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mercoledì 6 novembre 2013

Perché la precarietà accentua la crisi

di Guglielmo Forges Davanzati
Su fonte CGIL, si stima che i lavoratori occupati con contratto a tempo determinato, in Italia, percepiscono un salario medio di circa 800 euro al mese, e sono prevalentemente collocati nella Pubblica Amministrazione e nel Mezzogiorno. L’OCSE certifica, con riferimento al nostro Paese, che il fenomeno interessa prevalentemente giovani di età inferiore ai 25 anni e che, soprattutto, il numero di precari in rapporto alla popolazione attiva è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo decennio. In particolare, si registra che, nel corso dell’ultimo anno è significativamente aumentata (nell’ordine del 4%) la percentuale di assunzioni con contratto a tempo determinato sul totale delle assunzioni rispetto all’anno precedente. 

Questi dati sollecitano due domande: quali sono le possibili cause dell’aumento del precariato in Italia? E quali sono stati gli effetti macroeconomici delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro?

Una possibile risposta alla prima domanda rinvia a una riformulazione della tesi marxiana della “sovrappopolazione relativa”: nelle fasi nelle quali il tasso di occupazione è in aumento, è in aumento il potere contrattuale dei lavoratori, implicando un aumento dei salari e una contrazione dei margini di profitto. Una variante di questa tesi fa riferimento al fatto che, se il potere contrattuale dei lavoratori è elevato, non solo ci si attende che i salari siano elevati, ma ci si attende anche che le condizioni di lavoro siano migliori, ovvero – per quanto attiene al tema qui affrontato – che i contratti di lavoro siano maggiormente vantaggiosi per i lavoratori. Escludendo l’ipotesi secondo la quale “il posto fisso è monotono”, e che, dunque, i lavoratori preferiscano, di norma, contratti a tempo indeterminato rispetto a contratti a tempo determinato, ne deriva che al crescere del tasso di disoccupazione (in quanto si riduce il potere contrattuale dei lavoratori nella sfera politica) aumenta l’incidenza dei contratti a tempo determinato . 

Va rilevato che i sostenitori delle politiche di precarizzazione del lavoro, soprattutto nel corso dei primi anni Duemila, ne motivavano la necessità sulla base di questo argomento. Si sosteneva che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro sono necessarie in quanto consentono alle imprese di modificare rapidamente (e con i minimi costi) il proprio organico in relazione alla sempre più mutevole dinamica della domanda. Si aggiungeva che la deregolamentazione del mercato del lavoro è vantaggiosa anche per i lavoratori, seguendo l’argomento (apparentemente inoppugnabile) in base al quale al crescere dei profitti si riduce la probabilità che l’impresa licenzi. E i profitti – si sosteneva - possono crescere se l’impresa è messa nelle condizioni di utilizzare il lavoro in modo “flessibile”.

Si può affermare oggi che si trattava di tesi fortemente viziate da pregiudizi ideologici. Non è mai stato dimostrato che la domanda di beni e servizi rivolta alle imprese è diventata, nel corso degli ultimi anni, costantemente più variabile. Per contro, si può argomentare che i processi di crescente concentrazione e centralizzazione dei capitali hanno semmai reso i mercati meno concorrenziali e, per conseguenza, hanno semmai accentuato la “sovranità del produttore”, ovvero la caratteristica tipica di un assetto non concorrenziale che pone le imprese nella condizione di decidere autonomamente la scala e la composizione merceologica della produzione. Ciò anche in considerazione delle ingenti spese pubblicitarie realizzate dalle grandi imprese, peraltro le sole in grado di assumerne i costi. 

La risposta alla seconda domanda rinvia a un’evidenza empirica inoppugnabile: la precarietà ha effetti negativi sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla quota dei salari rispetto al PIL (link). Vi è ampia evidenza empirica che mostra che all’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’EPL (Employment protection legislation) – l’occupazione non solo non aumenta, ma, di norma, si riduce. Ancora più certo, sul piano empirico, è il fatto che la flessibilità riduce i salari. Va sottolineato che, a riguardo, rispetto agli altri Paesi OCSE, la situazione italiana è peculiare, per almeno tre fenomeni. In primo luogo, l’Italia è il Paese nel quale la protezione dei lavoratori ha subito la più drastica riduzione (l’EPL italiano, nell’ultimo decennio, si è ridotto nell’ordine dell’1.5% a fronte della riduzione, nel medesimo periodo, dello 0.5% circa per la media dei Paesi europei). In secondo luogo, le fluttuazioni del tasso di occupazione risentono sia della scarsa presenza della componente femminile della forza-lavoro sia, a questo collegata, di fenomeni di ‘scoraggiamento’, stando ai quali, in condizioni di elevata disoccupazione, bassi salari ed elevata probabilità di dover accettare un contratto precario, poiché la ricerca del lavoro è costosa e la probabilità di trovarlo è bassa, si rinuncia a cercarlo. In terzo luogo, in Italia le scelte di assunzione da parte delle imprese, più che in altri Paesi, risentono dell’esistenza di reti relazionali e parentali, che contribuiscono ad accrescere il dualismo del mercato del lavoro e ad accentuare l’immobilità sociale (link). 

Il fatto che la riduzione della protezione dei lavoratori riduce l’occupazione è spiegabile alla luce di almeno tre effetti macroeconomici. 

1) La flessibilità riduce la propensione al consumo dei lavoratori, perché a fronte della possibilità di mancato rinnovo del contratto, e dunque, della maggiore incertezza sui redditi futuri, i lavoratori reagiscono proteggendosi dal rischio di disoccupazione riducendo i consumi, per quanto ciò sia possibile, con conseguenti effetti negativi sulla domanda aggregata interna. La riduzione dei consumi, associata al crescere della precarietà, deriva anche da due cause ulteriori: la difficoltà (se non l’impossibilità) per i lavoratori con contratto a tempo determinato di accedere a mutui, e – in quanto il precariato riguarda prevalentemente individui provenienti da famiglie con basso reddito – la scarsa disponibilità di risorse derivanti dai risparmi delle famiglie d’origine. 

2) Si rileva anche che la somministrazione di contratti a tempo determinato riduce l’accumulazione di capitale umano (link). Ciò a ragione del fatto che – particolarmente in un’economia, come quella italiana, popolata da imprese di piccole dimensioni, specializzate in settori a bassa intensità tecnologica - la somministrazione di contratti a termine disincentiva l’acquisizione di competenze specifiche, contribuendo a ridurre la produttività. 

3) A ciò si aggiunge che l’adozione di contratti flessibili, e in generale le politiche di compressione dei costi, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita dimensionale delle imprese. Come rilevava Keynes: “se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale”. 
In tal senso, le politiche di flessibilità contribuiscono ad alimentare la recessione, sia perché deprimono la domanda interna, sia perché sono in larga misura all’origine della modesta dinamica della produttività, che è il tratto caratteristico dell’economia italiana degli ultimi anni. 

(4 novembre 2013)

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