In un paper appena pubblicato, il noto economista olandese Servaas Storm, tutt’altro che radicale, si occupa delle cause della “lunga crisi” italiana. La sua conclusione è lapidaria: «Nello studio, dimostro empiricamente come la recessione italiana debba considerarsi una conseguenza del nuovo regime economico post-Maastricht adottato dall’Italia a partire dai primi anni Novanta».
Storm nota come fino ai primi anni Novanta l’Italia abbia goduto di trent’anni di robusta crescita economica, durante i quali è riuscita a raggiungere il Pil pro capite delle altre nazioni principali della futura zona euro (soprattutto Francia e Germania).
Da allora, però, «è iniziato un costante declino che ha letteralmente cancellato trent’anni di convergenza». Al punto che oggi il divario tra il Pil pro capite italiano e quello degli altri paesi europei è pari se non addirittura inferiore a quello che era negli anni Sessanta.
Tutti gli altri principali indicatori economici hanno registrato lo stesso crollo: reddito pro capite, produttività, investimenti, quote del mercato mondiale, ecc.
«Non è un caso – scrive Servaas Storm – che la repentina inversione delle fortune economiche dell’Italia si sia verificata in seguito all’adozione della “sovrastruttura politica e giuridica” imposta dal Trattato di Maastricht, che ha spianato la strada alla creazione dell’UME nel 1999 e all’introduzione della moneta unica nel 2002. Come mostro nel paper, l’Italia è stata l’allievo modello della zona euro, impegnandosi nell’implementazione dell’austerità fiscale e delle riforme strutturali che rappresentano l’essenza delle regole macroeconomiche dell’UME con maggiore veemenza e solerzia di qualunque altro paese dell’eurozona – molto più di Francia e Germania. E ha pagato un prezzo molto alto: il consolidamento fiscale permanente, la persistente moderazione salariale e il tasso di cambio sopravvalutato hanno distrutto la domanda interna italiana, e la carenza di domanda, a sua volta, ha asfissiato la crescita della produzione, della produttività, dell’occupazione e dei redditi. L’operazione è stata un successo, ma purtroppo il paziente è morto».
Per mostrare quanto sia stata radicale «l’austerità fiscale permanente» perseguita dall’Italia negli ultimi decenni, Storm traccia un confronto tra Italia e Francia: tra il 1995 e il 2008, l’Italia ha registrato un avanzo di bilancio primario del 3 per cento circa in media, rispetto ad un deficit primario dello 0,1 per cento della Francia nello stesso periodo.
In pratica, nel periodo in questione, «lo Stato francese ha fornito all’economia uno stimolo fiscale pari a 461 miliardi di euro, mentre lo Stato italiano ha drenato dall’economia 227 miliardi. … Non oso immaginare che forma avrebbero assunto le proteste dei gilet gialli se la Francia avesse praticato un consolidamento fiscale pari a quello dell’Italia».
Storm mostra come il regime post-Maastricht abbia anche comportato anche una moderazione salariale (leggasi: guerra di classe) senza pari.
L’economista mostra come tra gli anni Sessanta e i primi anni Novanta il divario tra i salari reali italiani e quelli degli altri principali paesi europei si sia progressivamente ridotto fino a scomparire del tutto. Da quel momento in poi la forbice ha cominciato ad allargarsi nuovamente e – incredibilmente – oggi è più grande di quanto non fosse negli anni Sessanta. Come nel caso del PIL pro capite, trent’anni di convergenza spazzati via da trent’anni di Maastricht.
Storm nota come fino ai primi anni Novanta l’Italia abbia goduto di trent’anni di robusta crescita economica, durante i quali è riuscita a raggiungere il Pil pro capite delle altre nazioni principali della futura zona euro (soprattutto Francia e Germania).
Da allora, però, «è iniziato un costante declino che ha letteralmente cancellato trent’anni di convergenza». Al punto che oggi il divario tra il Pil pro capite italiano e quello degli altri paesi europei è pari se non addirittura inferiore a quello che era negli anni Sessanta.
Tutti gli altri principali indicatori economici hanno registrato lo stesso crollo: reddito pro capite, produttività, investimenti, quote del mercato mondiale, ecc.
«Non è un caso – scrive Servaas Storm – che la repentina inversione delle fortune economiche dell’Italia si sia verificata in seguito all’adozione della “sovrastruttura politica e giuridica” imposta dal Trattato di Maastricht, che ha spianato la strada alla creazione dell’UME nel 1999 e all’introduzione della moneta unica nel 2002. Come mostro nel paper, l’Italia è stata l’allievo modello della zona euro, impegnandosi nell’implementazione dell’austerità fiscale e delle riforme strutturali che rappresentano l’essenza delle regole macroeconomiche dell’UME con maggiore veemenza e solerzia di qualunque altro paese dell’eurozona – molto più di Francia e Germania. E ha pagato un prezzo molto alto: il consolidamento fiscale permanente, la persistente moderazione salariale e il tasso di cambio sopravvalutato hanno distrutto la domanda interna italiana, e la carenza di domanda, a sua volta, ha asfissiato la crescita della produzione, della produttività, dell’occupazione e dei redditi. L’operazione è stata un successo, ma purtroppo il paziente è morto».
Per mostrare quanto sia stata radicale «l’austerità fiscale permanente» perseguita dall’Italia negli ultimi decenni, Storm traccia un confronto tra Italia e Francia: tra il 1995 e il 2008, l’Italia ha registrato un avanzo di bilancio primario del 3 per cento circa in media, rispetto ad un deficit primario dello 0,1 per cento della Francia nello stesso periodo.
In pratica, nel periodo in questione, «lo Stato francese ha fornito all’economia uno stimolo fiscale pari a 461 miliardi di euro, mentre lo Stato italiano ha drenato dall’economia 227 miliardi. … Non oso immaginare che forma avrebbero assunto le proteste dei gilet gialli se la Francia avesse praticato un consolidamento fiscale pari a quello dell’Italia».
Storm mostra come il regime post-Maastricht abbia anche comportato anche una moderazione salariale (leggasi: guerra di classe) senza pari.
L’economista mostra come tra gli anni Sessanta e i primi anni Novanta il divario tra i salari reali italiani e quelli degli altri principali paesi europei si sia progressivamente ridotto fino a scomparire del tutto. Da quel momento in poi la forbice ha cominciato ad allargarsi nuovamente e – incredibilmente – oggi è più grande di quanto non fosse negli anni Sessanta. Come nel caso del PIL pro capite, trent’anni di convergenza spazzati via da trent’anni di Maastricht.
Storm pone anche l’accento sulla natura di classe di questo processo (cioè su come il “vincolo esterno” di Maastricht sia stato lo strumento col quale i capitalisti nostrani hanno spezzato le reni dei lavoratori italiani, come spiego in Sovranità o barbarie): tra il 1991 e il 2008 la quota profitti dell’Italia – già superiore alla media europea – è passata dal 36 al 40 per cento. Un dato che sarebbe il caso di ricordare ai sindacati che firmano appelli – per l’Europa! – insieme a Confindustria perché “siamo tutti sulla stessa barca”.
Come spiega Storm, la guerra condotta ai lavoratori negli ultimi decenni è stata così feroce che i capitalisti hanno finito per segare il ramo su cui sedevano. Come scrive Storm, «seguendo pedissequamente le regole macroeconomiche europee, l’Italia ha determinato una carenza cronica di domanda interna. Questa è il risultato dell’austerità fiscale permanente, del persistente contenimento dei salari e della mancanza di competitività tecnologica delle imprese italiane [acuita dal crollo degli investimenti, a sua volta determinato dalla domanda carente], che, in combinazione con un tasso di cambio sopravvalutato, riduce la capacità delle imprese italiane di mantenere le loro quote di mercato a fronte della concorrenza dei paesi a basso reddito. Questi tre fattori stanno deprimendo la domanda; riducendo l’utilizzazione degli impianti e danneggiando gli investimenti, l’innovazione e la crescita della produttività, bloccando dunque il paese in uno stato di declino permanente, caratterizzato dall’impoverimento costante della matrice produttiva dell’economia italiana e della qualità dei suoi flussi commerciali».
La soluzione per Storm sarebbe ovvia: grandi investimenti pubblici e politiche industriali per promuovere l’innovazione, l’imprenditorialità e una maggiore competitività tecnologica. Peccato, scrive l’economista, che questo approccio sia del tutto «incompatibile con il rispetto delle regole macroeconomiche dell’UME» e più in generale con l’architettura economico-politica europea.
Alla luce di tutto ciò, cosa fanno i sindacati e le sinistre? Continuano a invocare “più Europa”. Ormai la cosa non fa più neanche ridere; fa solo incazzare.
Come spiega Storm, la guerra condotta ai lavoratori negli ultimi decenni è stata così feroce che i capitalisti hanno finito per segare il ramo su cui sedevano. Come scrive Storm, «seguendo pedissequamente le regole macroeconomiche europee, l’Italia ha determinato una carenza cronica di domanda interna. Questa è il risultato dell’austerità fiscale permanente, del persistente contenimento dei salari e della mancanza di competitività tecnologica delle imprese italiane [acuita dal crollo degli investimenti, a sua volta determinato dalla domanda carente], che, in combinazione con un tasso di cambio sopravvalutato, riduce la capacità delle imprese italiane di mantenere le loro quote di mercato a fronte della concorrenza dei paesi a basso reddito. Questi tre fattori stanno deprimendo la domanda; riducendo l’utilizzazione degli impianti e danneggiando gli investimenti, l’innovazione e la crescita della produttività, bloccando dunque il paese in uno stato di declino permanente, caratterizzato dall’impoverimento costante della matrice produttiva dell’economia italiana e della qualità dei suoi flussi commerciali».
La soluzione per Storm sarebbe ovvia: grandi investimenti pubblici e politiche industriali per promuovere l’innovazione, l’imprenditorialità e una maggiore competitività tecnologica. Peccato, scrive l’economista, che questo approccio sia del tutto «incompatibile con il rispetto delle regole macroeconomiche dell’UME» e più in generale con l’architettura economico-politica europea.
Alla luce di tutto ciò, cosa fanno i sindacati e le sinistre? Continuano a invocare “più Europa”. Ormai la cosa non fa più neanche ridere; fa solo incazzare.
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