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mercoledì 5 marzo 2014
Il pericolo Renzi tra propaganda e controriforme
di Pancho Pardi
Il passaggio alle Camere del nuovo presidente del consiglio conferma in modo plateale la sua natura di prodotto e soggetto televisivo. Parte della stampa va in brodo di giuggiole di fronte al fenomeno: è post ideologico, parla al paese e non alla casta...
Trascuriamo il fatto che Renzi è da tempo elemento storico della casta. Ha scalato la casta con le tecniche della casta. E se ha conquistato il PD ciò dipende non solo dalla sua indubbia capacità di politico di professione ma almeno altrettanto dai limiti e dalle incapacità del PD. Anzi è il PD il vero solo responsabile della sua resistibile ascesa, fino dai tempi in cui non ha saputo produrre un competitore efficace nella gara a sindaco di Firenze. Quanto ai tempi più recenti, bastava che il PD fosse in grado di impedire ai 101 franchi tiratori di impallinare la candidatura di Prodi. Tutto avrebbe potuto andare in modo diverso. Ma con ogni evidenza il PD non ha voluto, saputo, potuto farlo.
Consumato questo atto che ha prodotto il ritorno di Napolitano al Quirinale (cosa di cui il PD mi sembra assai più responsabile di Napolitano stesso) la presidenza Letta è stata rapidamente insidiata dalla volontà del PD di consegnarsi alla volontà di Renzi.
Renzi stesso può sostenere, con somma improntitudine ma anche con qualche verità, che il suo partito stesso gli ha chiesto di venir meno alla promessa solenne di non aspirare a Palazzo Chigi senza passare attraverso il vaglio elettorale. Quale potenza ideale avesse la richiesta è tuttora oggetto di dibattito. Ma è difficile sottrarsi alla sensazione che di tutti i moventi immaginabili uno fosse il più irresistibile: la convinzione diffusa tra tutti i parlamentari, ma in particolare tra quelli del PD, che la presidenza Letta non avesse alcuna probabilità di giungere al termine della legislatura e che invece una presidenza Renzi avesse maggiori possibilità. Ora i parlamentari, e in particolare quelli del PD, sono accontentati. I malumori interni non vanno sopravvalutati: giacciono sul piano dell'intesa comune per la continuità della legislatura. A quel preciso prezzo. Nessuno lo giudica fuori mercato. Tutti gli interessati se ne sono fatti una ragione.
Ma tutto ciò fa parte del passato ed è inutile perdere tempo in rimpianti.
Ora abbiamo di fronte l'attualità. Il presidente del consiglio propina alle Camere un comizio retorico sul coraggio e la trasparenza (parole chiave che d'ora in poi andranno accuratamente demistificate) e sta bene attento a mantenersi nel vago sui punti di programma e sui mezzi per attuarlo. È vero: non parla alle Camere, parla al paese. E al paese si rivolge come a un pubblico televisivo: frasi a effetto e niente cifre. Linguaggio della propaganda con cui alla fine il soggetto fa perno su sé stesso: dobbiamo riuscire perché se non riusciamo la colpa sarà mia. E siccome il principio egotistico proprio ciò esclude, la sua conclusione è che riuscirà senz'altro.
Molti commentatori hanno già messo in evidenza come il governo si riduca al suo presidente. La retorica sulla squadra di governo è consueta concessione al gergo calcistico, ma la sua forza collettiva si raccoglie e si esprime tutta nella persona del presidente.
I cittadini di centrosinistra hanno lottato per venti anni contro Berlusconi per ottenere alla fine solo che il loro schieramento sia guidato da un altro perfetto pubblicitario di sé stesso? E dovrebbero essere soddisfatti perché la sua prassi è post ideologica? Che cosa c'è di più ideologico della sostituzione della forza collettiva con il primato del capo?
È curiosa la convergenza di gran parte della stampa su una certezza che rafforza, volontariamente o no, il suo primato. Molti editorialisti, anche tra i più intelligenti, si sbracciano a dire che Renzi è l'ultima risorsa. Se fallisce lui, l'Italia è finita. La prospettiva apocalittica non coglie la banalità del presente: se non riesce un sindaco perché non potrebbe provarci un altro? Ce ne sono tanti. O l'Italia è pronta a concedere fiducia solo a chi ha smisurata fiducia in sé stesso? La dismisura non dovrebbe generare un po' di sana diffidenza? Quanto al carisma effettivo di Renzi corre facile una battuta a Firenze: il Renzi? Se si va giù al bar te ne trovo dieci.
In breve tempo si vedrà se il tocco carismatico saprà incidere sulla situazione economica e sociale. Il primo segno non è incoraggiante. Rivendicare la centralità della scuola con qualche finanziamento per l'edilizia scolastica è una scelta che può garantire un calendario di inaugurazioni televisivamente assistite, ma trascura il punto centrale: gli insegnanti sono pagati troppo poco. Certo, per questo ci vogliono molti più soldi. Alla fine pare che gli insegnanti debbano accontentarsi di essere pagati con qualche chiacchiera di stima.
Comunque promesse impegnative richiedono misure efficaci e risultati solidi. È vero che Berlusconi non ne ha mantenuta una sola in venti anni e non è caduto per questo. Ma è anche vero che aveva la proprietà delle sue reti e il controllo delle reti pubbliche, mentre Renzi dovrà riuscire a ottenerne la benevolenza.
Altro banco di prova sono le riforme di carattere istituzionale. Con la legge Calderoli modificata dalla Corte Costituzionale in senso puramente proporzionale si può benissimo andare al voto, ma quasi tutti lamentano che, con la presenza dei tre poli, esito inevitabile sarebbero nuove larghe intese (va da sé: tra PD e centrodestra, dato il rifiuto dei 5 Stelle).
Dunque è necessaria una diversa legge elettorale. Quella prodotta dalla profonda sintonia tra Berlusconi e Renzi non ha ancora una versione definitiva. Ma giudicata sulla base del testo attuale, a detta di molti esperti, presenta prima di tutto un vuoto tecnico: non si capisce come i voti si trasformino in seggi. Di più: candidati più votati in una circoscrizione potrebbero essere privati del seggio da candidati meno votati in altre circoscrizioni. In vistoso contrasto con la Costituzione che prescrive il voto eguale.
La permanenza delle liste bloccate non risponde alla critica della Consulta. Il fatto che siano brevi non elimina la censura. L'elettore avrà davanti comunque liste bloccate.
La compresenza di alte soglie di sbarramento (4,5 8 e 12 per cento) per l'ingresso nelle assemblee elettive e la bassa soglia per l'accesso al premio di maggioranza (37 per cento) combinata con l'alto premio di maggioranza necessario a superare il 50 per cento (15 per cento) aumentano in modo enorme la mancanza di proporzioni tra voti e seggi.
È stato calcolato che, tenendo conto della probabile astensione dal voto, una lista che prendesse solo il 25 per cento dei voti, sul totale degli aventi diritto al voto, otterrebbe più del 50 per cento dei seggi. Un quarto reale del corpo elettorale avrebbe da solo più della metà della Camera, mentre tutti gli altri elettori sarebbero rappresentati da meno dell'altra metà: la maggioranza sarebbe ridotta a minoranza coatta. Autentica negazione del principio del voto eguale. D'altra parte al Senato, a causa del premio di maggioranza calcolato su base regionale, resterebbe in piedi il rischio di una maggioranza parlamentare diversa da quella della Camera.
Tutto ciò è sufficiente per innescare ricorsi a raffica che alla fine potrebbero produrre una nuova diagnosi di incostituzionalità da parte della Consulta nei confronti di una legge che è stata battezzata spiritosamente Riporcellum.
C'è poi il rilievo politico non trascurabile per il centrosinistra. Se l'intenzione di Berlusconi e Renzi di indebolire i piccoli partiti avesse successo l'effetto andrebbe tutto a favore del centrodestra. Per un motivo elementare: privato dei partiti piccoli, l'elettore di centro destra finirà per votare comunque Berlusconi, mentre, offeso dalla privazione dei partiti piccoli, l'elettore di sinistra potrebbe rifiutarsi di votare per chi lo ha privato della rappresentanza. Non sarebbe una novità: Veltroni perse le elezioni del 2008 proprio per questo motivo.
La questione della legge elettorale è poi legata al destino delle nuove modifiche costituzionali. Più in particolare la riforma del bicameralismo. È vero che con la nuova legge elettorale promulgata si può tornare al voto a bicameralismo invariato e lasciare alle nuove Camere il compito di modificarlo. Ma se, come ormai quasi tutti sostengono, si deve togliere al Senato la facoltà di esprimere voto di fiducia al governo e trasformarlo in Camera delle autonomie, allora diventa ragionevole sostenere che prima di applicare la nuova legge elettorale bisognerebbe riformare il Senato. Inevitabile allungamento dei tempi: la modifica costituzionale secondo l'articolo 138 richiede due passaggi nelle due Camere e i tempi di entrambi i passaggi non sono determinabili a priori. Questa logica appare preferibile a tutti coloro che desiderano la durata della legislatura fino al suo limite naturale del 2018. Chi invece volesse affrettare i tempi dovrebbe far accettare agli altri o la possibilità di votare prima della riforma del Senato o la fretta più incalzante nel compimento di quella riforma.
Resta aperto il problema di quale riforma del Senato. Quella che Renzi ha sbrigativamente presentato ai suoi interlocutori è ancora un abbozzo. L'unica cosa chiara è l'assenza dell'elezione diretta. E ciò è in armonia con la volontà di dare alla sola Camera dei deputati la facoltà della fiducia al governo. Ma per il contenuto è un discreto mostriciattolo. La futura Camera delle autonomie sarebbe formata da 108 sindaci dei comuni capoluogo, da 25 delegati delle regioni e da 25 esponenti della società indicati dal presidente della repubblica. Verdone direbbe: famolo strano. Si ha il diritto di sperare che il dibattito in commissione e in aula in entrambe le Camere attuali abbia la serietà di proporre qualcosa di meno occasionale.
Accanto alla riforma del Senato c'è poi quella del Titolo V della seconda parte della Costituzione. Che si debba modificare la stesura voluta a tutti i costi dal centrosinistra poco prima di perdere le elezioni del 2001 (quando avrebbe impiegato meglio le sue ormai scarse energie nella redazione di una seria legge sul conflitto d'interessi) è opinione comune e assai diffusa. È da allora che la Consulta deve rimediare i danni di una sistemazione sgangherata dei rapporti tra Stato e regioni. Ma modificare il Titolo V è cosa piuttosto complicata in sé e richiede in più una chiara definizione dei ruoli del nuovo Senato. Quindi anche la riforma del Titolo V ha necessità di tempi non brevi. Chi vuole racconti pure che si fa alla svelta.
È ormai luogo comune giornalistico che Renzi ha due maggioranze. Con quella che lo sostiene con la fiducia deve governare e quindi affrontare la situazione economica. Con l'altra, ovvero con Berlusconi, vorrebbe fare le riforme istituzionali, legge elettorale e riforma costituzionale. Vorrebbe procedere a passo di carica ma non è detto che gli riesca. È abbastanza chiaro che la profonda sintonia con Berlusconi rischia, come si è appena visto, di attribuire al partito del pregiudicato un serio vantaggio nella futura competizione elettorale.
Ma la sintonia ha altre conseguenze. Il governo Renzi vorrà-potrà fare una legge sul conflitto d'interessi? Se ne può dubitare. Come tratterà il regime delle concessioni televisive e le attribuzioni delle frequenze? Si può immaginare che la sintonia non detterà norme e regolamenti? Si vedrà intanto a quale sottosegretario toccherà la delega per le telecomunicazioni.
Poi c'è il capitolo giustizia. Anche qui i segni non sono incoraggianti. Cos'è questa storia del derby sulla giustizia? Con la metafora calcistica Renzi vuole sostenere che la difesa dell'autonomia della magistratura fa pari con le leggi ad personam di Berlusconi? Interesse pubblico e stretto interesse privato si equivalgono?
Legge elettorale incostituzionale, riforme costituzionali dilettantesche e pasticciate, concessioni a Berlusconi sul regime delle reti televisive e sulla giustizia formano un corpo malefico contro cui è necessario che i cittadini di centrosinistra si preparino a una nuova fase di protagonismo politico. La spossatezza generata dal ventennio può far indulgere al desiderio di delega. Ma delegare la politica a un genio della pubblicità può essere letale.
Il suo stesso uso del linguaggio dovrebbe dare l'allarme. A chi gli rimproverava di aver usato nell'aula il linguaggio del comizio popolare ha risposto che lui rivendica il diritto di parlare allo stesso modo fuori e dentro il Parlamento. Egli stesso, senza rendersi conto, ha affermato di voler usare in entrambi i casi il linguaggio della propaganda e non quello della chiarezza programmatica.
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