di G. Colonna.
Parte prima: il contesto internazionale
Per indicare brevemente le prospettive per l'Italia nei prossimi anni, dobbiamo partire da quanto accade a livello mondiale.
Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo è rappresentato dallo spostamento del baricentro delle grandi politiche di potenza dall'Atlantico al Pacifico. Si tratta di un passaggio significativo, perché modifica il quadro cui siamo abituati in Europa da oltre due secoli, la prospettiva alla quale ci ha assuefatto il XX secolo: nonostante il declino dell'Europa come sede delle grandi potenze mondiali, infatti, l'asse anglo-americano sul nord Atlantico, consolidatosi in due conflitti planetari, aveva fatto finora di quest'area il centro strategico del mondo.
Ma la crescente polarizzazione fra Cina e Stati Uniti d'America nel Pacifico non è in realtà cosa nuova per la storia americana, a differenza nostra: è ben noto infatti che sia stato proprio il Pacifico la prima arena mondiale in cui l'imperialismo americano si estrinsecò, verso la fine del XIX secolo; così come è risaputo che il presidente americano Franklin D. Roosevelt, il grande artefice della vittoria statunitense nella seconda guerra mondiale, vedeva nella Cina il partner ideale della riorganizzazione dell'ordine mondiale post-bellico, dentro e fuori il contesto delle Nazioni Unite.
Il fatto che oggi la nuova, crescente proiezione internazionale di una Cina, statalista ma aperta all'economia del capitalismo mondiale, che punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale in Estremo Oriente, ma anche in direzione dell'Africa e del Medio Oriente, impegnerà direttamente gli Stati Uniti nell'Oceano Pacifico e, in prospettiva di qualche decennio, li obbligherà ad una scelta fondamentale - Cina o ancora Giappone, come alleati strategici in quell'area? Una scelta che, a propria volta, non potrà non avere conseguenze a più largo raggio: per esempio nei confronti dell'India, da sempre in posizione di contenimento della potenza cinese, o della stessa Russia, trovatasi spesso ai ferri corti con ogni potenza che avesse disegni egemonici in Asia.
Questa nuova gravitazione della politica mondiale produce già effetti significativi anche in un'area di più immediato interesse italiano, quella del Vicino e del Medio Oriente. Se infatti il valore strategico per l'Italia e per l'Europa per questa parte davvero centrale del mondo è stato soprattutto legato a fattori ormai ovvi, quali le politiche energetiche e le relazioni con il mondo arabo-islamico - oggi essa diviene anche propaggine occidentale delle possibili tensioni in Estremo Oriente. Lo dimostra, ad esempio, il ruolo, pragmatico e di crescente influenza, della Cina in situazioni delicate per gli Usa, come nella questione iraniana e in quella, assai meno approfondita in Occidente, del Pakistan.
Simili cambiamenti di prospettiva non valgono, comunque, solo per l'area del Medio Oriente "allargato", giacché la situazione dell'intero continente africano già ne risente e ne risentirà sempre di più, data la crescente importanza della presenza, economica, militare e politica della Cina in Africa. Un continente che vedrà per certo crescere la sua importanza nei decenni a venire, vuoi per la presenza di materie prime di tipo strategico (vale a dire determinanti per scarsità e per utilizzo in ambiti essenziali come le telecomunicazioni e la tecnologia militare, ad esempio), vuoi come gigantesca riserva naturale di terre coltivabili, un aspetto questo che riveste per la Cina un'importanza forse determinante.
Comprendiamo meglio, alla luce di queste brevissime osservazioni, che il ruolo del Mediterraneo, snodo geografico e culturale da sempre fra Africa, Vicino Oriente ed Europa, diverrà, se possibile, ancora più rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo, quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglo-sassoni, oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo.
Nel Mediterraneo, per le ragioni appena tratteggiate, abbiamo assistito negli ultimi anni ad una singolare "ripresa" del ruolo della Francia come potenza mondiale, ruolo che sembra abbia trovato, dopo qualche esitazione, il supporto esplicito di Stati Uniti e di Israele: questo elemento relativamente nuovo, ha già avuto conseguenze determinanti per l'Italia, oggi relegata alla semplice condizione di piattaforma logistica dei grandi alleati occidentali, senza che di tale condizione di rinnovata minorità si pensi oggi nel nostro Paese ad analizzare ragioni e conseguenze, né tanto meno ad elaborare strategie per un più incisivo ruolo del nostro Paese nel Mare che resta non retoricamente ma concretamente Nostrum.
Il fatto che l'egemonia anglo-sassone, espressione epocale della storia occidentale, sia insidiata dalla muova potenza estremo-orientale non può non influire sul ruolo del Russia e, di conseguenza, sulla situazione europea.
Per certi versi la Russia si trova oggi in una condizione analoga a quella che l'impero zarista si trovava ad affrontare sul finire dell'Ottocento e fino alla Grande Guerra, esattamente un secolo fa. Il grande Paese euro-asiatico era infatti premuto ad oriente dalla crescente potenza giapponese, mentre ad occidente l'impero tedesco era un fattore gravido di incognite per il suo futuro.
Oggi, la politica estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che in occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è minimamente allentata, né l'Unione Europea ha saputo smarcarsi rispetto ad una politica atlantica che, dalla Guerra Fredda in avanti, ha sempre considerato una Russia forte ed autonoma come un pericolo per gli equilibri mondiali.
Il recente discorso pubblico del presidente Putin dimostra la chiarezza con la quale questi elementi sono presenti alla classe dirigente russa, anche in epoca post-sovietica e dopo la passeggera ubriacatura filo-occidentale che per qualche lustro ha sembrato possedere il paese. Putin ha affermato che, pur non perseguendo più una politica da superpotenza, la Russia non rinuncia al suo ruolo di grande potenza sullo scenario mondiale e per questo non intende rinunciare nemmeno ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare i propri fondamentali interessi strategici.
Si tratta di vedere, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull'Oceano Pacifico, se la Russia seguirà la propria vocazione asiatica oppure quella europea. Ed è davvero singolare il fatto che l'Europa continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una propria assai più realistica politica di avvicinamento ed integrazione con il grande Paese che costituisce la sola efficace copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione cinese.
In questo quadro, per quanto troppo rapidamente sintetizzato, emerge una volta di più l'importanza dell'Italia come Paese che si trova collocato, dalla geografia dalla storia e dalla sua essenza culturale, al crocevia delle forze che fin da ora contribuiscono a plasmare l'avvenire di un'umanità mai come oggi ricondotta ad unità planetaria.
L'evidente mancanza di coscienza, nelle classi dirigenti degli ultimi decenni, di questa importanza è, in definitiva, uno dei fattori più gravi e preoccupanti della nostra attuale condizione storica; uno degli elementi che meglio aiuta a evidenziare la devastante pochezza degli uomini e delle forze che, privi di un sentire vivamente operante e non retorico per la patria, si sono avvicendati sulla scena pubblica italiana, interamente rivolti al proprio particulare, colpevolmente ignari delle prove che anche l'Italia si troverà presto a dover affrontare.
Parte seconda: oligarchie finanziarie contro democrazia del lavoro.
La lezione del 2007-2008 non è stata compresa. Basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell'economia mondiale dei prossimi mesi ed anni.
I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell'economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all'orientamento speculativo che è insieme all'origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell'ultimo quinquennio, e che, allo stesso tempo, costituisce il fondamento stesso del potere dei "padroni dell'universo", come questi oligarchi amano definirsi.
Lo dimostra il fatto che nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all'adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi.
Primo, le isole del tesoro internazionali, collocate nei "paradisi fiscali" che sfuggono a qualsiasi controllo pubblico e che tuttavia sono la rete logistica mondiale cui si appoggia tutta la speculazione finanziaria internazionale. Secondo, gli strumenti finanziari speculativi, che fuori da ogni controllo continuano ad alimentare l'industria della speculazione, fornendogli una massa di manovra (stimata prudenzialmente, nel solo caso dei derivati, in 500.000 miliardi di dollari nel 2011), costantemente alimentata al preciso scopo di accrescere senza limite la capacità di moltiplicazione dei profitti, da un lato, e, dall'altro, di sottrarre a controllo il potere dei detentori della moneta virtuale. Terzo, le società di rating, i cui azionisti sono tanto profondamente radicati nel sistema finanziario internazionale da rendere risibile la pretesa di queste cosiddette agenzie di essere al di sopra delle parti: ragione questa per cui nessuna credibilità né oggettività possono avere valutazioni espresse da attori per altro già privi di qualsiasi legittimità giuridica internazionale.
La risposta dei governi occidentali, sia di modello statunitense che europeo, si è semplicemente articolata su tre linee: definire un perimetro di organizzazioni finanziarie internazionali "troppo grandi per fallire"; intervenire in loro difesa, con la produzione di una gigantesca massa di aiuti monetari, ad un costo di oltre 7.700 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti, mediante politiche dirette dagli stessi istituti di credito internazionali, sia nel caso della Federal Reserve che della BCE; spremere, con politiche di riduzione della spesa pubblica e di innalzamento della pressione fiscale, quante più risorse possibili dal lavoro dei popoli, allo scopo di impedire la bancarotta di Stati interi, come già avvenuto negli Usa, in Islanda, Irlanda, Grecia e in Portogallo, e come ancora potrebbe accadere: in tal modo "fiscalizzando" le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale.
Nessuna strategia diversa è stato possibile concepire negli Usa e in Europa per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati nazione dell'Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali: classe dirigente cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale. Una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale, giacché il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale, la sovranità, per un verso e, per l'altro, della sua principale forza politica, il lavoro.
La finanziarizzazione dell'economia mondiale, cui abbiamo assistito nell'ultimo mezzo secolo, ha infatti anche influito in modo determinante sulla trasformazione dei sistemi industriali. In primo luogo, a causa della tendenza, a partire dagli anni Ottanta, da parte degli attori del sistema finanziario, ad intervenire sul controllo delle aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati "merce" sui mercati finanziari mondiali; in tal modo, il management aziendale ha sempre più dovuto tenere in considerazione i desiderata degli azionisti di controllo, invece di concentrarsi su strategie produttive e commerciali virtuose; di conseguenza, le strategie industriali si sono rivolte sempre di più al breve termine piuttosto che a piani di investimento, ricerca e sviluppo in grado di rafforzare i sistemi produttivi nel loro insieme. La finanziarizzazione, dunque, è diventata il carattere prevalente anche al livello delle grandi imprese: in questo modo, si è anche accentuata la tendenza da parte della proprietà a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese.
Per questa via, assecondata anche da quanti hanno promosso l'idea della "democratizzazione della finanza", il lavoro produttivo e la piccola impresa, entrambi legati alle libere capacità umane, nonostante la loro predominanza statistica, sono stati marginalizzati: una tendenza che oggi si completa, quando i grandi gruppi bancari preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell'acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle PMI.
Le forze politiche al potere nei diversi contesti nazionali, di qualsivoglia orientamento, non sono state capaci, per le ragioni già viste, di elaborare politiche alternative a quelle dettate dai dogmi dell'economia speculativa. L'unica risposta in termini ideologici è stata quella di enfatizzare, difronte alla complessità ed alle dimensioni dei problemi operativi, l'intervento dei cosiddetti tecnici, la cui pochezza, che di rado ha saputo raggiungere persino un livello di buona pratica ragionieristica, è sotto gli occhi di tutti.
È dunque evidente che fino ad ora, in questo scenario, si è persa l'occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta. Tale mutamento non potrebbe che fare perno sull'emancipazione dell'economia reale, quella degli imprenditori, dei lavoratori e dei consumatori, dal controllo dell'oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti - con la creazione di autonomi strumenti di decisione, opportunamente istituzionalizzati. Istituzioni autonome dell'economia reale che dovrebbero esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito.
La crescente consapevolezza dei "limiti allo sviluppo" che si sono sempre più chiaramente manifestati negli ultimi decenni, impone anch'essa che le forze dell'economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della "ripresa", si impegnino a riorganizzare la produzione, nel campo dell'energia, della tecnologia, dei servizi, dei beni di largo consumo, orientandola verso prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata - un riorientamento in grado di imprimere nuovo dinamismo ai sistemi produttivi.
Solo dando voce, spazio e autorità a chi opera nell'esistenza reale degli organismi sociali, come imprenditore, lavoratore e consumatore, si può pensare di liberare l'economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto.
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