di Matteo Volpe
Un cadavere è stato riesumato, quello del bipolarismo. Sepolto sotto le ceneri della Seconda Repubblica, l’archeologia politica ha deciso di riportarlo alla luce. Si cerca così di riassemblare i due blocchi dissolti. Da una parte, Berlusconi tenta di ridare la scintilla vitale al centrodestra, cercando un accordo con Salvini. Il vecchio centrodestra era tenuto assieme dalla figura carismatica di Berlusconi; adesso che questa figura ha perduto forza sembra molto più difficile ritornare ai fasti del passato.
Il progetto originario di Berlusconi, in più, è oggi definitivamente superato.
Questo progetto, che vide l’imprenditore di Arcore affermarsi nella costellazione di partiti distrutti da Tangentopoli, si basava su una promessa di successo individuale che sarebbe arrivato dopo il ripudio del ceto dirigente statalista della Prima Repubblica (che veniva a torto identificato con i postcomunisti) e l’apertura al mercato e all’impresa privata; una sorta di “via italiana al reaganismo” che però si sarebbe rivelata presto nulla più che propaganda.
La promessa di arricchimento individuale era incarnata dalla sua figura di imprenditore vincente e dall’affermazione delle reti Fininvest che interrompevano il monopolio televisivo di stato e portavano in Italia una televisione commerciale ed edonista, poco interessata alle preoccupazioni pedagogiche della vecchia RAI. Il progetto di “reaganismo italiano” sarebbe più tardi naufragato per un’essenziale ragione: l’evidenza che l’edonismo berlusconiano e la sua seduzione erano solo una finzione dietro cui si celava la realtà amara della stagnazione, della disoccupazione crescente e della cancellazione dei diritti. Da questo punto di vista il linguaggio del centrosinistra era molto più al passo con il tempi.
Se il berlusconismo era reganiano, l’antiberlusconismo era thatcheriano, prometteva poco, ma esigeva implacabilmente “sacrifici” e “conti in ordine” come necessità improrogabili. Fu proprio di fronte a questa versione più aggiornata del neoliberismo – che sarà rappresentata poi dal “commissario” Monti incaricato dalla Troika – che l’imprenditore milanese, pur avendo resistito per molto grazie al suo plebiscitarismo, dovette capitolare. Il nuovo neoliberismo, avrebbe imparato Berlusconi a sue spese, non è plebiscitario e non cerca un rapporto entusiastico con le masse, che redarguisce invece di tentare di sedurre. Piuttosto si avvale di gruppi di pressione, di think tank, per penetrare in circoli ristretti e nelle università, ma assume un profilo sobrio e misurato sui grandi media.
Sull’altro fronte, invece, i fuoriusciti del PD, una parte del PD non renziano e figure a sinistra del PD tentano di ricostituire il centrosinistra. Anche qui si tratta di un processo difficilmente reversibile. La fine del centrosinistra, come quella del centrodestra, non è stata accidentale, frutto dell’incapacità o della litigiosità dei suoi capi, ma strutturale. Il progetto del centrosinistra consisteva nel raccogliere il bacino elettorale del vecchio PCI e di parte della DC per traghettarlo verso l’orientamento neoliberale che ormai soppiantava la socialdemocrazia presso tutti i maggiori partiti della sinistra europea. Questo progetto si basava sulla capacità di far accettare il mondo globalizzato e la modernità liquida, la flessibilità per ogni lavoratore e l’incertezza del futuro. Questa, che era la realtà che si stava delineando, veniva considerata come un dato immutabile cui tutti dovevano adeguarsi senza indugio. A tale scopo, il centrosinistra proponeva alcune parziali compensazioni – comunque inferiori al male da ingoiare – come, ad esempio, gli “ammortizzatori sociali”, ovvero sussidi per i lavoratori precarizzati e i disoccupati; ma soprattutto usava una retorica moralistica che si avvaleva di alcuni canovacci sperimentati e luoghi comuni: “non rubare il futuro alle prossime generazioni”, “ridurre il debito che pesa sulle spalle dei nostri figli”, “responsabilità e bilanci virtuosi”, ecc. e che faceva perno sull’idiosincrasia rispetto alla figura carismatica di Berlusconi. Ma presto ci si accorse che la cura era peggiore del male, per non dire che era essa stessa il male da cui avrebbe dovuto mettere in guardia. Ed è così che la narrazione neoliberista neo-thatcheriana, e con essa il centrosinistra che vi si era identificato, iniziava ad attraversare una crisi di consenso. Crisi che verrà trasferita direttamente al PD, erede e rinnovatore di quel progetto.
La ricostruzione di centrodestra e centrosinistra si basa su su un tentativo di restaurare un momento della storia italiana non più ripetibile: non solo per la presenza di un terzo incomodo, il Movimento Cinque Stelle, che per sua natura non può essere piegato al gioco bipolare e non si presta ad alleanze; ma soprattutto perché questa resurrezione apparente, contrariamente all’operazione originale dei primi anni Novanta, si svolge nel deserto elettorale, come testimonia il livello inedito di astensionismo ad ogni elezione. Non esiste nessuna possibilità di coinvolgere le masse che sono ormai completamente disilluse circa la vera natura dei due blocchi.
Sull’altro fronte, invece, i fuoriusciti del PD, una parte del PD non renziano e figure a sinistra del PD tentano di ricostituire il centrosinistra. Anche qui si tratta di un processo difficilmente reversibile. La fine del centrosinistra, come quella del centrodestra, non è stata accidentale, frutto dell’incapacità o della litigiosità dei suoi capi, ma strutturale. Il progetto del centrosinistra consisteva nel raccogliere il bacino elettorale del vecchio PCI e di parte della DC per traghettarlo verso l’orientamento neoliberale che ormai soppiantava la socialdemocrazia presso tutti i maggiori partiti della sinistra europea. Questo progetto si basava sulla capacità di far accettare il mondo globalizzato e la modernità liquida, la flessibilità per ogni lavoratore e l’incertezza del futuro. Questa, che era la realtà che si stava delineando, veniva considerata come un dato immutabile cui tutti dovevano adeguarsi senza indugio. A tale scopo, il centrosinistra proponeva alcune parziali compensazioni – comunque inferiori al male da ingoiare – come, ad esempio, gli “ammortizzatori sociali”, ovvero sussidi per i lavoratori precarizzati e i disoccupati; ma soprattutto usava una retorica moralistica che si avvaleva di alcuni canovacci sperimentati e luoghi comuni: “non rubare il futuro alle prossime generazioni”, “ridurre il debito che pesa sulle spalle dei nostri figli”, “responsabilità e bilanci virtuosi”, ecc. e che faceva perno sull’idiosincrasia rispetto alla figura carismatica di Berlusconi. Ma presto ci si accorse che la cura era peggiore del male, per non dire che era essa stessa il male da cui avrebbe dovuto mettere in guardia. Ed è così che la narrazione neoliberista neo-thatcheriana, e con essa il centrosinistra che vi si era identificato, iniziava ad attraversare una crisi di consenso. Crisi che verrà trasferita direttamente al PD, erede e rinnovatore di quel progetto.
La ricostruzione di centrodestra e centrosinistra si basa su su un tentativo di restaurare un momento della storia italiana non più ripetibile: non solo per la presenza di un terzo incomodo, il Movimento Cinque Stelle, che per sua natura non può essere piegato al gioco bipolare e non si presta ad alleanze; ma soprattutto perché questa resurrezione apparente, contrariamente all’operazione originale dei primi anni Novanta, si svolge nel deserto elettorale, come testimonia il livello inedito di astensionismo ad ogni elezione. Non esiste nessuna possibilità di coinvolgere le masse che sono ormai completamente disilluse circa la vera natura dei due blocchi.
E non sarà certo una legge elettorale, nemmeno la più maggioritaria, ad arginare questo fenomeno. Il dualismo destra/sinistra della Seconda Repubblica doveva essere il surrogato delconflitto capitalismo/socialismo, abbandonato dopo il crollo del Muro di Berlino, per la credenza fideistica dell’eternità del capitalismo, e il bipolarismo centrodestra/centrosinistra era il surrogato del surrogato. Ma a questo gioco oggi la gran massa del corpo elettorale rifiuta di giocare, perché ha scoperto che è un gioco truccato, che appena dietro la vernice del conflitto mediatico conclamato si cela la realtà delle leggi di mercato, dell’adesione incondizionata a esse, della capitolazione dello stato e della modernità liquida. Per questo l’antirenzismo non è che una nuova declinazione dell’antiberlusconismo: l’opposizione a una persona e alla forma del suo linguaggio, ma con la tacita approvazione della sostanza condivisa.
L’ammiccamento di Renzi a Berlusconi, quindi, lungi dal rappresentare un qualche tradimento, è soltanto lo svelamento della essenziale complicità dei due poli opposti e simmetrici come due facce della stessa medaglia e dell’adesione acritica di tutti i maggiori partiti al capitalismo neoliberale.
L’ammiccamento di Renzi a Berlusconi, quindi, lungi dal rappresentare un qualche tradimento, è soltanto lo svelamento della essenziale complicità dei due poli opposti e simmetrici come due facce della stessa medaglia e dell’adesione acritica di tutti i maggiori partiti al capitalismo neoliberale.
fonte: l'Intellettuale Dissidente
Nessun commento:
Posta un commento