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giovedì 14 novembre 2013

Ancora privatizzazioni?



di Duccio Valori*, da altreconomia.it

Per riportare il deficit di bilancio sotto il 3% del Pil, si parla di nuovo di privatizzazioni. Non che resti gran che da privatizzare: una quota di Eni, Terna, Rai, Fincantieri, oltre ad un consistente patrimonio immobiliare pubblico. In quest’ultimo caso, però, per non ricadere nei gravissimi problemi che hanno caratterizzato tutte le non poche precedenti decisioni in tal senso, si è preferito cedere in blocco le proprietà a Tecnofin, che da un lato garantisce il pagamento, dato che appartiene a Cassa depositi e prestiti (Cdp), ma dall’altro si troverà inevitabilmente in possesso di un portafoglio immobiliare non solo invendibile, ma anche certamente oneroso. E, a deporre in questo senso, ci sono tutti i precedenti tentativi di “smobilizzare” il patrimonio immobiliare pubblico.

Ma una riflessione la meritano anche i piani di privatizzazione delle maggiori società ancora controllate dal Tesoro, direttamente o attraverso Cdp.
Quando - alcuni decenni or sono - si cominciò a parlare di privatizzazioni, si sostenne che queste sarebbero servite:
a) a ridurre il debito pubblico;
b) a dare nuovo impulso all’imprenditorialità privata, soffocata dai “lacci e lacciuoli”dell’ingombrante presenza pubblica; in altri termini, “meno Stato e più mercato”.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il debito pubblico non solo non è diminuito, ma ha continuato ad aumentare; le meraviglie dell’imprenditorialità privata si chiamano Telecom, Alitalia, Ilva e via dicendo. Con la liquidazione dell’Ente Partecipazioni e Finanziamento Industrie Manifatturiere (Efim), sono andate in crisi anche l’Alsar, oggi Alcoa, la Firestone Brema, oggi (o ieri?) Bridgestone, ecc.

Sola eccezione, le banche: la Bnl è stata acquisita dalla francese Paribas, e le tre banche d'interesse nazionale (COMIT, Credito Italiano e Banca di Roma) a seguito di una serie di fusioni e riorganizzazioni si sono cartellizzate. E tutto questo per non parlare dell’attuale crisi, in buona parte determinata ed alimentata dal comportamento delle stesse banche.

Molti anni fa, con grave scandalo di Romano Prodi e del compianto Tarantelli, dimostrai che il sistema delle partecipazioni statali versava allo Stato, in termini di Inps e di Irpef, più di quel che riceveva a titolo di fondi di dotazione. In sostanza, gli occupati eccedentari (e che non sapevano di esserlo) davano allo Stato più di quel che ricevevano, e allo stesso tempo, avevano, o credevano di avere, un lavoro decente. Oggi, che si è privatizzato quasi tutto il privatizzabile, si verifica l’esatto contrario: avendo i privati ridotto di parecchie migliaia gli occupati, il gettito per lo Stato si è contratto; e, con le crisi ricordate in precedenza, si è fortemente ridotto il Pil.

Conseguenza inevitabile, il rapporto deficit/Pil è peggiorato: e per riportarlo a dimensioni accettabili si accentua il carico fiscale per le famiglie. Come se l’unico modo per migliore i bilanci consistesse nell’aumentare le entrate, e non nel ridurre le spese.

Con tutti suoi innegabili difetti, il sistema funzionava; l’Italia cresceva, l’occupazione -diretta e indotta- era sostanzialmente piena; le banche prestavano alle imprese, e facevano utili senza impegnarsi in operazioni arrischiate. È possibile, certo, che questo sistema richiedesse di essere corretto, anche se i Trattati di Roma non facevano differenza tra imprese pubbliche e private. Bisognava evitare che gli apporti di capitale pubblico assumessero l’aspetto di aiuti di Stato, e non sarebbe stato impossibile!

Si è voluta scegliere la strada delle privatizzazioni, e nonostante i risultati su questa strada si intende continuare.

* già Direttore centrale dell'Iri

(12 novembre 2013)

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