore Ignoto è ricominciato il calvario. Zanda “nuovo” tesoriere, che propone subito di aumentare lo stipendio ai parlamentari e di ripristinare il finanziamento pubblico diretto ai partiti (poi ritirati, ma solo per finta). L’ex lettiana e poi renziana De Micheli vicesegretaria. L’ex renziana Serracchiani vicepresidente. I renziani Delrio e Marcucci confermati capigruppo. Le marcette Pro Tav a braccetto con FI e Lega. Le candidature in Europa di vecchi dinosauri come Toia, Cozzolino, Bresso, di pasionarie turborenziane come la Bonafè e la Picierno, di personaggi incompatibili come Pisapia e Calenda. Per non parlare della strepitosa accoppiata in Campania fra l’ex pm Roberti alle Europee e dell’indagato Alfieri “Mr Fritture” alle Comunali. E poi l’accordo con Miccichè in Sicilia, da Gela a Mazara del Vallo. L’abbraccio con Cirino Pomicino. Lo scandalo del marchettificio sanitario in Umbria, con le dimissioni retrattili della Marini. L’ennesima indagine sui ras calabresi Oliverio, Adamo e Bruno Bossio, che non si dimettono neanche per finta. La nomina dell’ex magistrato berlusconiano Arcibaldo Miller a capo dell’Ipab del Lazio. L’arruolamento di Moscovici come testimonial per far perdere qualche altro voto.
E poi l’ideona di candidare come futuro premier (ma di quale maggioranza?) il sindaco milanese Beppe Sala alla vigilia della richiesta di condanna a 13 mesi di carcere per falso documentale. L’assenza in luoghi e momenti cruciali, come l’assalto fascista ai rom di Casal Bruciato, con gli applausi postumi e imbarazzati all’arcinemica Virginia Raggi, sola e unica a metterci la faccia. L’incredibile battaglia parlamentare contro la riforma, finalmente efficace, del voto di scambio politico-mafioso, votata da M5S, Lega, FdI e LeU e avversata da Pd e Forza Italia. L’assurda ostilità alla proposta di salario minimo lanciata da Di Maio e molto vicina a quella dei sindacati. E il mantra quotidiano “Mai con i 5Stelle” che risponde a una domanda al momento insensata (in questa legislatura non c’è spazio per maggioranze diverse) e serve solo a rafforzare Salvini (lui un’alternativa alla coalizione giallo-verde ce l’ha). Insomma, una raffica di martellate sulle palle (degli elettori superstiti), al cui confronto Tafazzi è un dilettante allo sbaraglio. Intanto, come ai tempi del Popolo dei Fax e dei Girotondi, la società civile progressista organizza l’opposizione (soprattutto a Salvini) per conto suo: la rivolta degli striscioni del Popolo dei Balconi è nata a prescindere da quel che accade al Nazareno. Come se il Pd non esistesse. Ma esiste ancora, il Pd? E quali peccati atavici devono ancora espiare i suoi elettori?
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