L’autore di questo post è Gabriele Guzzi, laurea con lode in Economia alla Luiss e poi alla Bocconi. Ha lavorato per lavoce.info come fact-checker, è stato presidente di Rethinking Economics Bocconi e attualmente è dottorando presso l’Università Roma Tre –
Il Reddito di Cittadinanza varato dal governo italiano sta raccogliendo diverse critiche nel nostro Paese. Da giovane economista di 25 anni, sento la necessità di rispondere a queste obiezioni, non con scopo polemico ma per aprire un dibattito ampio su questa tematica.
Tralasciando le questioni di implementazione tecnica, su cui il dibattito pubblico già sta ragionando ampiamente, vorrei infatti rispondere a due obiezioni di fondo a questo tipo di provvedimento, che credo possano essere comprese solo analizzando i lineamenti della cultura politica oggi dominante in Italia e in altri paesi avanzati.
I due punti possono essere semplificati in questa maniera: da una parte si argomenta che una misura di welfare che assicura un reddito minimo di 780 euro possa scoraggiare l’accettazione di tutti quei lavori a basso salario; dall’altra si sostiene che una larga fetta di italiani, i cosiddetti furbetti, riusciranno ad aggirare i requisiti minimi e ad accaparrarsi il reddito senza averne un reale diritto.
Cercherò ora di argomentare il motivo per cui entrambe le critiche mi sembrano comprensibili solo all’interno di una visione molto precisa del mondo, di una cultura cioè che fonda la società sulla disuguaglianza e sulla competizione al ribasso dei diritti e dei salari, il cosiddetto neoliberismo delle corporation, per come lo ha definito il sociologo Colin Crouch. Con tale impostazione vorrei argomentare che la maggior parte delle critiche non mi sembrano affatto interpretazioni neutre o oggettive del provvedimento, ma piuttosto implicazioni in termini di politica economica di una cultura pervasiva, ai più implicita ed inconscia, che giustifica lo stato di esclusione e di povertà di milioni di persone in nome di una tanto presunta, quanto mai realmente verificata, efficienza del mercato globale.
Iniziamo con la prima obiezione, che in breve accusa il reddito di cittadinanza di essere troppo elevato in rapporto ai salari medi percepiti oggi in Italia. Il punto che meglio fa capire come questa obiezione sia radicata su una visione iniqua dei rapporti economici, è che dinanzi a una misura che vuole offrire una compensazione di reddito a tutti quelli che vivono sotto la soglia di povertà, non ci si indigna per il fatto che il salario di milioni di lavoratori è inferiore o di poco superiore alla soglia minima di povertà, fatto quanto mai allarmante per un paese civile che si fonda sull’art.36 della Costituzione, o che in Italia più di 5 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta. No, dinanzi a questa situazione ci si indigna perché una misura di welfare potrebbe spingere al rialzo la soglia dei lavori accettati dai nostri giovani in termini di dignità, di salari e di condizioni lavorative. Certo, il reddito di cittadinanza potrebbe disincentivare un ragazzo ad accettare un lavoro da 500 euro al mese per 40 ore alla settimana. Ma è proprio l’esistenza di un tale lavoro che dovrebbe quantomeno destare preoccupazione nella classe politica e intellettuale di un paese avanzato.
Infatti, che questi ultimi trenta anni siano stati l’epoca dell’erosione dei diritti, della stagnazione dei salari, del crollo della quota del reddito che va al lavoro, della perdita di potere contrattuale delle fasce più deboli della popolazione, e allo stesso tempo della crescita dei salari dei grandi manager, delle disuguaglianze di ricchezza e di salario, dell’abbassamento generalizzato delle tasse sui profitti e sui dividendi, non è un’opinione di uno sparuto gruppo di idealisti, ma le conclusioni a cui oramai giungono tutti, economisti eterodossi e ortodossi, proprio perché sono i dati che ci stanno urlando da anni lo stato allarmante in cui sopravvive il capitalismo internazionale, ossia in quel famoso squilibrio del potere democratico, per come lo definisce Anthony Atkinson, tutto a favore di un élite finanziariamente potente, e a scapito del restante 99% della popolazione.
Basta dare uno sguardo alla figura 3, qui in basso, tratta dal rapporto dell’Ilo e dell’Ocse in occasione del G20 del 2015, per vedere come l’Italia sia, all’interno del processo di disuguaglianza che caratterizza tutto l’Occidente, uno dei paesi in cui il crollo della quota del reddito che va ai lavoratori è stato più marcato. Questo processo di stagnazione dei salari, accompagnato alle più recenti politiche di contenimento della spesa pubblica e al crollo degli investimenti, ha causato che il numero dei poveri assoluti triplicasse in Italia in soli dieci anni.
Figura 3: La quota salari crolla nei paesi avanzati, e in Italia di più del 12% negli ultimi 40 anni
Fonte: OCSE
La successiva figura poi evidenzia che i cosiddetti guadagni di produttività, tanto cari a una certa narrazione economica e poco presenti nel contesto italiano, non abbiano affatto portato a una crescita dei salari e siano stati invece esclusivamente accumulati come profitto dalle grandi aziende. Infatti mentre nei paesi avanzati il salario reale medio stagnava, la crescita della produttività continuava la sua salita, creando un gap iniquo tra il contributo effettivo apportato dai lavoratori e la loro retribuzione in termini reali. Senza considerare inoltre che questa discrasia reddituale non tiene in considerazione la crescita esponenziale dei salari dei manager delle grandi imprese. Se negli Usa, ad esempio, il rapporto tra il reddito degli amministratori delegati e quello medio era nel 1965 pari a 20 a uno, oggi questo rapporto ha superato i 300 a uno, come ha affermato l’Economic Policy Institute.
Figura 5: La crescita della produttività del lavoro non è accompagnata dalla crescita dei salari reali
È insomma un intero capitalismo che tende a fondarsi sulla disuguaglianza dei redditi, sulla soppressione dei diritti e sul calo dei salari. E in Italia ciò è peggiorato da una situazione di crescita stagnante ultradecennale. Quello che forse dovremmo capire è che questa è una visione assolutamente miope dello sviluppo economico, che sebbene crei instabilità politica, depressione economica e frammentazione culturale, continua a dominare le politiche economiche dell’Unione Europea. Per questi motivi è politicamente suicida ed economicamente discutibile contrapporre al reddito di cittadinanza la storia che l’offerta di lavoro potrebbe risentirne.
Bisognerebbe invece lavorare ad un rialzo generale dei salari, guidato da investimenti produttivi in innovazione e spostando la frontiera produttiva italiana verso settori a maggiore valore aggiunto, e inoltre contribuire a indirizzare il conflitto distributivo europeo, ad oggi ancora fortemente dominato da una logica mercantilistica di stampo tedesco, verso una situazione più equa e maggiormente a favore del lavoro. Anche perché sappiamo, con la lezione di Keynes e Kalecki, che sono proprio le classi lavoratrici ad avere una maggiore propensione al consumo e che quindi una migliore distribuzione del reddito favorisce anche la crescita della domanda effettiva.
La seconda obiezione che vorrei affrontare riguarda invece la possibilità che alcuni furbetti si aggiudichino impropriamente il reddito di cittadinanza. Ribadito il principio per cui questi atteggiamenti vanno stigmatizzati e adeguatamente combattuti, con politiche di controllo che il provvedimento comunque mette in atto, mi piacerebbe, da normale cittadino, che questa attenzione mediatica fosse diretta non solo ai piccoli furbetti da qualche migliaia di euro all’anno, ma anche e soprattutto ai grandi evasori o a chi fa dell’elusione fiscale la politica aziendale fondamentale.
Mi sarebbe piaciuto, ad esempio, che i talk show avessero fatto inchieste giornalistiche anche sui 630 miliardi di euro di profitti che le imprese multinazionali hanno spostato nei paradisi fiscali nel solo 2015 per eludere il fisco di decine di paesi, causandogli una perdita in termini di gettito fiscale di circa 200 miliardi di euro all’anno – cifra che è stata stimata da una ricerca di Tørsløv, Wier, e Zucman dell’Università di Berkeley e di Copenaghen e riportata da Federico Fubini sul Corriere.
Mi sarebbe piaciuto cioè che questo giusto sdegno mediatico fosse rivolto soprattutto ai grandi furbetti del fisco, a quelli che solo dall’Italia spostano più di 23 miliardi di euro all’anno in paradisi fiscali facendo gravare sul resto dei cittadini e delle imprese il peso delle loro strategie di elusione. Mi sarebbe piaciuto che i servizi con telecamere nascoste, come sono stati giustamente fatti nei Caf di Palermo, fossero organizzati anche negli uffici legali delle grandi capitali europee dei paradisi fiscali, come l’Olanda, il Lussemburgo o l’Irlanda, che anche se contano solo il 6% della popolazione dell’Unione monetaria, rappresentano circa la metà dell’elusione fiscale internazionale della grandi multinazionali.
Dico questo non per uno sterile benaltrismo, ma perché la richiesta di giustizia può arrivare a prendere le forme di un grande inganno o di uno stigma per le fasce meno abbienti, se essa non è ugualmente, e direi anche più intensamente, destinata ai grandi poteri finanziari del capitalismo internazionale.
Inoltre, se fosse giusto criticare un provvedimento di welfare solo perché alcuni potrebbero appropriarsene indebitamente, allora dovremmo arrivare ad abolire anche le pensioni di invalidità, l’esenzione del ticket per i redditi bassi, il bonus sulle bollette, e tutte le altre misure dirette e indirette di supporto al reddito. Altrimenti, se riteniamo che il welfare abbia ancora un significato politico da difendere, in questo mondo sempre più iniquo, dovremmo adoperarci affinché sia maggiormente inclusivo ed efficace, perseguendo ovviamente i vari e dannosi casi di infrazione.
Da giovane economista, in conclusione, mi piacerebbe che il mio Paese si unisse una volta tanto con il solo obiettivo di contribuire alla crescita morale ed economica dell’Italia, mettendo da parte le fazioni e i campanilismi politici. Abbiamo un Paese che è in un profondo stato di crisi da più di vent’anni, e che necessita di una grande politica di rilancio. Il Reddito di Cittadinanza è, come ogni altra cosa al mondo, potenzialmente sempre migliorabile, ma il principio a cui si ispira mi sembra vada nella giusta direzione di una maggiore equità e coesione sociale. Elementi di cui abbiamo estremamente bisogno in quest’epoca così complicata.
I due punti possono essere semplificati in questa maniera: da una parte si argomenta che una misura di welfare che assicura un reddito minimo di 780 euro possa scoraggiare l’accettazione di tutti quei lavori a basso salario; dall’altra si sostiene che una larga fetta di italiani, i cosiddetti furbetti, riusciranno ad aggirare i requisiti minimi e ad accaparrarsi il reddito senza averne un reale diritto.
Cercherò ora di argomentare il motivo per cui entrambe le critiche mi sembrano comprensibili solo all’interno di una visione molto precisa del mondo, di una cultura cioè che fonda la società sulla disuguaglianza e sulla competizione al ribasso dei diritti e dei salari, il cosiddetto neoliberismo delle corporation, per come lo ha definito il sociologo Colin Crouch. Con tale impostazione vorrei argomentare che la maggior parte delle critiche non mi sembrano affatto interpretazioni neutre o oggettive del provvedimento, ma piuttosto implicazioni in termini di politica economica di una cultura pervasiva, ai più implicita ed inconscia, che giustifica lo stato di esclusione e di povertà di milioni di persone in nome di una tanto presunta, quanto mai realmente verificata, efficienza del mercato globale.
Iniziamo con la prima obiezione, che in breve accusa il reddito di cittadinanza di essere troppo elevato in rapporto ai salari medi percepiti oggi in Italia. Il punto che meglio fa capire come questa obiezione sia radicata su una visione iniqua dei rapporti economici, è che dinanzi a una misura che vuole offrire una compensazione di reddito a tutti quelli che vivono sotto la soglia di povertà, non ci si indigna per il fatto che il salario di milioni di lavoratori è inferiore o di poco superiore alla soglia minima di povertà, fatto quanto mai allarmante per un paese civile che si fonda sull’art.36 della Costituzione, o che in Italia più di 5 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta. No, dinanzi a questa situazione ci si indigna perché una misura di welfare potrebbe spingere al rialzo la soglia dei lavori accettati dai nostri giovani in termini di dignità, di salari e di condizioni lavorative. Certo, il reddito di cittadinanza potrebbe disincentivare un ragazzo ad accettare un lavoro da 500 euro al mese per 40 ore alla settimana. Ma è proprio l’esistenza di un tale lavoro che dovrebbe quantomeno destare preoccupazione nella classe politica e intellettuale di un paese avanzato.
Infatti, che questi ultimi trenta anni siano stati l’epoca dell’erosione dei diritti, della stagnazione dei salari, del crollo della quota del reddito che va al lavoro, della perdita di potere contrattuale delle fasce più deboli della popolazione, e allo stesso tempo della crescita dei salari dei grandi manager, delle disuguaglianze di ricchezza e di salario, dell’abbassamento generalizzato delle tasse sui profitti e sui dividendi, non è un’opinione di uno sparuto gruppo di idealisti, ma le conclusioni a cui oramai giungono tutti, economisti eterodossi e ortodossi, proprio perché sono i dati che ci stanno urlando da anni lo stato allarmante in cui sopravvive il capitalismo internazionale, ossia in quel famoso squilibrio del potere democratico, per come lo definisce Anthony Atkinson, tutto a favore di un élite finanziariamente potente, e a scapito del restante 99% della popolazione.
Basta dare uno sguardo alla figura 3, qui in basso, tratta dal rapporto dell’Ilo e dell’Ocse in occasione del G20 del 2015, per vedere come l’Italia sia, all’interno del processo di disuguaglianza che caratterizza tutto l’Occidente, uno dei paesi in cui il crollo della quota del reddito che va ai lavoratori è stato più marcato. Questo processo di stagnazione dei salari, accompagnato alle più recenti politiche di contenimento della spesa pubblica e al crollo degli investimenti, ha causato che il numero dei poveri assoluti triplicasse in Italia in soli dieci anni.
Figura 3: La quota salari crolla nei paesi avanzati, e in Italia di più del 12% negli ultimi 40 anni
Fonte: OCSE
La successiva figura poi evidenzia che i cosiddetti guadagni di produttività, tanto cari a una certa narrazione economica e poco presenti nel contesto italiano, non abbiano affatto portato a una crescita dei salari e siano stati invece esclusivamente accumulati come profitto dalle grandi aziende. Infatti mentre nei paesi avanzati il salario reale medio stagnava, la crescita della produttività continuava la sua salita, creando un gap iniquo tra il contributo effettivo apportato dai lavoratori e la loro retribuzione in termini reali. Senza considerare inoltre che questa discrasia reddituale non tiene in considerazione la crescita esponenziale dei salari dei manager delle grandi imprese. Se negli Usa, ad esempio, il rapporto tra il reddito degli amministratori delegati e quello medio era nel 1965 pari a 20 a uno, oggi questo rapporto ha superato i 300 a uno, come ha affermato l’Economic Policy Institute.
Figura 5: La crescita della produttività del lavoro non è accompagnata dalla crescita dei salari reali
È insomma un intero capitalismo che tende a fondarsi sulla disuguaglianza dei redditi, sulla soppressione dei diritti e sul calo dei salari. E in Italia ciò è peggiorato da una situazione di crescita stagnante ultradecennale. Quello che forse dovremmo capire è che questa è una visione assolutamente miope dello sviluppo economico, che sebbene crei instabilità politica, depressione economica e frammentazione culturale, continua a dominare le politiche economiche dell’Unione Europea. Per questi motivi è politicamente suicida ed economicamente discutibile contrapporre al reddito di cittadinanza la storia che l’offerta di lavoro potrebbe risentirne.
Bisognerebbe invece lavorare ad un rialzo generale dei salari, guidato da investimenti produttivi in innovazione e spostando la frontiera produttiva italiana verso settori a maggiore valore aggiunto, e inoltre contribuire a indirizzare il conflitto distributivo europeo, ad oggi ancora fortemente dominato da una logica mercantilistica di stampo tedesco, verso una situazione più equa e maggiormente a favore del lavoro. Anche perché sappiamo, con la lezione di Keynes e Kalecki, che sono proprio le classi lavoratrici ad avere una maggiore propensione al consumo e che quindi una migliore distribuzione del reddito favorisce anche la crescita della domanda effettiva.
La seconda obiezione che vorrei affrontare riguarda invece la possibilità che alcuni furbetti si aggiudichino impropriamente il reddito di cittadinanza. Ribadito il principio per cui questi atteggiamenti vanno stigmatizzati e adeguatamente combattuti, con politiche di controllo che il provvedimento comunque mette in atto, mi piacerebbe, da normale cittadino, che questa attenzione mediatica fosse diretta non solo ai piccoli furbetti da qualche migliaia di euro all’anno, ma anche e soprattutto ai grandi evasori o a chi fa dell’elusione fiscale la politica aziendale fondamentale.
Mi sarebbe piaciuto, ad esempio, che i talk show avessero fatto inchieste giornalistiche anche sui 630 miliardi di euro di profitti che le imprese multinazionali hanno spostato nei paradisi fiscali nel solo 2015 per eludere il fisco di decine di paesi, causandogli una perdita in termini di gettito fiscale di circa 200 miliardi di euro all’anno – cifra che è stata stimata da una ricerca di Tørsløv, Wier, e Zucman dell’Università di Berkeley e di Copenaghen e riportata da Federico Fubini sul Corriere.
Mi sarebbe piaciuto cioè che questo giusto sdegno mediatico fosse rivolto soprattutto ai grandi furbetti del fisco, a quelli che solo dall’Italia spostano più di 23 miliardi di euro all’anno in paradisi fiscali facendo gravare sul resto dei cittadini e delle imprese il peso delle loro strategie di elusione. Mi sarebbe piaciuto che i servizi con telecamere nascoste, come sono stati giustamente fatti nei Caf di Palermo, fossero organizzati anche negli uffici legali delle grandi capitali europee dei paradisi fiscali, come l’Olanda, il Lussemburgo o l’Irlanda, che anche se contano solo il 6% della popolazione dell’Unione monetaria, rappresentano circa la metà dell’elusione fiscale internazionale della grandi multinazionali.
Dico questo non per uno sterile benaltrismo, ma perché la richiesta di giustizia può arrivare a prendere le forme di un grande inganno o di uno stigma per le fasce meno abbienti, se essa non è ugualmente, e direi anche più intensamente, destinata ai grandi poteri finanziari del capitalismo internazionale.
Inoltre, se fosse giusto criticare un provvedimento di welfare solo perché alcuni potrebbero appropriarsene indebitamente, allora dovremmo arrivare ad abolire anche le pensioni di invalidità, l’esenzione del ticket per i redditi bassi, il bonus sulle bollette, e tutte le altre misure dirette e indirette di supporto al reddito. Altrimenti, se riteniamo che il welfare abbia ancora un significato politico da difendere, in questo mondo sempre più iniquo, dovremmo adoperarci affinché sia maggiormente inclusivo ed efficace, perseguendo ovviamente i vari e dannosi casi di infrazione.
Da giovane economista, in conclusione, mi piacerebbe che il mio Paese si unisse una volta tanto con il solo obiettivo di contribuire alla crescita morale ed economica dell’Italia, mettendo da parte le fazioni e i campanilismi politici. Abbiamo un Paese che è in un profondo stato di crisi da più di vent’anni, e che necessita di una grande politica di rilancio. Il Reddito di Cittadinanza è, come ogni altra cosa al mondo, potenzialmente sempre migliorabile, ma il principio a cui si ispira mi sembra vada nella giusta direzione di una maggiore equità e coesione sociale. Elementi di cui abbiamo estremamente bisogno in quest’epoca così complicata.
fonte: ComeDonChisciotte
Nessun commento:
Posta un commento