Era uno dei principali obiettivi sin dall'inizio e ci sono arrivati, forse un po' in ritardo rispetto ai tempi che si erano prefissati, ma ci sono arrivati. Chi ha capito il progetto dell'Unione Europea sa che le riforme del mercato del lavoro rappresentano lo strumento per ampliare la massa dei precari disposti a tutto e che, seppure con salari bassi e privi di risparmi, saranno costretti a comprare quei servizi essenziali (sanità, acqua, educazione, ecc.) che nel frattempo verranno privatizzati.
Noi tutti lo abbiamo capito da tempo, forse ora anche il sindacato?
In realtà anche il sindacato lo aveva capito da tempo solo che ora gli è impossibile girare la testa dall'altra parte.
In realtà anche il sindacato lo aveva capito da tempo solo che ora gli è impossibile girare la testa dall'altra parte.
In diversi lavori la MMT ha spiegato perché la linea di intervento "per superare la crisi bisogna lavorare sul lato dell'offerta" è sbagliata, perché il presupposto "per crescere uno Stato deve avere i conti a posto" è in realtà una superstizione e perché il modello export oriented a cui tende l'UE è folle.
Le riforme del mercato del lavoro hanno un impatto negativo sulla dinamica occupazionale ma anche un effetto disastroso da un punto di vista psicologico sul sentimento del lavoro di chi continuerà a lavorare. Chi come me viene dalle scienze sociali sta assistendo ad uno stravolgimento tale che potremmo anche chiamarlo la cancellazione del sentimento e della cultura del lavoro. È come una malattia e si manifesta tramite una serie di sintomi:
- la destabilizzazione. Il continuo dibattito sul mercato del lavoro serve a veicolare il messaggio "nessuno si senta più al sicuro"; in questo senso l'abolizione dell'art. 18 è simbolico per l'UE nel senso che è il simbolo giusto tramite cui mandare questo messaggio.
- la fine dei valori del lavoro, cioè quel valore personale che una lavoratore cerca nel lavoro e che è alla base della sua soddisfazione (sentirsi utile oppure fare carriera o lavorare in un bell'ambiente, ecc.). La cultura dell'austerità cancella la scelta e il desiderio nel lavoro: "è tanto se lo hai, UN lavoro" - ti viene detto - "non puoi pretendere che sia IL lavoro che vorresti". Per chi ha si ostina ad avere questo desiderio (meglio definito come PRETESA) è prevista la fustigazione, per chi non ha più questa pretesa è prevista la frustrazione.
- La morte bianca dell'utilità del lavoro: è stato ucciso l'orgoglio del fare un lavoro utile che proviene anche dal fatto che gli altri lo riconoscano come un lavoro utile (produzione, insegnamento, il lavoro delle forze dell'ordine, ecc.) che poi era l'essenza del "mestiere". Ma per lo Stato sotto scacco dei mercati finanziari garantire un lavoro non è più una priorità, figurarsi se si pone il problema di far fare cose utili alla collettività tanto il PIL è dato anche dalle attività illecite. Con la riforma degli ammortizzatori sociali quei lavoratori in cassa integrazione prima orgogliosi di aver fatto il PIL della nazione saranno costretti a accettare il primo lavoro utile proposto dalle agenzia di collocamento, cioè il primo che ti viene offerto, pena la fine del sussidio. Vedere oggi questo discorso di Roosevelt che parla del diritto delle persone ad avere un lavoro utile è come assistere a un documentario sul pianeta Marte.
In un contesto in cui aumentano le famiglie povere, difendere il diritto a esprimersi tramite il lavoro, per le proprie capacità e aspirazioni, è etichettato dalla cultura della scarsità come un'assurda pretesa ma a ben guardare così si sta demolendo un altro pezzo della civiltà europea, quella della cultura del lavoro.
L'austerità si porta dietro l'azzeramento della soggettività al lavoro cioè quel mondo di sentimenti e di relazioni che rendevano il lavoro una parte importante della vita delle persone (le relazioni con gli altri, le aspettative, le gratificazioni e delusioni).
Vale solo quanto sei disposto a fare un lavoro per un costo minore degli altri, a prescindere da quello che sei. E allora, scienziati sociali, psicologi del lavoro, sociologi, e così via: è o non è anche nostra la battaglia contro l'austerità?
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