Non aspettiamoci miracoli dalla riduzione del cuneo fiscale, che peraltro in Italia è inferiore a quella di Francia eGermania. Se per ridurre il costo del lavoro di 8-10 miliardi si pensa di tagliare la spesa pubblica, la manovra sarà un vantaggio solo per le aziende vocate all’export, mentre costituirà un handicap per quelle che si rivolgono al mercato interno, perché il taglio del budget statale colpirà ulteriormente i consumi, sostiene Guglielmo Forges Davanzati. Dato che la spesa pubblica «accresce i mercati di sbocco delle imprese che producono per mercati interni – prevalentemente imprese meridionali», il provvedimento «ha effetti redistributivi fra imprese e fra territori nelle quali operano». Chi esporta teme l’aumento della spesa pubblica, perché accresce l’occupazione e rafforza il potere contrattuale dei lavoratori. Al contrario, le imprese che producono per mercati locali «hanno interesse a un aumento della domanda interna, dal momento che ciò consente loro di acquisire più ampi mercati di sbocco».
Inoltre, aggiunge Davanzati in un’analisi di “Micromega”, non c’è da aspettarsi che la riduzione dello “spread” tra salario netto e salario lordo possa controbilanciare gli effetti recessivi derivanti da ulteriori tagli della spesa pubblica: «L’affetto espansivo sui consumi si avrebbe solo se si riducessero significativamente le imposte pagate dai lavoratori, non quelle pagate dalle imprese». Se l’importo mensile netto aggiuntivo nelle tasche di un lavoratore che percepisce 1.600 euro sarà di 50 euro, «non solo non c’è da attendersi una significativa ripresa dei consumi, ma soprattutto – per l’ulteriore dimagrimento del residuo di welfare rimasto in Italia – vi è semmai ragionevolmente da aspettarsi che i salari reali degli occupati non aumentino». In più, «una ripresa significativa dei consumi si avrebbe semmai se la riduzione del cuneo fiscale fosse attuata in una condizione di elevata occupazione (a ragione dell’ampia platea di beneficiari): il che, con ogni evidenza, non è la condizione attuale».
E neppure c’è da aspettarsi un aumento degli investimenti derivante da una riduzione dell’Irap, continua Davanzati, sia perché gli investimenti dipendono essenzialmente dalle aspettative di profitto, sia perché – come ampiamente sperimentato negli ultimi anni – nessun provvedimento di detassazione degli utili è in grado di stimolarli. Inoltre, «il cuneo fiscale non rappresenta un fattore rilevante per le decisioni di delocalizzazione delle imprese». In pratica, «non dovrebbe avere impatti significativi sull’attrazione di investimenti in Italia, né sulle delocalizzazioni di imprese italiane». Una causa rilevante della recessione italiana risiede semmai nella continua riduzione della produttività e nella sua “desertificazione produttiva”. «A fronte dei molti fattori che hanno prodotto questi esiti (che datano ben prima dell’adozione della moneta unica), è da evidenziare il fatto che la rinuncia all’attuazione di politiche industriali ha posto le imprese italiane nella condizione di poter vendere solo mediante strategie di competitività di prezzo, ovvero in assenza di innovazioni».
Problema: «La competitività di prezzo, in un paese importatore di materie prime e di macchinari, si traduce esclusivamente in compressioni salariali (e, più in generale, nel peggioramento delle condizioni di lavoro), il cui effetto è il calo della domanda interna e dell’occupazione». Nell’Eurozona, è nei paesi periferici (Italia inclusa) che i lavoratori occupati lavorano più ore: il primato spetta alla Grecia, ovvero al paese con i più bassi tassi di crescita. Paradossale: ci si aspetterebbe più crescita dove è più elevata l’intensità del lavoro, e più occupazione dove è minore il cuneo fiscale. «In Francia e Germania, un’ora di lavoro genera un incremento di produzione circa pari al 20% in più rispetto a un’ora lavorata in Italia e il tasso di occupazione è maggiore, nonostante questi paesi abbiano un cuneo fiscale e contributivo più elevato». Conclusione: ridurre il costo del lavoro non basta, né per accrescere l’occupazione né per migliorare la competitività delle imprese. E in una situazione in cui è inammissibile contrarre ulteriormente i salari, «la riduzione del cuneo fiscale è l’unica strategia percorribile per consentire alle nostre imprese di poter sperare di far profitti comprimendo i costi. Il che, in ultima analisi, significa che ridurre il cuneo fiscale costituisce un potente incentivo a indurle a perpetuare una modalità di competizione basata sulla compressione dei costi, ovvero un potente disincentivo a innovare».
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