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venerdì 22 novembre 2013

Buona occupazione e reddito minimo vanno insieme



di Antonella Stirati, da economiaepolitica.it
In questo periodo il reddito minimo garantito è nuovamente al centro del dibattito politico. La premessa necessaria a qualsiasi riflessione sulla politica sociale ed economica è che l’austerità è insostenibile, e che entro il quadro già deliberato per i prossimi anni e sancito dai trattati l’Italia è destinata al disastro economico e sociale e non è quindi possibile ritenere che si possano portare avanti riforme del welfare significative e progressiste.
Esiste una certa varietà lessicale che può generare confusione, definirò quindi di volta in volta cosa intendo indicare con i vari termini.

Un reddito di cittadinanza inteso come un reddito assolutamente universale fornito a tutti gli individui maggiorenni compresi gli occupati avrebbe un costo del 20% del PIL per 500 euro mensili erogati a persona (il 40% del Pil per una somma erogata doppia) Non sarebbe quindi sostenibile economicamente, a meno di smantellare quasi completamente i servizi pubblici – sanità, istruzione, trasporto locale - sostituendoli con quel trasferimento monetario, cosa questa che a mio parere renderebbe il mondo peggiore, non migliore, e francamente non apre a prospettive anche ‘utopiche’ interessanti.
Preferisco quindi discutere di ipotesi di reddito minimo garantito, cioè di un reddito assicurato a persone non occupate e la cui erogazione può essere soggetta a criteri definiti in base al reddito, la disponibilità a lavorare o altri.

Intorno alle proposte di reddito minimo vi è una insolita convergenza tra ‘movimenti’ radicali e ed economisti liberisti. I ‘radicali’ sembrano vedere in questa proposta (o in quella considerata più avanzata, di reddito di cittadinanza) la possibilità di una ‘liberazione dal lavoro’ oppure la possibilità di una radicale trasformazione dei rapporti di forza in un sistema non più in grado di garantire buona occupazione. Credo che tali posizioni siano piuttosto ingenue e velleitarie da un lato (questo singolo provvedimento non può cambiare così profondamente le cose – e se lo facesse, non passerebbe mai!) e dall’altro accettino troppo rapidamente come ineluttabile la crescente precarizzazione e disoccupazione che sono invece il risultato di scelte politiche progressivamente compiute nei paesi industrializzati a partire dalla fine degli anni ’70.

Il modo appropriato di guardare alla questione del reddito minimo è pensarlo come una riforma progressista del welfare, come tale auspicabile, che va nella direzione di un suo ampliamento e non solo di un cambiamento nella composizione dei trasferimenti e delle prestazioni.

In Italia sembra esserci una contrapposizione tra chi sostiene la necessità di forme di reddito minimo garantito sulla base della convinzione che il sistema economico non possa più essere in grado di garantire una buona e piena occupazione, e chi ritiene invece che la priorità sia appunto garantire l’accesso al lavoro, e da questo punto di vista avversa l’idea di trasferimenti monetari come ‘compensazione’ per l’impossibilità di accedere ad un lavoro.

A questo riguardo è molto importante ricordare che storicamente sistemi di welfare generosi, anche nel garantire un reddito, si sono sviluppati in associazione ad un insieme di istituzioni e politiche macroeconomiche volte al mantenimento di elevati livelli di occupazione e bassa disoccupazione con strumenti di tipo Keynesiano e socialdemocratico: politiche della domanda aggregata, redistributive, politiche industriali e del commercio con l’estero (è così nei paesi nord-Europei compresa la citatissima Danimarca e, in grado un po’ minore, nell’Europa continentale). Le due cose – sistemi di welfare generosi e politiche di pieno impiego – si sostengono a vicenda. Un livello elevato di occupazione è necessario a consentire la sostenibilità economica, ma anche politica e sociale del welfare in generale e in particolare di forme di reddito garantito a chi non lavora. D’altro lato l’esistenza del welfare e di trasferimenti di reddito rilevanti è un fattore che contribuisce significativamente al sostegno della domanda aggregata, e quindi al mantenimento di elevati livelli di occupazione.

In presenza di elevata disoccupazione e bassi tassi di occupazione, come avviene in Italia soprattutto nel Sud, un sistema ampio e generoso di trasferimenti diventa di difficile realizzazione in generale – e impossibile nel quadro di accettazione dei vincoli di bilancio pubblico e delle politiche di austerità.
Dunque politiche per l’occupazione e politiche di ampliamento del welfare non vanno viste in contrapposizione/alternativa ma come necessariamente intrecciate e complementari.

In un certo senso, molti tra i fautori ‘moderati’ e liberisti di un reddito minimo tengono conto del problema della sostenibilità di un sistema di trasferimenti solo in presenza di elevata occupazione, dandone però una soluzione che è errata: si tratta della proposta di coniugare trasferimenti di reddito (ai poveri, ai disoccupati) con una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Si sostiene infatti che quest’ultima potrebbe consentire una riduzione della disoccupazione. E’ proprio nella possibilità di coniugare il reddito minimo con maggiore flessibilità del mercato del lavoro che va ricercata una delle ragioni, forse la principale, del consenso oggi di molti liberisti e moderati su proposte di reddito minimo.

Tuttavia ormai numerosissimi studi empirici hanno mostrato che la flessibilità del mercato del lavoro e la connessa maggiore flessibilità del salario non sono associati né ad una minore disoccupazione complessiva né ad una minor disoccupazione giovanile[1]. E anzi alcuni studi mostrano che i paesi con maggiori protezioni all’impiego sono anche i paesi che, nella recente crisi, hanno avuto una performance migliore (cfr ad esempio Tridico, 2013)[2].

Il necessario intreccio tra politiche di piena occupazione e reddito garantito non può quindi essere risolto dal binomio reddito e flessibilità, come proposto da molte parti, ma può essere affrontato solo con un ritorno della politica economica al perseguimento dell’obiettivo della piena occupazione con un insieme di strumenti di politica macroeconomica e industriale.

Riferimenti bibliografici
David Howell, Dean Baker, Andrew Glyn, John Schmitt (2007) Are protective labour market institutions at the root of unemployment? A critical review of the evidence, Capitalism and Society, vol 2 n. 1.
Antonella Stirati (2008), La flessibilità del mercato del lavoro e il mito del conflitto tra generazioni, in Paolo Leon e Riccardo Realfonzo (curatori) L’economia della precarietà, Il Manifestolibri, Roma.
Antonella Stirati (2012), Crescita e ‘riforma’ del mercato del lavoro, in Sergio Cesaratto e Massimo Pivetti (curatori) Oltre l’Austerità, ebook, Micromega-on-line.
Pasquale Tridico (2013), The impact of economic crisis on eu labor market: a comparative perspective, International Labour Review, n. 2.

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