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sabato 21 dicembre 2013
L’ingiustizia fiscale e la recessione
di Guglielmo Forges Davanzati
Fin dal Rapporto Growing unequal del 2008, l’OCSE ha documentato la crescente diseguaglianza distributiva nella gran parte dei Paesi industrializzati. Dal 2008 a oggi, e con particolare riferimento all’Italia, la diseguaglianza distributiva ècostantemente aumentata. A fronte della molteplicità delle cause del fenomeno, non appare irrilevante considerare il profilo sempre meno progressivo che ha assunto l’imposizione fiscale in Italia: detto diversamente, in termini percentuali si è notevolmente assottigliata la differenza fra le imposte pagate dalle famiglie con reddito elevato e quelle pagate dalle famiglie con basso reddito. In tal senso, la questione fiscale, in Italia, non attiene tanto agli oneri eccessivi che, in termini assoluti, gravano su imprese e famiglie, ma alla sua distribuzione in base al reddito disponibile.
E’ rilevante osservare che il grado di progressività delle imposte, in Italia, si è continuamente ridotto a partire dalla prima metà degli anni ottanta, in virtù di una sequenza di “riforme” che hanno fatto sì che all’aumentare del reddito imponibile l’imposta da pagare aumenti proporzionalmente sempre meno.
La massima accelerazione di questo processo si è avuta con il secondo Governo Berlusconi. La “riforma” attuata in quegli anni ha pesantemente accentuato il profilo di iniquità del sistema tributario, consentendo ai contribuenti più ricchi di pagare meno tasse dei contribuenti più poveri, e, di fatto, riportando il sistema tributario indietro di oltre un secolo, ovvero rendendolo sostanzialmente regressivo. L’ossimoro delle “riforme fiscali regressive” ha tratto la sua legittimazione ‘scientifica’ dalla tesi secondo la quale è solo riducendo la pressione fiscale sui lavoratori più produttivi (identificati con i lavoratori più ricchi) che si incentiva l’aumento della produzione. L’idea è apparentemente ovvia: se la tassazione – all’estremo – è del 100%, ciò significa che tutto il reddito disponibile ottenuto lavorando viene requisito dallo Stato, con il risultato di disincentivare l’impegno lavorativo. Che viene tanto più disincentivato quanto maggiore è la quota del prodotto del lavoro che deve essere destinata al pagamento delle tasse.
Questa tesi viene presentata come rispondente non solo a un obiettivo di efficienza ma anche a un obiettivo di equità. Se, infatti, la detassazione dei redditi più alti accresce il prodotto interno lordo, in quanto la “torta” aumenta, è possibile ridistribuirne parte a favore dei lavoratori meno produttivi e, per questo, maggiormente tassati. Si osservi che questa logica impone di considerare il raggiungimento di obiettivi di efficienza prioritario rispetto a obiettivi di equità. Questi ultimi, peraltro, potrebbero non essere mai raggiunti, giacché la scelta di operare politiche redistributive – in quanto scelta esclusivamente politica – risponde a un puro criterio “caritatevole”, che può farsi valere solo quando la “torta” ha raggiunto dimensioni sufficienti da poter consentire di darne briciole a chi non ha collaborato a produrla. E a decidere quando l’ampiezza della “torta” è sufficiente non sono certamente coloro che aspettano di ottenerne una parte.
E’ necessario chiarire che la ripartizione del carico fiscale risente significativamente del potere contrattuale che imprese e lavoratori hanno nella sfera politica. In un contesto di elevata disoccupazione e di crescente precarizzazione, appare del tutto evidente che non solo i lavoratori hanno un basso potere contrattuale nel mercato del lavoro (il che implica una dinamica al ribasso dei salari), ma hanno anche un basso potere di negoziazione in ordine alla distribuzione dell’onere fiscale. In più, soprattutto in condizioni nelle quali esiste un’ampia platea di imprese che è in condizione di delocalizzare le proprie produzioni, è del tutto ovvio che i maggiori oneri fiscali ricadano sul lavoro dipendente e siano poco gravosi per il capitale. E’ il c.d. sciopero del capitale: la minaccia di delocalizzazione spinge il Governo a creare un ambiente favorevole alla permanenza delle imprese nel Paese, dal momento che dai loro maggiori investimenti ci attende un aumento del reddito pro-capite e un aumento della probabilità di rielezione [1].
A ben vedere, la tesi dominante secondo la quale è la diseguaglianza distributiva a trainare la crescita è falsificata sia sul piano teorico, sia sul piano empirico.
1) Sul piano teorico, essa si fonda sull’idea in base alla quale è produttivo chi è ricco, rinviando a una logica per la quale chi è ricco oggi lo è perché ha lavorato in modo più produttivo rispetto a chi ha oggi un reddito più basso. Si può obiettare che non vi è alcun nesso necessario fra produttività e ricchezza, potendo, ad esempio, la ricchezza disponibile oggi dipendere da lasciti ereditari. Si può anche obiettare che il nesso che viene istituito (maggiore produttività = maggiori retribuzione) può, al più, ritenersi accettabile all’interno di un particolareframework teorico – di segno neoclassico – che, proprio in quanto è uno dei possibili orientamenti teorici in campo, non è generalizzabile, ed è peraltro molto problematico per la sostanziale impossibilità di fornire una misurazione della produttività del lavoro. La produttività del lavoro è data, per definizione, dal rapporto fra la quantità di beni e servizi prodotta e il numero di lavoratori occupati. L’impossibilità di misurazione discende da due dati di fatto. In primo luogo, la quantità prodotta dipende dalle modalità di organizzazione del lavoro e, in particolare, dal fatto che, di norma, essa varia al variare del grado di cooperazione fra lavoratori all’interno del processo produttivo. In secondo luogo, le economie contemporanee sono caratterizzate da una rilevante incidenza del settore dei servizi, nel quale la quantità prodotta non è misurabile, se non quando i servizi vengono venduti e, dunque, può esserlo solo in termini monetari. In terzo luogo, è praticamente impossibile ‘isolare’ il contributo del singolo lavoratore dalla dotazione di capitale della quale dispone, così che non è possibile imputare al singolo lavoratore il suo specifico contributo alla produzione. Da ciò discende che, per entrambi i casi, non è possibile fornire una misurazione fisica della sua produttività.
2) E’ ampiamente documentato che la crisi in corso dipende, in ultima analisi, proprio dalla crescente diseguaglianza distributiva su scala globale [2] e che la recessione accresce la polarizzazione dei redditi, come evidenziato nell’ultimo Rapporto OCSE [3].
L’aumento della tassazione, in Italia, è stato realizzato prevalentemente con un aumento delle imposte indirette, che, in quanto pagate su beni e servizi, sono per loro natura regressive, ovvero vengono pagate in egual misura (a parità di quantità acquistate) da individui con alto e con basso reddito. Questa strategie è palesemente in conflitto con l’obiettivo dichiarato di generare crescita economica, per due ragioni. In primo luogo, la tassazione riduce la domanda interna e, per questa via, contribuisce ad accentuare la recessione. In secondo luogo, e soprattutto, poiché le famiglie con redditi bassi hanno maggiore propensione al consumo, l’aumento della tassazione a loro danno riduce i consumi più di quanto si ridurrebbero se venissero tassati i redditi elevati, con effetti di segno negativo sulla dinamica della domanda aggregata, sull’occupazione e sul tasso di crescita.
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