L’Italia non può pensare nemmeno lontanamente di uscire dall’Europa, ossia dall’Unione Europea. Ma servirebbe un nuovo trattato Ue ampiamente riveduto che invece di assomigliare, come quello attuale, all’ordinamento di una società per azioni, dove la parola “concorrenza” ricorre una trentina di volte e “democrazia” non più di quattro o cinque, si configuri come un genuino documento politico.
di Luciano Gallino, da Repubblica, 6 dicembre 2013
Il Commissario europeo per gli affari economici, Olli Rehn, ci dedica da tempo rimproveri giornalieri circa il fatto che dovremmo fare di più e meglio in tema di riforme del lavoro e delle pensioni, di privatizzazioni, rispetto del patto fiscale e, perfino, organizzazione della giustizia. Il suo atteggiamento censorio è fuori luogo e ci sono molte ragioni per sostenerlo. Prima di tutto Rehn non è stato eletto e non ci rappresenta in nessun modo. Questo fatto lo percepiamo di per sé come una grave deviazione dal pensiero politico dei padri fondatori dell’Europa, tra i quali spiccano alcuni italiani (Altiero Spinelli e Alcide de Gasperi).
Nei documenti che avviarono la discussione per costituire una Europa unita si parlava di organi di legislazione e di controllo fondati sulla partecipazione diretta dei cittadini e non di rappresentanze decise dagli Stati membri. Sappiamo bene che non soltanto Rehn, ma tutti i dirigenti della Comunità europea, e con essi gli organi della Bce, del Fmi e della Corte di Giustizia europea non sono stati eletti, ma nominati.
In secondo luogo le politiche di austerità che da qualche anno sono richieste dai suoi messaggi al nostro governo appaiono ormai manifestamente sbagliate, persino agli occhi di vari economisti ortodossi che pure le avevano suggerite anni fa. Appaiono sbagliate per almeno due ragioni. Anzitutto sul piano dei risultati. Si veda la sua lettera inviata al nostro ministro dell’Economia nel novembre 2011, con allegato questionario che sebbene in forma interrogativa esigeva perentoriamente di introdurre drastiche riforme in tema di pensioni, mercato del lavoro, imposte dirette e indirette, pubblica amministrazione. Quelle riforme, subito attuate dal nostro ossequioso governo, hanno avuto — come è successo in altri paesi in cui la CE era intervenuta — risultati semplicemente disastrosi.
I disoccupati sono cresciuti di almeno un milione; i precari sono arrivati a quattro milioni; la disoccupazione tra i giovani supera il quaranta per cento; il Pil ha perso altri punti rispetto al 2007 (siamo a meno 6); l’industria ha perso un quarto del suo potenziale produttivo. Per di più il debito pubblico che nel 2009 era del 106 per cento sul Pil, quest’anno è balzato al 134 per cento.
Dal punto di vista delle istituzioni la Ue sembra davvero un edificio sgangherato. Avrebbe quindi bisogno di meccanismi istituzionali di compensazione degli squilibri di produttività, del valore reale dell’euro nei diversi paesi, del costo del lavoro, di legislazione fiscale. E di una banca centrale che fosse una vera banca centrale, in luogo di essere un istituto finanziario che si preoccupa per statuto solo della stabilità dei prezzi. La Comunità europea, invece, si limita a insistere sull’emanazione senza tregua di nuove regole. Siamo al punto che mentre l’intero edificio della Ue rischia di crollare, Bruxelles si preoccupa soltanto delle finestre che non chiudono bene.
Le politiche sbagliate, nel nostro paese come in altri, hanno causato grandi sofferenze a molte persone. Sarebbe normale che chi ha contribuito a causarle fosse chiamato a risponderne. Un ministro che compie errori analoghi prima o poi perde il posto (forse non in Italia, ma da altre parti sì). Un macchinista viene citato in giudizio. Un funzionario di banca viene licenziato. Ma grazie al modo in cui i trattati Ue sono stati redatti, Rehn e i suoi colleghi, a fronte dei gravi errori commessi, non rischiano nemmeno un modesto taglio alla tredicesima.
L’Italia non può pensare nemmeno lontanamente di uscire dall’Europa, ossia dall’Unione Europea. Noi crediamo in una Europa unita, però non nella forma attuale. Dobbiamo continuare a credere in un’Europa dove l’immensa maggioranza di quelli che non contano niente possano contare qualcosa.
Servirebbe un trattato Ue ampiamente riveduto che invece di assomigliare, come quello attuale, all’ordinamento di una società per azioni, dove la parola “concorrenza” ricorre una trentina di volte e “democrazia” non più di quattro o cinque, si configuri come un genuino documento politico.
Un documento nel quale trovino ampio spazio le idee dei padri fondatori in tema di uguaglianza; di giustizia non riservata solo a chi può pagare gli avvocati più costosi; di libertà intesa come un bene comune non accessibile soltanto a privilegiati; di partecipazione dei cittadini alle decisioni; di stato sociale; di cooperazione sociale ed economica tra gli stati membri, in luogo del mors tua vita mea in cui si compendia la cosiddetta competitività.
L’articolo 10 del trattato Ue stabilisce che “ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione. Le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini”. Ma i dettati economici e sociali che Rehn e i suoi colleghi della Ce, della Bce e del Fmi ci trasmettono ogni giorno da anni mostrano come nelle politiche reali perseguite dalla Ue l’articolo 10 sia totalmente disatteso. Ci piacerebbe, tra tutti gli articoli del trattato che parlano solo di mercato, che almeno questo fosse applicato. In attesa che una nuova “Carta” ci sappia restituire, a noi semplici cittadini europei, non una democrazia conforme al mercato (un concetto purtroppo condiviso da molti governi europei a cui la Ue va bene così com’è), ma un mercato conforme alla democrazia.
(6 dicembre 2013)
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