di Ignacio Ramonet, da democraziakmzero.org
Tra due mesi, dal 22 al 25 maggio, gli elettori di tutta l’Unione europea andranno alle urne per eleggere i loro rappresentanti al Parlamento europeo. E’ importante che questa volta, al momento di deporre la loro scheda, essi sappiano chiaramente quali sono le poste in gioco. Per motivi legati sia alla storia che alla psicologia, in alcuni paesi (Spagna, Portogallo, Grecia, ecc.), molti cittadini – troppo felici di essere finalmente considerati “europei” – si sono raramente presi la pena di leggere i programmi. Hanno letteralmente votato alla cieca. Questa volta però la brutalità della crisi e le crudeli politiche di austerità attuate dall’Unione europea (Ue) hanno loro aperto gli occhi. Ormai sanno che è soprattutto a Bruxelles che si decide il loro destino.
A questo proposito, in vista delle elezioni europee, c’è un tema che gli elettori dovranno osservare molto da vicino: il progetto di partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTPI [ 1 ]) tra l’Unione europea e gli Stati uniti. Questo accordo viene attualmente negoziato nella massima discrezione, senza trasparenza democratica e nel silenzio complice dei grandi media. Esso mira a creare la più grande zona di libero scambio del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori, che rappresenterà quasi la metà del prodotto mondiale lordo (PIL) e un terzo del commercio globale. Provocherà un grande sconvolgimento. Progressi sociali e ambientali sono in pericolo. La più grande vigilanza civica si impone.
Per gli Stati Uniti, la questione della TTPI è particolarmente decisiva. Nel loro confronto strategico con la Cina, le autorità statunitensi vogliono portare nel loro giro d’affari tre aree principali che hanno a lungo dominato – Europa, America Latina, Asia-Pacifico – ma in cui Pechino si è solidamente insediata anche minacciando, qua e là, di espellerne gli Usa. La firma di TTPI sarebbe dunque, per Washington, una vittoria significativa.
L’Unione europea è la più grande economia del mondo; i suoi cinquecento milioni di abitanti dispongono di un reddito medio annuo pro capite di circa 25.000 euro. Ciò significa che l’Ue è il più grande mercato del mondo e il più importante importatore di manufatti e servizi. Essa ha il più alto volume di investimenti esteri, ed è la zona di accoglienza principale di investimenti esteri a livello mondiale. L’Ue è anche il più grande investitore negli Stati Uniti, la seconda destinazione per le esportazioni degli Stati Uniti e il più grande mercato per le esportazioni americane di servizi. La bilancia commerciale tra i due colossi è favorevole all’Ue (un surplus di 76,3 miliardi di euro). Ma quella dei servizi è in deficit (per 3,4 miliardi di euro). Investimenti diretti dell’Ue negli Stati Uniti sommate a quelle degli Stati uniti nell’Ue, toccano l’incredibile cifra di un enorme di 1,2 miliardi di miliardi di euro…
Washington e Bruxelles vorrebbero concludere l’accordo TTPI in meno di due anni, prima della fine del mandato del presidente Obama. Perché così in fretta? Perché, agli occhi degli Stati Uniti, ripetiamo, questo accordo ha una importanza geostrategica capitale. La firma rappresenterebbe un decisivo passo avanti per controbilanciare l’irresistibile ascesa della Cina. E, oltre la Cina, delle altre potenze emergenti riunite nei BRICS (Brasile, Russia, India, Sud Africa).
Poche cifre danno un’idea dell’importanza della minaccia cinese vista da Washington: tra il 2000 e il 2008, il commercio internazionale della Cina è quadruplicato. Le esportazioni sono aumentate del 474 per cento e del 403 per cento delle sue importazioni… Durante lo stesso periodo, al confronto, gli Stati Uniti hanno perso la loro posizione di prima potenza commerciale del mondo, una leadership che detenevano da un secolo… Prima della crisi finanziaria globale del 2008, gli Stati Uniti erano il principale partner commerciale di 127 paesi nel mondo, la Cina lo era solo per un po’ meno di 70 paesi. Oggi, Pechino è diventata il principale partner commerciale di 124 stati, mentre Washington lo è solo di circa 70 paesi… un rovesciamento della situazione spettacolare, e disastroso per gli Stati Uniti.
Cosa significa questo? Che Pechino, entro un periodo di circa dieci anni, potrebbe fare della sua moneta, lo yuan [ 2 ], l’altra grande valuta del commercio internazionale [ 3 ]. E minacciare così la supremazia del dollaro. Per altro, è sempre più evidente che le esportazioni cinesi non sono più fatte soltanto di prodotti di scarsa qualità a prezzi stracciati grazie al basso costo della sua forza lavoro. Ora l’obiettivo esplicito di Pechino è di alzare il livello tecnologico e la qualità dei suoi prodotti (e dei suoi servizi) per diventare, domani, leader nei settori (informatica, automobili, aeronautica, telefonia, nuove energie, finanza, ecc…), in cui gli Stati Uniti e altre potenze occidentali tecnologiche credevano di poter mantenere il monopolio all’infinito.
Per tutte queste ragioni, ed essenzialmente allo scopo di evitare che la Cina diventi troppo velocemente la prima potenza mondiale, Washington sta cercando di blindare a suo vantaggio immense aree di libero scambio alle quali l’accesso dei prodotti cinesi sarà se non impedito per lo meno reso più difficile.
Le poste in gioco sono quindi colossali. Poiché si tratta di una competizione (per il momento pacifica) tra due supercampioni per decidere quale dei due eserciterà l’egemonia globale nella seconda metà di questo secolo. Questo è il” grande gioco” geopolitico attuale. Gli Stati Uniti non sono pronti a cedere. Già, ufficialmente, per cercare di “contenere” la Cina, Washington ha deciso di concentrarsi sll’Asia, che è divenuta la sua area prioritaria geopolitica. Questo riorientamento e questo braccio di ferro con Pechino spiegano, in parte, certe ” turbolenze” geopolitiche attuali.
Ad esempio, in Medio Oriente, l’imperativo del ritiro degli Stati Uniti dall’Asia [ 4 ] (gli Usa si ritireranno definitivamente dall’Afghanistan alla fine di quest’anno, dopo aver fatto lo stesso in Iraq [ 5 ]) , li porta ad agire rapidamente: per sopprimere la minaccia militare rappresentata da alcuni rivali locali (il rovesciamento del colonnello Gheddafi in Libia; l’indebolimento duraturo del regime di Bashar Assad in Siria) o per disinnescare il rischio potenziale che potrebbe essere incarnato da altri avversari (gli accordi in corso con l’Iran, il rafforzamento dell’esercito libanese per contrastare Hezbollah).
Sui partner della Cina nei paesi BRICS – che costituiscono il “primo cerchio” di alleati strategici di Pechino – si può osservare che tutti ora si ritrovano indeboliti. La maggior parte di loro hanno avuto di recente gravi problemi monetari e finanziari. Non è un caso. Questi problemi sono dell’annuncio, fatto ne maggio 2013 dalla Federal Reserve degli Stati Uniti, che avrebbe posto gradualmente fine alla massiccia acquisizione di obbligazioni a lungo termine. Una decisione che porta ad un aumento dei tassi delle obbligazioni sovrane degli Stati Uniti [ 6 ]. Anticipando questo aumento e la prospettiva di profitti, gli investitori internazionali hanno rimpatriato massicciamente, verso gli Stati Uniti, liquidità colossali che avevano momentaneamente collocato nei mercati delle potenze emergenti.
Risultato: il valore delle valute di Brasile, Russia, India e Sud Africa noto (ma anche, tra gli altri, di Argentina e Turchia) è crollato [ 7 ] costringendo questi Stati a difendere le loro valute aumentando i tassi e sfruttando le loro riserve di valuta estera. Decine di miliardi che avrebbero potuto essere spesi per politiche sociali di sviluppo si sono così volatilizzati in pochi giorni. Tutte le “potenze emergenti” ora si trovano alle prese con una alta inflazione, l’aumento dei prezzi, ampi deficit, infrastrutture incompiute, crescita ridotta [ 8 ] …
Washington ha ricordato loro che il denaro è un’arma. E che il dollaro è ancora il più potente. Sarà sufficiente per l’America annunci un possibile aumento dei suoi tassi di interesse perché la “poteza” dei grandi emergenti, tanto vantata in questi ultimi anni, venga improvvisamente messa in discussione …
Quanto alla Russia (che, con la sua politica di sostegno a Damasco nel conflitto siriano, i suoi veti ripetuti alle Nazioni Unite a favore di Teheran, fa ostacolo al disimpegno americano in Medio Oriente), i recenti avvenimenti in Ucraina, con l’aggiunta dell’attitudine di Washington a favore dei manifestanti di Kiev, e il rovesciamento del presidente Viktor Yanukovich, alleato di Vladimir Putin, hanno messo in difficoltà Mosca – sarà un caso? – sui suoi stessi confini occidentali. Ciò che rischia di degenerare dopo che Mosca ha a sua volta preso posizione a favore della popolazione di lingua russa della Crimea secessionista. In sostanza, ecco per un periodo la Russia paralizzata, costretta a concentrarsi sulla difesa dei suoi interessi vitali, e a ridurre l’impegno su altri teatri dove disturbava le ambizioni degli Stati Uniti.
Ma gli Stati Uniti non cercano solo di indebolire gli alleati della Cina dei paesi BRICS, sembrano anche determinati a tornare in forza in quella che era stata per quasi un secolo la loro riserva di caccia: l’America Latina.
Dopo la guerra del Golfo (1991) e soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, Washington, sotto la presidenza di George W. Bush, aveva abbandonato il teatro latino-americano per impegnarsi in tre grandi conflitti in Medio Oriente (Iraq, Afghanistan e contro Al-Qaeda e il “terrorismo internazionale”). Questa “allontanamento” ha favorito in America Latina l’arrivo al potere, attraverso il processo elettorale, di una serie di governi progressisti. Ciò che non si era mai visto nella regione. A cominciare da quello di Hugo Chavez in Venezuela, seguito da quello di Inacio Lula da Silva in Brasile, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, Nestor Kirschner in Argentina, Tabaré Vazquez in Uruguay, etc.
In uno slancio per riconquistare la loro autonomia politica e ridurre la loro dipendenza economica, questi governi hanno marcato, in un modo o in un altro, la loro distanza da Washington. Ancora una volta, la Cina è diventata, agli occhi e alla barba dello Zio Sam, il principale partner commerciale per la maggior parte dei paesi latino-americani. Guidati da Chavez, Lula e Kirschner, questi stati hanno anche rifiutato un ampio accordo di partnership commerciale con gli Stati Uniti (l’Area di Libero Commercio delle Americhe, ALCA). Inoltre, diversi vertici si sono tenuti per incoraggiare le relazioni commerciali orizzontali (America Latina – Africa, America Latina – mondo arabo). E così gli accordi per rafforzare l’integrazione latinoamericana: Mercato comune del Sud (Mercosur), Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA), l’Unione delle nazioni del Sud (UNASUR), Comunità degli stati di America Latina e Caraibi (CELAC).
A questo proposito, il recente successo diplomatico del secondo vertice CELAC a L’Avana, a cui hanno partecipato 33 capi di stato e di governo, nonché il Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) e del Segretario Generale delle Nazioni Unite, è andato di traverso a Washington. Possiamo anche supporre che il tentato colpo di stato insurrezionale condotto in Venezuela dal 12 febbraio da una parte filo-americana dell’opposizione contro il governo di Nicolas Maduro, sia la risposta di Washington all’affronto umiliante che le ha imposto nel mese di gennaio la CELAC.
E’ solo di nuovo un caso se i governi latino-americani più attivi sull’integrazione, e dunque nella presa di distanza dagli Stati Uniti, si sono trovati recentemente a far fronte a varie difficoltà? Sommosse insurrezionali in Brasile e Venezuela, crisi monetaria in Argentina, acquisizione del controllo delle principali città dell’Ecuador da parte della destra [ 9 ]… Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno incoraggiato la creazione della Pacific Alliance, una comunità economica costituita dai paesi più vicini a Washington – Messico, Colombia, Cile, Perù (più, come osservatori, Costa Rica e Panama) – per controbilanciare il Mercosur.
A proposito del Pacifico, non va dimenticato che Washington sta negoziando attualmente con alcuni paesi della regione [ 10 ] un altro grande partenariato trans-pacifico di libero scambio (Trans Pacific Partnership, TPP, in inglese), fratello gemello asiatico partenariato trans-atlantico (TTPI).
Ma torniamo proprio al TTPI. Anche se esso è stato delineato negli anni novanta, Washington esercita pressioni, da qualche tempo, per accelerare le cose. Negoziati concreti sono iniziati subito dopo, nel Parlamento europeo, la destra e i socialdemocratici hanno accettato in via di principio l’accordo. Un rapporto preparato dal “Gruppo di lavoro di alto livello sull’occupazione e la crescita”, creato nel novembre 2011 da Ue e Stati Uniti, ha raccomandato l’avvio immediato dei negoziati.
Il primo incontro si è tenuto nel luglio 2013 a Washington, seguito da altre due riunioni in ottobre e dicembre dello stesso anno [ 11 ]. Attualmente, i negoziati sono sospesi [ 12 ] a causa di disaccordi all’interno della maggioranza democratica del Senato degli Stati Uniti [ 13 ], ma le due parti hanno deciso di firmare il TTPI il più presto possibile. Da tutto questo, i grandi media hanno parlato poco, nella speranza che il pubblico non diventi consapevole della posta in gioco e che i burocrati di Bruxelles possano decidere in tutta tranquillità e in totale opacità democratica.
Utilizzando il TTPI, gli Stati Uniti e l’Unione europea vogliono eliminare le barriere doganali ancora esistenti, nonché le “barriere non tariffarie” e aprire i loro mercati rispettivi agli investimenti, ai servizi e ai contratti pubblici. Vogliono soprattutto per omogeneizzare gli standard e le norme per commercializzare senza vincoliprodotti e servizi. Secondo i sostenitori di questo progetto di libero scambio, uno degli obiettivi della TTPI sarebbe “avvicinarsi il più possibile ad una totale eliminazione di tutte le tasse sul commercio transatlantico che riguardino prodotti industriali e agricoli”.
Per quanto riguarda i servizi, l’idea è di “aprire il settore dei servizi almeno tanto quanto ciò che è stato ottenuto in altri accordi commerciali finora”, ed estendere questo avanzamento ad altri settori come i trasporti, per esempio. A proposito degli investimenti finanziari, entrambe le parti aspirano a “raggiungere i più alti livelli di liberalizzazione e di protezione degli investimenti”. Infine, per quanto riguarda gli appalti pubblici, l’accordo vorrebbe che le aziende private abbiano accesso a tutti i settori dell’economia (compresa l’industria della difesa), senza alcuna discriminazione.
I grandi media appoggiano senza riserve questo partenariato neoliberista, tuttavia le critiche si sono moltiplicate, soprattutto da parte di alcuni partiti politici [ 14 ], di diverse ONG e da organizzazioni ambientaliste o di difesa dei consumatori. Ad esempio, Pia Eberhard, della ONG Corporate Europe Observatory, denuncia che i negoziati TTPI sono stati condotti senza trasparenza democratica e senza che le organizzazioni civiche fossero a conoscenza delle questioni specifiche su cui entrambe le parti sono già concordi: “Documenti interni della Commissione europea – segnala questa attivista – indicano che essa si è riunita nei momenti più importanti della negoziazione esclusivamente con i dirigenti delle imprese e le loro lobby. Non c’è una sola riunione con le organizzazioni ambientaliste, i sindacati, le organizzazioni di difesa dei consumatori [ 15 ]“. Eberhard teme una diminuzione dei requisiti normativi nell’industria alimentare: “Il pericolo – dice – è che gli alimenti non sicuri, importati dagli Stati Uniti, potrebbero contenere ancora di più organismi più geneticamente modificati (OGM), e c’è anche il problema dei polli disinfettati con cloro, un processo vietato in Europa”. E aggiunge che l’agricoltura industriale degli Stati Uniti così come gli allevatori d’oltremare esigono l’eliminazione degli ostacoli europei all’esportazione dei loro prodotti.
Alcuni collettivi di artisti temono le conseguenze di TTPI in materia di creazione culturale, di istruzione e di ricerca scientifica, in quanto si potrebbe applicare anche ai diritti di proprietà intellettuale. In questo senso, la Francia, è noto, per proteggere il suo importante settore audiovisivo è riuscita a imporre una “eccezione culturale”. In linea di principio, dunque, il TTPI non interesserà le industrie culturali. Ma per quanto tempo, quando conosciamo il potere delle major di Hollywood e dei nuovi conglomerati nati dalla fusione dell’informatica con la telefonia?
Diversi sindacati denunciano che il TTPI incoraggerà la “flessibilità sociale“, spingerà verso la riduzione dei salari e la distruzione dello stato sociale. Temono una riduzione del numero di posti di lavoro in diversi settori industriali (elettronica, comunicazioni, trasporto, metallurgia, industria della carta, servizi alle imprese) e agricoli (allevamento, agro-carburanti, zucchero).
Da parte loro, gli ambientalisti europei e i sostenitori della commercio equo spiegano che il TTPI, rimuovendo il principio di precauzione, potrebbe facilitare l’eliminazione di regolamenti ambientali o per la sicurezza alimentare e sanitaria. Altri stimano che il partenariato promuoverà l’introduzione in Europa del fracking e l’uso di sostanze chimiche pericolose per le acque sotterranee, nello sfruttamento di gas e petrolio di scisto [ 16 ].
Tuttavia, uno dei principali pericoli del TTPI è che include un importante capitolo sulla “protezione degli investimenti”. Ciò potrebbe consentire alle imprese private di denunciare gli stati, colpevoli ai loro occhi di voler difendere l’interesse pubblico, e di trascinarli davanti ai Tribunali internazionali di arbitrato (al soldo delle multinazionali). Ciò che è in gioco qui è semplicemente la sovranità degli stati e il loro diritto di condurre politiche pubbliche in favore dei propri cittadini.
Ma, agli occhi di TTPI, non esistono cittadini, ci sono solo consumatori. Ed essi appartengono alle società private che controllano i mercati.
La sfida è immensa. La volontà civica di fermare il TTIP non deve essere di meno.
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