"Non si vede perché un traffico di rifiuti, al quale è interessata la criminalità organizzata che si muove verso la Campania e la Puglia, non debba coinvolgere anche la Basilicata, che presenta un assetto territoriale che può apparire più idoneo a traffici di questo tipo”.
Così parlava un sostituto procuratore della Repubblica di Potenza. Era l'inizio degli anni 2000.
Nel 2011 Mario P. De Biase, Commissario di governo in Campania per l'emergenza rifiuti l'anno prima, ricordò in Commisione parlamentare, le decine di milioni di euro per porre rimedio alla contaminazione della Campania Felix, un'area con un forte impatto sull'agricoltura. De Biase sottolineava come nella terra dell'ortofrutta “al di là della messa in sicurezza, della bonifica e del contenimento della contaminazione della falda, il problema vero, di impatto sociale abnorme, è quanto di questa contaminazione procede verso i prodotti e poi da questi all’uomo”. De Biase parlava su dati. E non quelli dell'esercito Usa (raccolti dal 2009 al 2011, ndr) resi pubblici in questi giorni da L'Espresso che, aggiunti all'audizione del '97 di Carmine Schiavone desecretata solo oggi, fa scandalizzare molti politici.
Una storia nota. De Biase ricordò che in Italia non esisteva uno studio sulla relazione tra contaminazione dei prodotti alimentari e consumo umano, e così avevano cominciato ad analizzare la falda acquifera realizzando all'inizio 15 pozzi su un'area di 200 ettari (gli ettari delle società Setri-Resit, Novambiente e Fibe, e varie cave e comuni), poi su 2mila. “Ebbene – affermò – sui primi 15 pozzi solo uno è risultato indenne”. Gli altri 14 erano contaminati anche “con picchi elevatissimi di tetracloro, cloroetilene, benzene e quant’altro”. Un anno fa invece alla Commissione rifiuti il presidente della provincia di Caserta Zinzi trasmise una nota. Oltre a ribadire che da almeno un decennio il fenomeno dei fuochi, assieme agli smaltimenti illeciti di rifiuti tossici, affliggeva vaste porzioni di territori, evidenziava un “allarmante incremento di patologie tumorali”. Carmine Schiavone, cugino del boss dei casalesi Francesco, nel '97 riferì di rifiuti tossici interrati persino sopra falde idriche. I dettagli però, li aveva forniti anni prima. C'erano i provvedimenti giudiziari del '93 che raggiunsero la Di.Fra.Bi srl di Giorgio e Salvatore Di Francia, Pietro Gaeta e Franco La Marca, titolari della discarica di Pianura, e i boss Francesco Schiavone, Francesco Bidognetti e Antonio Iovine. Due anni dopo, nel '95, era stato Agostino Cordoba presso il tribunale di Napoli a richiamare alla Commissione le indagini di grande rilievo fondate sulle dichiarazioni di Carmine Schiavone che aveva confermato il versamento di rifiuti tossici e radioattivi nelle cave di sabbia e nei terreni svuotati per la costruzione della litoranea, e raccontato che il referente per quei traffici era Licio Gelli. Aveva pure portato gli investigatori sui siti dove erano stati ritrovati rifiuti. Una situazione critica per Cordoba perché gli interessi della criminalità organizzata s'erano saldati con quelli di soggetti come il capo della loggia massonica P2, operanti direttamente o indirettamente in traffici e smaltimenti illeciti. Lo stesso procuratore di Napoli faceva notare che gli inquirenti avevano accertato la presenza di altri soggetti appartenenti a logge massoniche come Gaetano Cerci, affiliato al clan Bidognetti, che nel '91 s'era recato da Gelli a villa Wanda. Cerci raccoglieva, da imprenditori, trasportatori e gestori delle discariche le tangenti trattenendo la quota spettante alla Camorra. E alla fine di quegli anni '80 c'era stato persino un patto. I casalesi di Schiavone, Bidognetti, Iovine e il clan Puccinelli-Perrella si proponevano d'acquisire la gestione e il controllo totale delle varie attività di raccolta trasporto e smaltimento di ogni rifiuto, anche tossico-nocivo, in zone diverse del territorio nazionale tramite la gestione monopolistica delle discariche nel Napoletano e nel Casertano, e corrompendo esponenti politici e amministratori pubblici per ottenere concessioni e autorizzazioni illegittime.
Il buon business. I casalesi gestivano praticamente i principali impianti di smaltimento esistenti nell’area e personaggi a loro vicini erano presenti nelle amministrazioni della Di.Fra.Bi, della Novambiente, della S.a.r.i collegata con la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo attraverso alcuni congiunti di Salvatore La Marca, ex sindaco di Ottaviano. Anche gli amministratori del Centro sud di Sant’Anastasia e della Fungaia di Monte Somma erano parenti di La Marca. I titolari della Di.Fra.Bi vennero poi condannati dalla Corte di Appello di Napoli nell’ambito di un’inchiesta sull’illecito smaltimento in Campania di rifiuti extraregionali. Già nel '95 alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti era stato segnalato che l’area di competenza dell’Asl 4 campana aveva visto negli ultimi sette anni un aumento di mortalità del 100% annuo, e un preoccupante aumento di linfomi, leucemie e tumori al fegato. Un dossier di Alleanza Nazionale di Acerra correlava tali aumenti ai rifiuti tossici interrati. Finì che la commissione ribadì solo la necessità di costituire osservatori epidemiologici. Studi o meno, dagli anni '80, stando a Maurizio Vallone, capocentro Dia di Napoli, c'erano state indagini su numerose attività segnalate da collaboratori di giustizia che portarono a individuare una serie innumerevole di discariche e sversatoi clandestini. Erano stati riversati rifiuti tossici anche ai laghetti di Castel Volturno, e “sotto qualsiasi scavo fosse realizzato nella provincia di Caserta – ricordò –, sia di carattere pubblico, come le superstrade e le autostrade in costruzione in quegli anni, sia di carattere privato, come scuole ed edifici di qualsiasi genere”. Attività di indagine che interessano anche Cipriano Chianese che gestiva una serie di siti di smaltimento di rifiuti attraverso la società Resit (prima Setri srl con a capo sempre Chianese e Bidognetti, ndr). Nel 2009, ricordò Vallone, Chianese era stato oggetto di misure cautelari da parte del tribunale di Napoli su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli e a sequestri di beni per oltre 90 milioni di euro. Nell'affare rifiuti Carmine Schiavone s'era buttato nel '88, "quando a Otranto gli venne proposto lo scarico di fusti tossici" dice. Così a Casal di Principe si riunì con suo cugino Francesco e Mario Iovine, e decisero che era un buon business. Il capo lo aveva già iniziato con Bidognetti e Cerci, l'uomo che intratteneva rapporti con la massoneria e vari signori di Arezzo, Firenze, Milano, Genova. L'avvocato Chianese, dice Carmine, curava il coordinamento generale. Ancora nel 2010 Vallone ribadì che successive attività di riscontro avevano permesso di verificare che sotto le discariche della Resit (Giugliano, Villaricca e Parete, ndr), la situazione di pericolo ambientale era tale che nel giro di 30-40 anni il percolato si sarebbe infiltrato “in maniera determinante e definitiva nelle falde acquifere di tutto il settore del giuglianese della provincia di Napoli fino a tutta la parte sud della provincia di Caserta, nella zona, appunto, di Villaricca e Parete, con un vero e proprio disastro ambientale”.
Il patto di alleanza. Questi rifiuti intanto, stando all'audizione del '97 di Carmine Schiavone, oltre che in Campania erano stati interrati nel basso Lazio, in Puglia, Calabria, Sicilia. Un raggio d'azione che coinvolgeva praticamente tutto il Mezzogiorno ma non la Basilicata. Buco nero o terra di nessuno come invece affermavano i capi della 'Ndrangheta proprio alla fine di quegli anni Ottanta? Eppure c'era dentro fino al collo se nella Commissione del '95 si ribadì che “dalle notizie emerse dai sopralluoghi, relative ai procedimenti giudiziari in corso, emerge il forte sospetto di un coinvolgimento in traffici e negli smaltimenti abusivi di rifiuti di clan della ‘Ndrangheta (sia della provincia di Reggio Calabria che in quella di Vibo Valenzia), e della Sacra Corona Unita (provincia di Brindisi e Bari). Si fa presente infine che nell’ambito delle indagini collegate tra la procura della repubblica presso la pretura circondariale di Matera, di Reggio Calabria, e il tribunale di Napoli, sono in corso approfonditi accertamenti sul preoccupante fenomeno degli smaltimenti di rifiuti tossici radioattivi”. Dunque Camorra, 'Ndrangheta e Scu s'erano praticamente messe d'accordo per trafficare in rifiuti tossici, e anche in Basilicata c'erano approfonditi accertamenti su smaltimenti di fusti radioattivi.
La rete del traffico di rifiuti. Le direttrici del traffico coinvolgevano non solo le province di Napoli, Caserta, Reggio Calabria, Vibo Valenzia, Taranto, Brindisi, Bari. Ma anche il Materano. Si trattava d'una vera e propria “rete di traffico internazionale”, affermò Greenpeace proprio nel '97, che in quegli anni aveva visto coinvolte ben 26 società italiane. Da fine anni '80 ai primi degli anni '90 ogni clan che aveva disponibilità di aree da destinare a smaltimenti illeciti di rifiuti tossici a quanto pare s'era organizzato. Ma da allora qualcosa è cambiato? Evidentemente no se alle indagini della procura di Napoli del '93 sulla società Ecologica 89 s'arriva nel febbraio 2009 all'operazione Eco Boss che dimostra come i casalesi smaltivano sui terreni del casertano rifiuti tossici provenienti dai consorzi del nord-Italia. Smaltimenti che avvenivano in cave dismesse, discariche non autorizzate, e autorizzate per rifiuti inerti. “Per tali smaltimenti –veniva ricordato in Commissione – c'è sempre collusione con apparati della pubblica amministrazione o delle società incaricate dei controlli o di predisposizione o realizzazione dei progetti di bonifica”. Fondamentali erano state le dichiarazioni di collaboratori della Dda come Michele Froncillo, esponente del clan Belforte di Marcianise che teneva i rapporti con gli imprenditori, e Gaetano Vassallo, espressione del clan Bidognetti e titolare della Novambiente che gestiva la discarica a Giugliano.
Il tempo passa, nulla cambia. Froncillo raccontò come il clan Belforte era entrato nelle attività illecite legate alla gestione di rifiuti nel '94. Nel '96 in una riunione si decise di non accontentarsi più delle briciole, cioè le estorsioni. Bisognava mettere i propri “uomini” nei consigli di amministrazione delle imprese che se ne occupavano. Ciò era possibile anche grazie alla fattiva collaborazione di Pasquale Napolitano e di Salvatore Moretta inseriti nella Società ecologica meridionale srl (Sem, ndr) controllata da Giuseppe Buttone, Pasquale Di Giovanni e dal boss Salvatore Belforte. Tutta la gestione dei rifiuti in Marcianise e paesi limitrofi passava comunque per le società di Buttone e Di Giovanni. Recenti procedimenti penali hanno poi confermato come le imprese Sviluppo spa e Impresa spa avevano ottenuto grazie a Antonio Iovino, vicinissimo al clan Fabbrocino, l’appalto per la costruzione di un'importante arteria stradale, e avevano mischiato rifiuti pericolosi e tossici. O di discariche come Chiaiano, sottoposte a sequestro perché riconducibili a soggetti legati a Cosa Nostra palermitana. O l'operatività nella provincia di Napoli e Caserta di società come l'Ecocampania di Nicola Ferraro, espressione del clan Schiavone, la Di Palma srl riconducibile a quel Domenico Romano referente per le organizzazioni camorristiche napoletane. Nel 2011 Di Giovanni e Buttone, assieme a Salvatore già al 416 bis, vengono definiti “plenipotenziari” del clan nel settore rifiuti. Anche dopo il provvedimento di sequestro della società nel 2009 i proventi venivano reinvestiti acquistando quote della società Pi.Sa Ambiente srl di cui divenivano soci, e versando in contanti circa due milioni e mezzo di euro alla Ecopartenope srl. Costringevano l'imprenditore Antonio Ricci ausare le sue società con minacce e intimidazioni per trasportare rifiuti speciali, intermediando in realtà loro tramite Sem, e avevano creato decine di altre società come la Enertrade srl, la Cepi Ambiente sas, la Bio. Com. sas e la Pi.Sa Ambiente appunto, che nonostante dotate di impianti adeguati agivano in realtà attraverso altre società come la Ni.Co. Service Ecologica sas, la Waste Service srl, la Sa.Ma. Sas di Umberto Salvatore Martino & C. prive invece di impianti (definite “società cartiere”, ndr) per dar luogo a un giro di fatture false (f.o.i, ndr) utilizzate per mascherare gli ingenti guadagni dell’attività illecita.
La Basilicata che non c'era...E la terra lucana? Un politico come Gianni Pittella per esempio, oggi si dichiara sconcertato dalle parole di Schiavone, ma era in quella Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti del '97. Non avrà ascoltato Schiavone, ma il procuratore nazionale antimafia Alberto Maritati sì. Maritati aveva riferito a luglio del '97 che la mafia era interessata in modo significativo al business dei rifiuti, e ricordato pure ai presenti (Pittella compreso, ndr) le parole d'un pentito: “ci siamo accorti – aveva dichiarato all'antimafia il collaboratore – che produce di più la monnezza che l'eroina”. Pittella aveva sentito pure che i rifiuti da Nord se ne andavano verso Sud, delle responsabilità “gravi e diffuse” della politica, del funzionamento amministrativo, imprenditoriale, e di quelle società prima chiaramente collegate alla mafia che diventavano sempre più “in odor di mafia”, cioè meno visibili e individuabili, fondendosi con le economie territoriali. E aveva pure ascoltato da Maritati che per l'inserimento di cosche mafiose la Basilicata non era più isola felice. Solo qualche mese dopo aveva sentito il sostituto procuratore presso la pretura circondariale di Matera Franca Macchia, che raccontò come dalle indagini che stavano effettuando in Basilicata il traffico di rifiuti si configurava “inequivocabilmente” come un'attività criminale a carattere organizzato che vedeva, nella terra mai citata da Schiavone, il territorio terminale ideale. Aveva detto che i rifiuti arrivavano dai luoghi più disparati dell'Italia e probabilmente anche dall'estero, e che verificando i centri di provenienza avevano rilevato situazioni di illegalità. E precisato: “abbiamo lavorato con la procura di Rimini e in parte con Taranto, nel senso che ci siamo scambiati degli atti, abbiamo anche mandato degli atti a Bari”. La Basilicata era dunque dentro quello che il presidente Scalia definì “canale adriatico” dei traffici illeciti di rifiuti tossici.
La Basilicata che c'è. E se la Basilicata era già parte d'un network mafioso nel '97, tempo fa Bruno Buttone, esponente di spicco del clan Belforte, ha acquistato per il clan uno stabile a Barile. E la Basilicata non rientra in modo marginale in questa storia. La Ecomediterranea srl del clan Belforte s'imponeva per l'intermediazione dello smaltimento dei rifiuti ma li conferiva in realtà ad altre società come la Ecopartenope che smaltiva nell'inceneritore di Melfi circa un milione di chili di rifiuti tossici tra 2004 e 2008. Si tratta sempre di rifiuti prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti con sostanze pericolose. All'inizio, nel 2004, ne consegna 24 mila chili. L'anno dopo già siamo a 91.400. Nel 2006 129.180, nel 2007 235.170, e nel 2008 414.900. E' “il sistema” rodato a partire dalla Ecologia ‘89 , la scatola vuota di Cerci e Bidognetti. Un sistema fatto di società che sono state definite le “commerciali mafiose” come la Studio ’92 di Francesco Fabozzi e Michele Chirico (ricondotta alla triade Vincenzo Zagaria, Dario De Simone e Francesco Biondino), o la Ecotrasp gestita da Francesco Di Puorto dietro cui in realtà c'erano Antonio Iovine e Giuseppe Diana, è collaudato dalla fine degli anni Ottanta, quando in una riunione al ristorante La lanterna di Villaricca si decise appunto l’inserimento del Perrella, collegato al clan Puccinelli-Perrella, nel traffico mafioso dei rifiuti. E tante altre. Ovviamente dentro ci stavano pure i gestori di discariche destinatari finali degli smaltimenti accordati con i clan. Oltre che un’impresa di famiglia, la Novambiente di Vassallo, sotto controllo c'era la Alma di Luca Avolio e Antonio Maisto a Villaricca, la Setri di Chianese (poi Resit, ndr), e appunto la Di.fra.bi.
All'inizio fu la Materit. Ma le date sono importanti. Tra i documenti prodotti da Schiavone c'è una delibera del novembre '88 della Regione Campania. L'oggetto è l'approvazione dell'adeguamento presentato a gennaio dalla “Di.Fra.Bi srl di Di Francia Salvatore e co. con sede legale in Napoli via montagna Spaccata 521 con discariche in località Casella Pisani-Pianura”. Un mese dopo la Commissione controllo della Regione da' l'ok. Un anno dopo, il 6 dicembre del '89, è la Provincia di Napoli a concedere l'assenso “allo smaltimento presso l'impianto sito in località Montagna-Spaccata di ceneri di carbone prodotte dall'Enel nelle proprie centrali”. E la Di.Fra.Bi lo poteva fare senza alcuna limitazione circa la provenienza dei rifiuti perché sette mesi prima, a maggio del '89, un'ordinanza del Tar Campania aveva ritenuto che la limitazione imposta dalla Regione Campania nello smaltimento di rifiuti extraregionali ledeva “la libertà di impiantiva economica” della Setri di Chianese, pertanto l'aveva sospesa. Da documenti in nostro possesso si evince, al contrario, che già da marzo '88, l'anno in cui Carmine Schiavone a Otranto dice di buttarsi nel business dei tossici con l'avallo del boss e di Bidognetti, cioè un anno prima dell'ordinanza del Tar, la Di.Fra.Bi i rifiuti da fuori regione già se li prendeva. E proprio da noi, nella Basilicata mai citata. Il business iniziava infatti da contratti. In Val Basento attraverso la Tecnologie dei sistemi di smaltimento rifiuti srl, o Tiesse, che aveva inviato alla Materit srl di Ferrandina che lavorava amianto, un contratto per smaltire rifiuti industriali. Contratto firmato per accettazione e rinviato alla sede della Tiesse in Via Toledo a Napoli. Dai documenti sappiamo che quando si stipula il contratto tra Tiesse e Materit venivano prodotte nello stabilimento dalle 400 alle 700 tonnellate l'anno di fanghi inorganici, e che un milione e mezzo di chili di quei fanghi erano già in giacenza al momento della stipula. Come, lo aveva spiegato l'anno prima il direttore della Materit Lorenzo Mo al presidente del Consorzio industriale di Matera in una lettera. Mò scriveva di “difficoltà sempre più drammatiche di dare risoluzione al problema della collocazione dei nostri rifiuti industriali”. Vi erano poi mille chili l'anno di rottami solidi da aggiungere alla drammatica situazione. Ci sono due informazioni rilevanti nell'offerta accettata dalla Materit per il ritiro dei rifiuti speciali identificati come “fanghi di decantazione” (rifiuti speciali II Cat. Tipo B) non pericolosi. La prima è che si scrive nel contratto che contenevano oltre all'amianto sostanze come cadmio, cromo esavalente, piombo, selenio. Poi, che la destinazione di quei rifiuti è proprio la società Di.Fra.Bi di Via Montagna Spaccata a Napoli.
Poi venne il network. Nella Materit c'erano altri documenti. Uno registrava ceneri provenienti dalla Centrale Enel di Brindisi. La Commissione del '95 ricordò come da quella Centrale erano state smaltite prima presso la discarica della Ines sud, poi in quella di Pianura in mano alla Di.Fra.Bi. E se quelle ceneri pesanti fossero finite anche nel processo industriale della Materit? In fondo era scritto nella scheda descrittiva del rifiuto che la Materit compilò per la Tiesse nel 1988 che in quei fanghi industriali c'erano cadmio, cromo esavalente, piombo, selenio, nonostante si scriveva che a comporre quel rifiuto erano 80% acqua, 17% cemento spento, 1% amianto, e 0,6% cellulosa. Coincidenza vuole che la Ines sud era stata registrata a Roma allo stesso indirizzo dove erano state registrate la Sir srl(Società imprese riunite, ndr) e la Sateco srl (Servizi applicazioni tecnico-ecologiche srl, ndr). La quota maggioritaria Sateco era in mano alla Sir, implicata in pesanti illeciti ambientali. Il restante 20% in mano alla Progetto ecologia snc (nel 2001 diventa Progetto Ecologia di Albano A & C srl), con a capo un' attempata manager d'un paesino calabrese, società operante nella “raccolta, trasporto, stoccaggio e smaltimento dei rifiuti” da sempre in Basilicata. La Sateco, che può trattare anche rifiuti radioattivi, resta in Basilicata dal '93 al '95, poi torna allo stesso indirizzo romano da cui era partita. Se ne va in piena inchiesta sul traffico di rifiuti radioattivi aperta dal procuratore Nicola Maria Pace a Matera, e dopo che una discarica che gestiva grazie a un’autorizzazione provvisoria rilasciata dalla Regione fu sequestrata. Il Libro Bianco di Legambiente del ’95 rilevò che la Sateco era iscritta alla Camera di commercio di Roma con la consueta quota minima e “nessun dipendente” e ad amministrarla c’era, fin dalla sua nascita, il signor Alessandro Albano della Progetto ecologia. Descrisse la Sateco come “prima cessionaria nel traffico di rifiuti industriali” raccolti dalla Siter srl che tramite essa spediva in Campania rifiuti industriali catalogandoli in altro modo. La Commissione d'inchiesta parlamentare del '97 evidenziò come a quell'indirizzo romano, oltre a risultare registrati un laboratorio Sir e la Sateco, vi era pure la Ines Sud che avrebbe smaltito illecitamente le ceneri della centrale Enel di Brindisi (per Greenpeace lo conferma una lettera di Jelly Wax all’Enel del ’91), e la Bohemia srl, con sede a Palermo. Allo stesso indirizzo siciliano vi era la gemella, Bohemia Sicilia srl, e il Co.Si.Ri, consorzio costituitosi nell’aprile del ’93 (che trattava rifiuti speciali ospedalieri, tossico-nocivi e radioattivi) con il contributo dell’ingegner Gian Mario Baruchello con incarichi nella stessa Ines Sud.
L'unione fa la forza. Allo stesso indirizzo romano dove era stata registrata la Sir vi era anche la sede amministrativa della Elektrica spa di Napoli. Tra coloro che hanno rivestito cariche nella Elektrica c'erano proprio Di Francia (pure amministratore delegato della Servizi Ambientali srl società che gestì la discarica di Pitelli fino al sequestro), e La Marca. Infine Giuseppe Giordano, direttore tecnico sino al '88 e in quegli stessi anni amministratore unico della Ines Sud. Solo nel ’93 Elektrica viene colpita da interdittiva antimafia a seguito dell’arresto, assieme ad altri esponenti del clan dei casalesi, dei Di Francia e La Marca per associazione a delinquere di stampo mafioso. Sino al ’96 Elektrica continua comunque a controllare la Cetan srl, società satellite del gruppo italo-svizzero facente capo alla Celtica Ambiente srl. Ancora nel ’98 il capitale sociale della Cetan era detenuto al 95% proprio da La Marca e Di Francia. Sempre nel ’98 Elektrica passa al gruppo Celtica, presidente del consiglio d’amministrazione diventa la moglie di Giulio Bensaja, amministratore unico di Celtica ambiente di Milano con una reiterazione di reati che includeva l’accusa di associazione a delinquere con un esponente di Cosa Nostra. Il presidente della casa madre elvetica di Celtica invece, Arcasio Camponovo, era stato investigato a Palermo per corruzione e associazione mafiosa ed era consulente finanziario della Ocean Disposal Management, il cui Direttore tecnico, Giorgio Comerio, era stato iscritto nel registro degli indagati di Matera e Reggio Calabria per associazione a delinquere e disastro ambientale relativamente agli affondamenti di navi cariche di rifiuti radioattivi avvenuti lungo le coste lucane, calabresi e siciliane. In questa storia ci erano finite la 'Ndrangheta e l'Enea di Basilicata, definita una vetrina per i traffici illeciti da Guido Garelli, uno dei testi nell’inchiesta. Raccontava Garelli che per lo smaltimento illecito di rifiuti esisteva una fitta rete costituita da mafie, Servizi segreti, imprese e persone inimmaginabili. Una rete ribadita anche dal pentito Francesco Fonti, per Garelli il tramite tra ‘Ndrangheta e Servizi segreti per lo smaltimento. I vari procuratori che se ne erano occupati parlarono di movimenti di camion anomali e senza controllo, registri falsi. I fusti radioattivi, ricordò Garelli in Commissione, erano partiti da Gioia Tauro e Taranto. Garelli conosceva bene la situazione. Tre automobili utilizzate da gente del Centro Enea lucano appartenevano proprio ai servizi deviati cui apparteneva. Erano state 'impasticcate' disse, farcite di microspie. Quelle auto erano il posto più discreto per parlare, e lì dentro quelli dell'Enea lucana s'erano raccontati del materiale che gli arrivava dai centri della Casaccia di Trino Vercellese e da altri centri europei, di come poi ripartiva, a volte dopo essere stato trattato, per Pakistan, Iraq, Iran. Di come utilizzavano il porto di Gioia Tauro e la sezione distaccata del porto di Taranto di proprietà Italsider, dove si poteva fare di tutto perché si caricava con i mezzi propri le navi. Agli inizi degli anni Novanta, quando traffici e patti tra mafie, massoneria, servizi segreti e imprese erano rodati, l'Enea faceva già porre dubbi. Venivano rilevate le “forti discordanze” tra il report sulle discariche abusive in Puglia del Commissario straordinario e quello dell'Enea. In provincia di Taranto l’Enea aveva censito solo 3 delle 14 discariche segnalate dagli organi di polizia al Commissario. Il caso più eclatante era la provincia di Bari, per la quale non era stato possibile rilevare alcuna coincidenza tra i dati Enea e quelli inoltrati dagli organi di polizia. In questo scenario s'assisteva in Puglia all’affermarsi di quelli che il prefetto definì “gruppi oligopolisti” nel settore dello smaltimento dei rifiuti, capaci di condizionare atti e determinazioni delle amministrazioni competenti. Del resto da tempo viene ribadito che le organizzazioni criminali si propongono come impresa, presentandosi sul mercato degli appalti, e che sono dotati di esperti di marketing, osservatori economici, uffici legali, e relazioni politiche.
Quello che sappiamo di non voler sapere. In Basilicata, come veniva rilevato nella Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività ad esso connesse del 2000, era avvenuto uno smaltimento selvaggio di tossico-nocivi e diversi episodi di traffici abusivi di rifiuti provenienti dal nord come per la discarica Pomarico, sito formale di destinazione di 119 tir nei quali sarebbero stati trasportati rifiuti urbani inzuppati di tossico nocivi e scomparsi nel nulla. E c'erano altre aree a rischio come Policoro, dove vennero ritrovati centinaia di fusti contenenti rifiuti pericolosi, e una discarica illegale con rifiuti di ogni genere, compreso amianto. C'erano preoccupazioni per traffici e smaltimento di rifiuti in Val d’Agri, lungo il corso del Basento, nel territorio della provincia di Potenza a seguito di abbandono di fusti contenenti rifiuti tossico-nocivi. Il sostituto procuratore presso il tribunale di Potenza aveva detto “non si vede perché un traffico di rifiuti, al quale è interessata la criminalità organizzata che si muove verso la Campania e la Puglia, non debba coinvolgere anche la Basilicata, che presenta un assetto territoriale che può apparire più idoneo a traffici di questo tipo”. L'anno dopo altri fusti trovati a Marconia di Pisticci. E continuativi sono stati da allora gli interventi del Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri, e di altri organismi nei sequestri e nelle denunce di reati. Come le denunce di liberi cittadini e associazioni che abbiamo seguito in cronaca. Spesso però, quello che chiamano in maniera semplicistica “ambientalismo” viene etichettato come ostacolo allo sviluppo industriale, dimenticando i motivi di questa forma d'attivismo moderna che è di contrasto al consumo dei territori, all'aumento di tumori, di tasse per metterci una pezza sopra, e alla proposta di alternative di sviluppo che pure esistono. Per farlo capire meglio chiudiamo con un esempio. L'Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ndr) ha effettuato solo parzialmente il calcolo dei danni provocati dalle attività illecitamente svolte nella discarica ex Resit. Oltre cento milioni di euro (3.960.000 danno alla falda, 13.300.000 danno al suolo, e 93.901.080 per la minaccia dovuta alle fonti di inquinamento presenti nel sito). In realtà, si scrive, i danni ambientali provocati sono incalcolabili, e presumibilmente irreversibili.
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