Dario Prestigiacomo,
L'Huffington Post
Flessibilità in cambio di flessibilità. La flessibilità sui conti pubblici in cambio di una maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro. E’ su questo scambio che l’Italia sta giocando la sua partita più importante in Europa. Una partita che è entrata nel vivo e che si concretizzerà nelle prossime settimane tra Roma, Milano (dove si terrà il prossimo Ecofin informale) e Bruxelles. Da un lato, c’è la richiesta del governo Renzi di poter ottenere dalla Commissione europea maggiori margini di flessibilità, ossia un allentamento dei vincoli di bilancio (in particolare per quanto riguarda il target di riduzione del debito pubblico). Si tratta di una richiesta che a Bruxelles, dopo anni di austerity senza se e senza ma, cominciano a prendere in considerazione, anche per la spinta delle diplomazie di altri stati membri (Francia in testa) contro la rigidità sui conti.
Ma l’Ue (e la Germania) vogliono qualcosa di concreto in cambio: “L’adozione e l’attuazione delle riforme strutturali”, dice una fonte vicina al commissario agli Affari economici, Jyrki Katainen. Che, tradotto per l’Italia, significa innanzitutto “riforma del mercato del lavoro”. Che sia questa la principale sfida lo ha fatto capire lo stesso presidente del Consiglio oggi in conferenza stampa: “Alla fine dei mille giorni il diritto del lavoro sarà totalmente trasformato e l’Italia sarà un Paese semplice in cui investire”. Come? “Con il contratto a tutele crescenti uno strumento su cui credo ci possa essere un'ampia maggioranza in ambito parlamentare”, ha spiegato il premier. Contratto che di fatto aggira il “tema un po’ ideologico” dell’articolo 18.
Per Renzi, bisogna prendere esempio da Berlino: “Dobbiamo smetterla di parlare male della Germania, sul lavoro la Germania è un modello, non un nostro nemico”. O forse, dicono a Bruxelles, il modello più adeguato potrebbe essere quello della Spagna, che negli ultimi anni ha varato una serie di riforme che hanno portato a contratti di lavoro più flessibili, licenziamenti più facili e procedure di fallimento più rapide. Non è un caso, forse, che la Merkel abbia eletto il governo Rajoy a partner privilegiato, tanto da spingere il ministro spagnolo Luis De Guindos al vertice dell’Eurogruppo. E non è un caso che proprio Madrid si sia potuta permettere sforamenti sul deficit senza rischiare grosse ripercussioni da Bruxelles.
Varrà lo stesso per l’Italia con il suo “obiettivo di medio termine”, ossia la riduzione del debito pubblico di nove-dieci miliardi entro il 2015? A Bruxelles, nessuno si sbilancia. Le ipotesi circolate in questi giorni (moratoria sul raggiungimento del target di debito, dimezzamento del taglio annuale del deficit strutturale) sollevano parecchie perplessità: “Si tratta di ipotesi cui non darei molto peso - dicono dalla Commissione Ue - Deve essere chiaro che le regole devono essere uguali per tutti, non si possono fare norme ad hoc. Il punto fondamentale è costituito dalle riforme strutturali. Che vanno adottate, ma anche attuate”. Su questa base, si può discutere un’eventuale “flessibilità”.
Il messaggio è velato ma chiaro: i paesi devono dare delle risposte concrete sulle riforme. Un messaggio che vale tanto più per l’Italia, che sconta anni di annunci senza seguito. Come nel 2011, quando Berlusconi ottenne l’aiuto della Merkel in cambio di una riforma del lavoro e un taglio alle tasse sulle imprese che non si sono più visti. A dirla tutta, anche con i governi che si sono succeduti dopo. E’ questa carenza di credibilità l’ostacolo più imponente nella partita di Renzi in Europa. Con il premier italiano, la Cancelliera ha mantenuto già una promessa: il sostegno alla nomina di Federica Mogherini all’Alta rappresentanza dell’Ue. La Merkel lo ha sottolineato sabato al vertice di Bruxelles. Adesso, spetta a Renzi mantenere le sue promesse sulle riforme. Quella sul lavoro in primis.
I tempi sono però stretti, se non strettissimi: la legge di Stabilità va presentata a Bruxelles entro metà ottobre. Con i parametri attuali e con la ripresa al palo, l’Italia rischia una manovra di lacrime e sangue. Basterà il piano dei “1000 giorni” a convincere Bruxelles e Berlino? Si vedrà nei prossimi giorni.
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